I fiori eleganti del Santo Genet

di Igiaba Scego

Santo Genet, ultima fatica della Compagnia della Fortezza di Volterra, tra i colori e i costumi psichedelici di Emanuela Dall’Aglio.

 

Foto di STEFANO VAJA
Foto di STEFANO VAJA

Fiori, ci sono fiori dappertutto.

Fiori tra i capelli, fiori che adornano giacche ipercolorate, fiori che come rampicanti montano su visi traslucidi. Armando Punzo, mente e cuore della compagnia della Fortezza di Volterra, è attorniato da fiori, quasi circondato. Nello spettacolo Santo Genet i fiori sono minacciosi, sono come pistole puntate che fanno sussultare di piacere i nostri petti sordi. Minacciano il nostro equilibrio, il nostro perbenismo, la nostra morale. Fiori maledetti, tragici che ci spingono a cercare in noi una qualche tenerezza che abbiamo dimenticato di possedere. In questo Armando Punzo segue fedelmente il verbo di Jean Genet che vede un filo rosso legare i fiori al carcere. D’altronde nel celebre incipit di Diario di un ladro l’autore multiforme francese dirà esplicitando la sua visione: “Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo”.

Ed ecco che l’intera fortezza medicea si trasforma sotto ai nostri occhi in una serra. Non solo i detenuti-attori guidati da Armando Punzo si trasformano in rose, tulipani, anemoni, ma l’intero impianto carcerario diventa una foresta colorata ed anarchica. Il bianco cangiante della scenografia esterna raffigurante un cimitero lisergico e gli specchi moltiplicatori dell’interno hanno la funzione di dare luce a qualcosa che spesso la società nasconde. Ed ecco che gli attori-fiori di Punzo danno vita ai mille personaggi di Genet – Santo Genet come lo aveva ribatezzato Sartre- nel segno del colore e della passione.

Passione d’amore, ma anche passione di dolore.

In Genet c’è parecchia sofferenza. Punzo e i suoi attori lo sanno e ci fanno i conti. Cercano con la loro carnalità, i loro vissuti, di colmare i vuoti d’amore di un autore francese nato senza padre e abbandonato presto dalla madre. Quei vuoti sono i loro vuoti, ma sono anche i nostri. Il vuoto di un mondo moderno che ha perso ogni grammatica sentimentale che possedeva. Il tentativo di Armando Punzo, e della sua compagnia, è di fatto quello di ricreare l’ossatura di quella grammatica antica. Ed è in questo che i personaggi di Genet sono ponti indispensabili per arrivare al nostro essere più profondo. Divine Culafroy di Notre Dame de Fleurs o George Querelle del celebre Querelle de Brest sono solo pretesti per parlare di noi. Ed ecco che il cuore quasi si ferma all’apparire delle quattro vedovelle transessuali, castigatissime nei loro abiti neri e le loro violette di plastica. Camminano a passettini, geishe improvvisate, che sembrano dirigersi verso il nostro funerale.

Il pubblico è parte di questa serra. Vorrebbe essere altrove a tratti, perché i sentimenti, gli sguardi penetranti, quel contatto di respiri e avambracci crea disagio. C’è folla, c’è claustrofobia. Ma quel colore ci avvinghia, ci costringe a vagare per celle, a cogliere brani quà e là, alla rinfusa. Giriamo come automi in quella fortezza estranea,in quel carcere così alieno alle nostre esperienze quotidiane. Sudiamo, cerchiamo di capire, non capiamo. Del resto lo straniamento era cominciato prima dello spettacolo stesso con i controlli della polizia per entrare nel carcere, con quella disconessione con la tecnologia a cui non siamo più abituati. Per questo siamo inondati da sensazioni strane, qualcuno per la prima volta fa la conoscenza con se stesso. I tablet, gli smartphone, i computer sono banditi e noi in un certo senso liberati o a seconda del sentimento totalmente persi. Il pubblico confuso è tutto sommato felice (o disperato a seconda del caso) di questa sua nuova condizione. Le persone si beano, si compiacciono di questo essere nuovo che si porteranno addosso per poche ore. Alcuni visi del pubblico rasentano l’estasi, altri invece non si lasciano andare, ancorati alle loro piccole inutili certezze, fanno fatica a vivere nello spazio esistenzialista di Santo Genet. I loro visi contratti ed austeri si piegano in smorfie abominevoli. Il sentimento regna, buono o cattivo che sia, regna. Ci passano accanto generali, prelati, San sebastiani, marinai, prostitute, guappi. Gesti rallentati, sorrisi accennati. Mi chiedo- così all’improvviso- chi guarda chi? Chi è veramente in scena? Il pubblico o gli attori? Armando Punzo ha creato di fatto una doppia rappresentazione, un teatro che ti cade letteralmente addosso.

Ed è in questo progetto di teatro totale che i costumi assumono un ruolo centrale.

Emanuela Dall’Aglio, parmigiana, più che la costumista di Santo Genet è quasi il Michelangelo dello spettacolo. Il suo è un processo creativo che mi affascina. Dopotutto i miei antenati, i miei genitori, sono somali e la Somalia (nonostante la guerra che sta andando al galoppo verso il venticinquesimo anno di conflitto) è ancora la patria del barocco, dell’esagerato, della carne viva che si fa colore. Non potevo io non essere colpita dal suo lavoro.

In lei si percepisce una conoscenza meticcia, che l’ha portata a mischiare lo studio attento e meticoloso (istituto dell’arte e accademia di pittura di Brera) con una formazione sul campo che prima di approdare al costume è passato per un lavoro come decoratrice e realizzatrice di fondali.

Il costume diventa non a caso scultura, impalcatura, dove si crea la relazione tra il corpo dell’attore e il suo lavoro. Emanuela è attirata dal costume che trasforma chi lo indossa anche se è scomodo da portare, D’altronde su questo con Armando Punzo c’è piena concordia. È lui a dire ai suoi attori “usa la scomodità per trovare un nuovo modo per stare in piedi”. L’impalcatura di Emanuela Dall’Aglio, quasi come una corazza, condiziona il movimento, condiziona l’essere, impedisce di abbandonarsi alle solite posture.

Ma è anche una corazza da interporre tra sé e il mondo. Permette la libertà, il celarsi, l’atto performativo. Il costume più è scomodo, più è fantascientifico, più rende il corpo libero di giocare con se stesso, le parole e il mondo.

Ed ecco che le giacche si riempiono di piume e i pantaloni di gomma lattice. È il trionfo del leopardato, dei tessuti damascati, degli ori e degli immancabili fiori.

I più timidi si sentono protetti da questi costumi e i loro sguardi si fanno più coraggiosi, a tratti sfacciati.

D’altronde lo stesso Genet diceva che l’eleganza era “Trovare un accordo fra cose di cattivo gusto”. Ed Emanuela Dall’Aglio segue queste parole come una Bibbia, le fa proprie. Nelle sue sculture di tessuto c’è tutta la storia dell’arte dei suoi primi studi. C’è di fatto qualcosa di Pontormo a tratti, almeno così mi par di percepire a pelle. In verità potrebbe anche esserci Leonardo, Rosso Fiorentino, Tiepolo, Parmigianino. Io non lo so. Ma percepisco che la storia dell’arte, quel Rinascimento e quel Barocco, fa parte della sua esperienza visiva come studiosa in primis e poi come costumista. Ma – è bene sottolinearlo questo- per sua stessa ammissione Emanuela Dall’Aglio sa che ad influenzarla di più è l’arte contemporanea e nemmeno disdegna le sfilate di moda. Per preparare Santo Genet infatti si è imbevuta di installazioni, performance, defilé. Stimoli multiformi che le hanno permesso di creare qualcosa che prima non c’era. Ed ecco che lo stile eclettico di uno stilista come Galliano si sposa con l’immaginario omoerotico di Moschino. E per andare verso l’arte contemporanea, Emanuela Dall’Aglio, sa di essersi abbeverata alla fonte caotica di David LaChapelle e all’iconografia mitica di Pierre et Gilles. In Emanuela Dall’Aglio, non a caso, il costume si fa buffo, fantastico, onirico, sprezzante.

Per fare gli abiti è stata aiutata da alcuni attori della fortezza che avevano una certa dimestichezza con il mestiere e le macchine da cucire. Il lavoro poi si è fatto tutto con materiali poveri, reinventati, rattoppati. Molte tende sfrangiate, molti tessuti damascati sono stati riciclati da vecchi film di Cinecittà. Inoltre anche l’attore ha partecipato con i suoi accessori a questa costruzione barocca di sé. Ed ecco che una collanina, un tatuaggio mostrato, un paio di occhiali da sole rendono il tutto più plausibile nella sua eccentricità. Il risultato è ricco, sontuoso. Ma è una ricchezza effimera. Lo si nota dal gioco tra magnificenza e povertà che emerge nella figura del Papa. Una mitra gigantesca sfiora il soffitto ed ori spuntano da ogni lato per soggiogare chi osserva. Ma la stoffa, l’abito è solo davanti. Dietro non c’è nulla, un vuoto che è spesso metafora di una vita fatta di apparenze.

Gli abiti scultura giocano sulla loro pretesa di essere importanti. Il generale nero ne è un esempio preciso. La divisa incute timore, come del resto il copricapo alla Bonaparte che indossa mette di fatto distanza. Ma, come fa notare Emanuela Dall’Aglio, il militare è un bluff. I suoi gradi sono di pietre comprate a due soldi in qualche emporio cinese se non addirittura bottoni a buon mercato di merceria. C’è un’attenzione al dettaglio nel senso del vestire di Emanuela Dall’Aglio . Gli ombrellini delle vedove, il laccio nero al braccio del marinaio, i veli fiabeschi delle donne, i guanti da cucina della serva sontuosamente vestita.

Il corpo dell’attore diventa una pagina bianca dove disegnare ossessioni, paure e far fiorire invece speranza. Emanuela Dall’Aglio tenta, sperimenta e la sua non è mai una imposizione, ma un dialogo che rende l’attore partecipe come non mai al suo presente.

Tutti quei colori stordiscono.

Sono stordita.

Finisce lo spettacolo in una epifania che non si coglie fino in fondo. Non è uno spettacolo frontale del resto. Capire non è importante. Santo Genet lo sentiamo, lo viviamo, ci cade addosso come detto in precedenza.

Mentre mi avvio lentamente verso l’uscita del carcere mi chiedo se quell’eleganza barocca, profondamente dissonante, sarebbe piaciuta a Jean Genet. Se su quella barca-serra ambigua e struggente, in cui è stata trasformata la fortezza di Volterra, ci si sarebbe imbarcato volentieri pure lui. Non ho naturalmente la risposta di Genet, dovremmo andarlo a trovare nella sua solitaria e poverissima tomba di Larrache (cittadina a sud di Tangeri) per saperlo. Ma una cosa la so, qualcosa che posso dire senza titubanze, ovvero che la compagnia della fortezza riempie i nostri occhi di spettatori di una magnificenza onirica che ci lascia senza fiato. E senza fiato ci lasciamo attravesare da una bellezza che ferisce.

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