Strategie per arredare il vuoto
di Giacomo Verri
La vita procede nonostante la crepa aperta sul limitare dell’estate: il tredicenne Edo, protagonista di Strategie per arredare il vuoto, esordio di Paolo Marino (già finalista al Premio Calvino e ora in libreria per Mondadori, pp. 227, euro 17) ha perduto i genitori e, com’è naturale in questi casi, la famiglia apre grandi ali per contenere il dolore e per offrire al ragazzo una nuova casa, quella di zia Selma e di zio Dante. Ma Edo con tenace pacatezza rifiuta, “preferirei di no” glossa, e fa spazio al silenzio che aggira spiegazioni e formule. Non è un atto della volontà presente a se stessa, come fu di Cosimo che per fuggire il piatto di lumache rampò sull’elce senza più discendervi; del Barone esprime l’insofferenza, non più viva ma catatonica, priva di spinte a uscirne; Edo, barricandosi, lascia fuori le parole eccessive e inutili dei parenti, l’esperienza del mondo, degli amici, la vita.
Se fosse un eroe, non dico romantico, ma decadente, la clausura domestica lo condurrebbe a praticare un ostinato approfondimento di ciò che si è e di ciò che non si riesce a essere. Ma Edo non fa nulla, rimedia i pasti e parla poche parole, ché le uniche buone sembra recitarsele solo in testa; facendosi scivolare sull’impermeabile piumaggio della propria ipnotica atarassia gli inviti e le preghiere degli zii, accoglie tra le mura – senza volerla, senza rifiutarla – la compagnia delle gemelline Rovati, Greta e Lavinia, di Enea che s’accula prima della soglia e narra al padroncino di casa di avventure con la bicicletta, di un surreale rappresentante d’aspirapolveri ossessionato dai microbi, del terzetto di bulli (Seba, Carli e Draeger) che riddano in salotto, fumando e urlando. I colloqui decadono a rumore di sottofondo sebbene da Edo non facciano altro che parlare, tutti: “attaccavano con un discorso, ne appiccicavano un secondo, ne sovrapponevano un terzo, v’innestavano un quarto, ritornavano al primo”.
Finché pian piano la casa si svuota delle persone, Edo sgombera i mobili della stanza che fu dei genitori, ricopre tutto con la pellicola trasparente e si automummifica con la garza. Desidera cancellarsi e cassare la propria esistenza, così, senza enfasi; non c’è dolore, non una lacrima, nessun cenno alla disgrazia che ha inghiottito papà e mamma. Ne esce la figura di un mondo inutile dal quale assentarsi facendo di se stessi un carapace, e eludendo la costruzione di un destino reificato e coatto: “trovavo insopportabile che fosse stato stilato un catalogo di cose utili da mettermi a disposizione. Ci voleva della malafede, la volontà subdola di darmi un posto e qualcosa da fare”.