5 note per Hilde
di: Tommaso Ottonieri
1. NEL TUONO DELLA H: UNA SAGA DEL RESPIRO
Salutata, a ragione, dal primissimo apparire, come opera destinata a segnare un cardine imprescindibile, e punto di non ritorno, nella narrativa italiana di questo già avanzato inizio di millennio, poi di recente bacchettata, piuttosto risibilmente, per via di qualche virgola giudicata scoscesa più di quanto accettabile da editors privi di estro, La gemella H si presenta e dichiara (fin nella noterella editoriale in quarta) in veste di saga familiare. La saga – va subito detto – riguarda, centralmente, il nazismo; ossia – ancor più della sua espressione realizzata, – la persistenza della sua ombra, cioè, di esso, il lascito invisibile: il modo in cui è penetrato nelle coscienze d’Occidente, divenendone la filigrana rimossa eppure sempre incombente, attiva, pronta a riemergere quasi er via di atti mancati nella meschina economia della vita quotidiana. Il pensiero va, naturalmente, a quel vero e proprio capovolgimento inverante, che è The Man in the High Castle, di Philip K.Dick, ambientato (lo sappiamo) in un Nordamerica nel tempo in cui L’Asse ha vinto la Guerra; ma l’effetto è ancor più straniatamente “vero”, se l’agnizione si centra sulla terra dei limoni in fiore, quella “gemellare” dell’Asse, maestra di nazionalpopulismo prima che, poi, satellite ed elettiva allieva, d’una nazi-ideologia dissimulata e definitivamente diffusa (tradotta in impero totalitario della comunicazione e della pubblicità): tantopiù se eletta dalla mentalità germanica come mito di classicità sovratemporale, e meta elettiva di Grand Tour (tappa d’ogni individuo romanzo-di-formazione) prima ancora che di turismo di massa; compiendosi nel tempo orizzontale e sospeso della megalopoli vacanziera dell’Adriatico di Romagna, che la saga, discesa dal Mitteleuropa, giunge così a inverarsi nella nostra stessa genealogia.
Seppur legittimata dalla struttura, e dalla stessa coralità (epica cioè, qui anti-epica) della parola che la conduce, la qualifica di saga appare del resto straniata, in parte impropria, per questo romanzo; quanto mai peculiare è la ripresa di questo genere di fondazione: rescindente e scomposta specie di “saga” in verità, se essa riprende, e quasi dal didentro (l’effetto spiazzante è quello di una camera da presa interna, una sorta di GoPro o meglio una piccola moltitudine di GoPro, capaci di rovesciarsi a 360° e all’indietro fine nelle fibre dei corpi che ne sono fatti supporto) la fisarmonica degli eventi di una “esemplare” famiglia ariana tra la grande guerra e il tempo stesso in cui Falco empiricamente scrive la sua opera, se essa svolge dunque sull’arco di 4 generazioni, pure si comprime sul nesso incomunicante di una coppia tanto indistricabile – geneticamente, in primo luogo – quanto disgiuntiva.
Tale è, dichiarata nel titolo, l’emergere, – ipostasi (o mito negativo, che sia Bayer o RKO) in risalita quasi da un laboratorio dei più ambiziosi e pindarici orrori (si pensa a Whale, oltre che a Mengele naturalmente), – d’una coppia speculare e asimmetrica insieme, uno pseudo-couple tutto straniato a sé e a chi, lettore, sia chiamato a decrittarne la loro (dis)simiglianza: corpi e segni che di riflesso, e quindi su noi, quasi su una superficie di microspecchi a mosaico, costantemente si focalizzano e disindividuano; disgiunta coppia di gemelle monozigote, dal nome entrambe a iniziale H. (Helga, Hilde) anzi H.H. (Hinner il cognome), incarnazioni ultime d’una genealogia e un Heimat in cui il rumore bianco di quella non-lettera si fa determinante marca identitaria (Hans è il padre, “intellettuale organico” del Reich – giornalista piccolo di cronache dell’ultraprovincia bavarese, – e ancora Herbert è il padre di Hans, il fabbro). L’identità delle due è tanto più irriducibile, l’una in rapporto all’altra, quanto più la corrispondenza fisica appare sovrannaturalmente speculare, epidermica: quanto più assoluta è la comunanza, oltre che di geni, di fattezze. Il titolo, di fatto, genera una prima figura di rescissione (la scrittura di Falco è questo bisturi sottile, capace di penetrare negl’incastri di una simile doublure e liberarne, ciascuno nel suo verso, i contorni… e giunge tanto più en abîme allora quello straordinario racconto-nel-racconto dedicato al cartellonista Lenhart e al suo immaginario modello, apparentemente irrelato ma quasi, di questo libro, il “manifesto” effettivo); la gemella: quale, o ancor più, perché tanto célibataire, rispetto al suo doppio? Una funzione, quasi; che rimanda all’immagine che rispecchia, ma senza rifletterla, né contemplarla. La H, del resto, è fonesi legata al respiro o forse alla sua assenza (la fine di Hilde, e ancor più, allora, la “sopravvivenza” di Helga… il “respiro” che, ultima parola del testo, sembra assorbirlo per intero, ad estinguerlo); della performance narrativa di Falco, il rumore-base, bianco – a presiederla per intero, nel vibrare occulto del suo indicibile silenzio. Di questa lettera mancante (afona e risucchiante, insieme) cogliamo la risonanza d’ogni mutezza, ogni blank: ma anche, una persistenza dell’invisibile, dell’inespresso, persino dell’incompiuto. Di quel che segna, cioè, in tutte le sue pieghe, l’esperienza senza spessore di voci impresse nel tempo, traumatico, che (pur disorganiche a esso) accettano e rappresentano: nell’evoluzione, e devoluzione, in cui disegnano le inconsistenti scie dei loro fiati e tracciati, in cui progressivamente, fatte silenzio, come respiro, dileguano.
2. LA DISTANZA MONOZIGOTE
La gemella, la mai del tutto integrata, la de-integrata, in parte (“ribelle conformista”, la si dice), coscienza che di questo libro conduce il dire (per sempre diffrangerlo, sempre esserne diffratta) delle due è Hilde. Parola-coro (coro esterno) di questa scrittura tanto coerentemente molteplice ed esplosa, e pervasa non meno di pathos inapparente – per essersi imposta come una disciplina di drastico abbattimento delle sue temperature altissime; parola interna e straniata (ma non estranea) a ciò che, nella saga e nella sua immediata contrazione, si svolge. Nulla di più esemplare del resto, della sua/loro anagrafe, e della determinazione del loro Heimat; è nella Baviera profonda, in un suo quintessenziale recesso virtuale (“Bockburg”, cittadina verissima e immaginaria, che la scrittura di Falco sa ri/costruire tridimensionalmente ex-novo come fosse un Truman Show), è nel topico ’33 della presa del potere di Hitler (H che riassume/implica ogni altra, nell’ottica di questo libro) anzi 40 giorni dopo la stessa, come la maturazione irrevocabile e “incolpevole” d’un morbo, è proprio lì, proprio allora, che la vediamo venire al mondo: quasi che fosse da un abisso di alienità, pervasivo e inestirpabile; seconda a Helga la quale (a differenza di lei) fin dall’inizio, nella foga del fuoriuscire, sembra voler assimilarsi senza residui al suo lessico nazional-familiare da cui è sorta, e che continuerà ad alimentare passivamente e ritrasmettere, passo su passo, grano su grano, respiro su respiro.
Il punto di vista che si assume attraverso la focale pur dislocata di Hilde, introduce (chi, hypocrite, legge, presumendo ancora di trovarsi estraneo – quando invece, a specchio, la gemellarità lo include e assorbe, come tela di ragno) ci introduce giusto sul margine, inerte ma non avulso, di quello scorrere dell’aberrarsi della storia, dal nodo perverso che, per la coscienza d’Europa, coincide con la parabola del Reich, e con la riconversione del dopoguerra avanzato. Ché la prospettiva offerta da lei, la gemella H, l’ignava ammutinata, inconsapevolmente connivente con quel che più le repelle, l’angolo di visione su ciò che accade – seppur implicato per qualcosa come un peccato originale che coinvolge, dicevo, ancorché quella ariana, l’intera genealogia d’Occidente, – resta laterale, alla periferia degli eventi della “grande” (orrifica) storia, si ferma sui dettagli che, in quel margine, più indirettamente li riflettono, e ne amplificano la sordità del suono. Emanuele Trevi, recensendo il libro (“Il corriere della sera”, 2.3), parlava di un “orrore a bassa intensità”, fotografato dal prisma dello sguardo di Falco: come fissandosi su una miriade di fotogrammi Hopper sfalsati l’uno sull’altro, aggiungerei (H, altra H, in Hopper); ed è la “normalità” ineluttabile dell’aberrazione, nel suo incedere impercettibile e accettato, il passo costante del libro, suo basso continuo, cioè di esso, insieme, il fotogramma e il suono: a prolungarsi come dietro un vetro opaco, attutito da un rimbombo di sordina, come dal retro d’una finestra parzialmente insonorizzante che si affacci allato all’abiezione, senza volersela confessare, perché intrattiene – con chi guarda da sé stornandola, quell’abiezione – un legame di sangue.
Mi riferisco, nell’immagine della finestra, a quella che forse è, magistralmente, scena chiave del libro, o almeno nella prima parte di esso: la tipica domenica tedesca di cui Hilde scolara deve scrivere per un compito a casa, e che, del retro delle imposte, distratta mira lo svolgersi deflagrante di un piccolo pogrom domestico ai danni di una coppia di ebrei lituani, ad opera di una squadraccia di quartiere capitanata dallo zio… (ed è una scena, una visione, questa, che sembra anticipata da certe prospettive livide de L’ubicazione del bene: e anzi, storicamente, anticiparle)… Qui, come altrove e ovunque, l’abilità del narratore è nel lasciar percepire lo sviluppo della vicenda, anche storica oltre che familiare, il suo divenire, stando dentro le righe sempre, liberandola, lasciandola percepire, evitando le forre del troppo detto, dell’inautentico, della retorica; ovvero, come osserverà Giulio Ferroni nella sua acuta e appassionata recensione (“l’Unità”, 15.4), “la capacità di interrogare l’evidenza oscura del quotidiano”. L’ombra esemplare di Eichmann, della banalità-del-male allargata nella sua ragioneristica “normalità” miseranda, si estende facilmente sul suo interprete minore e sopravvivente, Hans Hinner, il padre, direttore di testata locale, microimprenditore della comunicazione organica (al regime) prima di riconvertirsi, nel dopoguerra, in microimprenditoria del tempo libero, tempo sospeso, autoeternante, sulla compattezza di sabbia della costiera romagnola.
3. (SOVRA)ESPOSIZIONI DELLA BILDUNG
Non meno topica dell’origine anagrafica, è l’evoluzione di quella formazione, a bassa intensità di propensione sentimentale: in un dopoguerra in cui la ricostruzione, la risalita dallo shock, scivola nei jingles e nei ricorsi di una compassata dolce vita rivierasca (d’Adriatico), tra possibili e mai attinte però derive di commedia all’italiana (nei personaggi italiani maschili della seconda parte, in cui è possibile riconoscere di volta in volta i tipi di Sordi, Gassmann, Tognazzi…): è in questo dopoguerra, nella già gemellata Italia (nell’Asse), entro il tempo sospeso – accogliente e inquietante – d’una megalopoli dell’eterno tempo libero e della sua invisibile e persino bonaria ferocia, che si conduce l’educazione sentimentale delle gemelle, anzi della gemella. Che si conduce il loro (il suo) romanzo di formazione, anzi, qui esposto come a non rappresentarsi (ché si sottrae alla rappresentazione; e semmai, si presenta, nel silenzio della sua interminabilità, implacabile e impercettibile come appunto il respiro): Bildung flessa e sfalsata al modo stesso della Saga – costruzione d’una disidentità millimetrica e abissale (o d’una necessaria incompiutezza ossia distanza da ciò che all’esistente è invece in tutto omologo), così come possono essere gemellarmente dissimili due gocce d’acqua, due granelli di sabbia, se ingigantiti da una lente… Bildung che s’intreccia alla costruzione, piccoloborghese e scientifica, mattone su mattone, d’un microimpero edilizio, non più appariscente di quello di tanti altri. – Questo duplice e divergente percorso di formazione e fondazione, trova insomma compimento su una metafisica piattezza di Riviera, dove Hans, il padre, ha investito in un albergo (Hotel Sand) proventi e prebende della sua vecchia imprenditoria di nazista iperintegrato, specializzandosi a ospitare i suoi connazionali forse riciclati anch’essi; su quel lungomare quasi bidimensionale, fragorosamente così muto, km cubi di cemento gettato su di un mare devitalizzato, così scintillantemente spento (scrive Falco: “la dote etica dell’Adriatico”, in una sorta di metallico effetto-Pagliarani): e asfalti sabbie cortili su cui vediamo scorrere lugubri e sempiternamente banali le sagome di ogni possibile riciclato (dal nazismo) come se fosse un fantasma di Sudamerica (l’ombra dell’Ingegnere, anche in questo).
E soprattutto, poi: in un dopoguerra di tal fatta, tanto addomesticato quanto subdolamente feroce – in cui cioè l’ideologia totalitaria si svela come microcapitalismo fai-da-te, imprenditoria micragnosa dei corpi, del tempo, prima ancora che delle merci, – in questo nonluogo di villeggiatura, che la nostra Italietta vera simula e realizza, giunge a compimento il destino di quella esemplare genealogia nazionalpopolare, che unisce le gemelle a noi: convertitasi in supernazionale e in parte pecoreccia (commedia all’italiana in versione soffusa, e senza bonarietà che tenga; e febbri del sabato sera magari, dall’era della tv a canale unico, con altre teutoniche gemelle, le Kessler, a protendere giù dai quei pochi pollici di schermi chilometri di leve intimidatorie, a suscitarne i più alieni e inattingibili sogni).
Perché, man mano che la narrazione procede, si chiarisce che ciò che importa è appunto quest’ultimo focus, tanto strettamente avvinto al primo; in parallelo, dal suo punto di vista straniato, la saga di cui Hilde più che protagonista è testimone, narra dunque di noi, di un capitolo imprescindibile del formarsi ultimo d’una identità italiana, senza (troppa) soluzione di continuità dall’epopea piccoloborghese enfatizzata dall’età fascista. E del modo in cui questa identità, questa ideologia, dal tempo del secondo dopoguerra si risetta e si sviluppa, nell’esplosione euforica dei consumi e dell’edilizia palazzinara (tantopiù in questo lembo di seconde case, o di fantasmi di seconde vite – occasionali o stagionali). Il modo, anzi, in cui persiste pur nella (apparente) estinzione di essa; e in ciò soprattutto risiede (più ancora che dalla contingenza d’un loro trasferimento intermedio a Merano, più che altro per ragioni di salubrità dell’aria, più o meno negli anni della guerra) la ragione dell’immigrazione degli Hinner sulla Riviera nostra nazionalpopolare: ché, qui, da sempre tutto si è riconvertito – gattopardescamente, rimanendo immutato, nella sua ultima sostanza; se Hinner, Hans, rinuncia a decollare verso il Sudamerica – dicevo – per riciclare la sua identità e le sue responsabilità (come tanti nazisti meno piccoli di lui, come Eichmann ad esempio, di cui lui quasi è controfigura), ciò è perché è qui che tutto da sempre è pronto a riciclarsi e ad autoassolversi: in verità il Sudamerica – direbbe Falco – è qui, ma ritradotto ogni volta in un sospetto di farsa, o di raggelante operetta.
Un primo lavoro che questo libro richiede al suo lettore (lo notava Andrea Cortellessa, più esplicitamente nella presentazione nell’ambito di “Libri come”, Roma 16.3, che nell’assai bella e densa recensione uscita il giorno successivo, su “La Stampa” e poi “Doppiozero” in versione integrale), è quello da operare su se stesso, nel riconoscimento/disconoscimento di quella traccia che, striscia appena percettibile, solca la nostra identità, come una ferita sempre aperta: e sembra averla conformata, come una filigrana tagliente e sottile. C’è in questo (nell’ethos radicale, che lo caratterizza) un tratto demoniaco e insieme catartico, nella scrittura di Falco: in essa, siamo indotti a riconoscere e quasi accettare la “normalità” feroce dell’iter culturale che rappresenta, a posizionarci entro il punto di vista, le (ir)ragioni banalmente orroriche e distorte, – salvo agire, una volta operato il riconoscimento, a scollarla da sé; ci conduce, ipnoticamente, ad assumere ad assumere il punto di vista obliquo di Hilde, dal focus dello sguardo di lei così rivelante e implacabilmente fotografico – che però, nella sua resistenza passiva, per quanto testimonii d’ogni menoma banalità d’orrore, resta chiuso nell’incandescenza della sua frigidità senza che paia voler scalfire veramente le logiche da cui si ritrae, e che piuttosto, fotograficamente ritrae: i ritratti degli ospiti dell’hotel rivierasco, scattati con una costanza alla August Sander… (per inciso: anche dal nome di questo fotografo, oltre che dalla granularità della sabbia/Sand, sembra venire, scelto da Hilde, il nome dell’albergo). Queste logiche, da Hilde focalizzate con un fish-eye d’alieno, vengono da lei esposte e messe a nudo, senza che faccia nulla per evitare il retaggio d’una connivenza e in fondo d’una accettazione; eppure, l’esposizione stessa cui è soggetto lo svolgersi pellicolare onni-registrante del suo sguardo (“ritorno al reale”, sì: ma alla radice stessa, del reale), tale (sovra)esposizione strania ogni elemento, lo parcellizza mentre lo sta enfatizzando (in senso ottico, dico), lo brucia e svuota mentre lo mette in vista (così anche la splendida foto in copertina, di Sabrina Ragucci): è questo lucido dissezionarsi, germinante-moltiplicativo del continuo del reale, a denunciarne l’effettualità del vuoto, e a staccarci, in definitiva, dalla nebbia d’ogni (nostra) percezione acquiescente.
4. LO SPAZIO OTTICO, LA POESIA DELLA PROSA
Non procedo oltre in un sommario della Gemella H, non mi arrischio a farlo; la vicenda narrata, tanto è lineare, quanto è ricca di pieghe, e piaghe, di macro-microapici, di picchi abissali messi come in sordina, che si riverberano appena percettibili sopra/sotto la soglia del suono: e sarebbe impossibile scorporarli dal contesto e dal flusso in cui si producono – anzi stanno producendo, lì, sotto gli occhi del lettore, emersi come da un sottovuoto denso di elementi, scheggiati dall’ovunque a concentrarsi tutti lì, in quello spazio multiplanare e insieme claustrofobico che la scrittura di Falco (scrittura-sguardo) apre ai nostri occhi, per aprire i nostri occhi (consegnar loro la chiave dello sguardo). Nulla, qui, è davvero riassumibile, nulla nemmeno s’è riassunto nella caméra-stylo stessa di questo scrittore, prima di essere, – come dal vivo, nella sua stessa necrotica e non meno pullulante, convulsa sostanza, – messa in pagina da lui; e allora, va liberato, il libro, la sua storia, consegnandolo ad ogni singola esplorazione di lettura: alla ricezione, vorrei dire, polifonica, poliedrica, cui chiunque voglia affrontare questo testo, non potrà fare a meno di esser trascinato, pagina su pagina (e pagina dentro pagina vorrei dire – se ciò che anche stimola questo romanzo, è una lettura a strati, a schiuder le falde di senso di pensiero di materia di visione che in ogni capoverso, ogni periodo, si sovrappongono con travolgente lucidissima furia).
Ciò a cui allora è innanzitutto produttivo rivolgersi, è la potenza impetuosa del fluido di questa scrittura. Tanto più se nell’esercizio d’una prosa integrale, inaudita: esercizio veramente poietico, in atto, dal vivo (oltre che sul vivo di esistenze silenti, cui solo quella scrittura, a ritroso dalla loro stessa in/compiutezza, sa riconsegnare l’esemplarità che è loro propria); in atto giusto nell’estendersi e grammaticalizzarsi del suo sguardo, stanante ogni dettaglio, ogni onda di suono. La presa mirabile della scrittura-sguardo di Giorgio Falco, cui non è dato fuggire, risiede appunto nel passo vorrei dire poietico della sua prosa; che non significa poesia-in-prosa, né, tantomeno, prosa-poetica – piuttosto, poesia della prosa: creazione diretta e fisica, fattuale, dell’oggetto, in quanto suono e in quanto visione, giusto all’interno (dall’interno) del linguaggio, del suo autocostruirsi, tratto su tratto, tassello su tassello.
È da dire in questo che la disciplina del pastiche di Falco e la crudezza della sua precisione, nella sua spinta convulsa a sbalzare i contorni d’ogni dettaglio, si riconduce in parte alla parola, al parlato, di una narrativa in versi come quella Elio Pagliarani, a tratti ripreso esplicitamente, non nei ritmi solamente, o nella vertiginosa ampiezza visuale-sonora dei montaggi, ma poi soprattutto nei temi (fin nel colore acceso d’acciaio che gravita sui set del romanzo: da quello impiegatizio milanese della Ragazza Carla, all’appassirsi del mare della Ballata di Rudi…), che virati permangono come struttura-base di alcune delle invenzioni fondamentali di questo romanzo. Da maestri grandi come Elio, eppure in modo sempre autonomo, da autore ormai inconfondibile, Falco apprende le qualità percussive della scrittura, che non possiamo chiudere in un macrogenere (non prosa, né tantomeno poesia) ma è poiesis, è un agire vivo nel/del linguaggio.
Mai didascalica, mai de-scrittoria, mai a designare alcunché dall’esteriorità d’un secondo grado: questa scrittura è in sé una macchina della realtà (realtà sformante, anamorfizzata, che si allarga e si stringe in lingue di fuoco, a insinuarsi nelle pieghe (le piaghe) del nostro essere fisico e immaginario); per il cuore controverso instabile delirante di esso (il reale), per l’inconcludibilità del suo dolore, la parola della Gemella H sembra trovare sempre nuovi e imprevisti varchi, quasi a formarlo entro sé, ogni volta ex novo. Eppure, questo evocare il reale dalle pareti interne d’una lingua, e finanche dal respiro di un corpo, non è qui pratica di sciamano; c’è una precisione impietosa e non meno convulsa nel costruirsi, linea su linea, e un grano accanto all’altro, di ambienti e corpi, virtuali e concretissimi, a incastro gli uni sugli altri, ruotanti da ogni verso, come in un ologramma di sillabe, un labirinto intrecciato perché si possa fuggire… è una qualità anche architettonica, direi, quella in cui questa scrittura evolve e si definisce: l’ambiente viene, davvero, scritto, fonicamente, sillaba su sillaba, e si caratterizza innanzitutto per il battito-sguardo del suo suono; e sono stanze mobili sono prospettive oblique che s’irradiano tutto intorno a noi, superfici su cui rispecchiarci nella nostra opacità, a esplodere identità e distanza nello stesso scatto, nello stesso (falso)-movimento: esercizio di un’esattezza prossima al delirio, tale da formare, dalla radice, il paesaggio, animandolo ed elevandolo al rango di voce.
È questo che riesce a fare, la scrittura di Falco: creare spazio, dettagliando spazi in vertigini di close-up, solo per via sintattica; una forza e, se posso dire, un afflato, che viene su da un cumulo d’ingrandimenti così dallo spiegarsi d’una vasta polifonia sintattica, che incede uniforme e molteplice, mutante e mai riducibile al singolo sintagma (il quale, a isolarlo, ne resta celibe e svilito, preda possibile del normatore di turno)… Una musica della crudeltà, che risulta dal moto continuo del divergere-convergere delle esplose schegge, come da una vetrina fracassata in un pogrom; o una cascata di oggetti discordi, incandescenti parole-cunei a configgersi per varie angolature sull’estensione della pagina (suggestiva l’osservazione di Roberto Saviano, – in “La Repubblica”, 20.2 – per cui le merci sarebbero qui la musica-base…), a scuotere il lettore nel profondo della sua coscienza assuefatta a ogni possibile esistente, al totalitario-liquido sonno delle merci…
Il lavoro fattuale della prosa procede, insomma, di pari passo con quello sull’immagine, e dell’immagine; e si tratta di un lavoro quasi fotografico (lo dicevo prima per Hopper), portato sulla deriva dell’idea di archivio, e sulla scelta, quasi ascetica, che anima certa idea di fotografia, d’una scomparsa di sé in favore d’un archivio silenzioso, e perturbante: Hilde ritrattista anomala e meticolosa dei clienti dell’albergo, rimanda a Sander, ma anche a Sabrina Ragucci, che di Falco è compagna di visioni ed elezioni (e qui autrice della copertina delle tre mele – cui facevo cenno, – dalla quale il dire della Gemella sembra prendere il concreto quasi favolistico avvio: “Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima”). Il mezzo fotografico, espresso nel cuore della scrittura, si presenta come strumento di deposito d’una memoria che, fuori di esso, non rinviene altra traccia, se non lo svanimento; così ad ogni pagina si aggrappa un inventario di oggetti, ormai esauriti – mummificati o fantasmati – e persistenti, pure, nella loro invadenza ossessiva e totalitaria, ad occupare intero lo spazio che era dei corpi e delle vite: “più che i fatti e i giorni, sembra che solo gli oggetti accadano”… Questo regime di altissima definizione dello sguardo si esprime anche per via allucinatoria, staccando da sé una congerie di narrazioni possibili, tutte collaterali – e l’esercizio fotografico diviene grafico tout court, l’immagine si sbalza dal foglio, si anima e movimenta: la più ampia, ed esemplare, fra queste derive narrative, altrove potenziali o appena espresse, è l’ampia parabola dell’impiegato bidimensionale, “ritagliato” da un ipotetico manifesto pubblicitario di Franz Lenhart, “in fuga” da esso in modo non troppo diverso dalla ballerina di Majakovskij (mi riferisco alla cineleggenda perduta di Zakovannaja fil′moj – Incatenata dal film , del 1916), – vero e proprio (micro)romanzo nel romanzo, mise en abîme (già dicevo) grafico-narrativa della vocazione visiva e così peculiarmente iper-realistica di questo libro.
5. VARI-VUE
Ma soprattutto, e in tutto questo: vorrei riferirmi a quello che, nell’atto di scrittura e di lettura, mi sembra motivo tale da colpire (e scolpire) più a fondo: la posizione del narratore – cioè, chi parla (in) questo libro: l’identità stessa del soggetto che lo enuncia. Lo statuto della voce narrativa di fatto è misto, complesso – alla lettera: gemellarmente sdoppiato; un flusso che incorpora il dilagare di altri flussi (di coscienza, e esteriori e interiori, e soggettivi e oggettuali: impersonali e corali…); un regime, cioè a dire, di semi-flusso di coscienza (collettivo, semmai, e tutto smembrato pur nella certezza del suo incedere e del suo ethos) e di semi-soggettiva (unica via all’oggettualizzare fino in fondo e il tutto e dal lato interno, il più oscuro, il solo che ci riguardi). Fin dalla venuta al mondo, in una quasi “ripresa” che si conduce addirittura dal profondo (materno) del corpo, percepiamo il costruirsi opprimente del mondo – giusto da quella prospettiva altra di Hilde, mai integrata al “valore” familiare (cui si attiene invece Helga, venuta al mondo per prima) e mai nemmeno sganciata del tutto: una prospettiva che insomma si fa sguardo e prigione. Anche questo è il lavoro, che La gemella H impone al suo lettore: alla voce di Hilde si sovrappongono, a romperla e interromperla e moltiplicarla in una sorta di singolarità/coralità, una quantità di altri discorsi e posizioni, per furor di contrappunto, interminabile, nell’interpolarsi dei punti di vista più eterogenei. La drammaturgia del dialogo s’incorpora così in una polifonia d’indiretto libero, che include voci e punti di vista e materiali a fastello e mai omologabili gli uni agli altri, e tutto a convergere su (divergere da) la voce stessa di Hilde (la quale in essi quasi si riverbera)… In questo materiale eterogeneo e discordante, in questa voce sdoppiata e molteplice, s’importano sì, di volta in volta, i punti di vista dei vari attori della saga, ma anche un poliedro, coralmente scisso, di posizioni in fruttuoso dis/accordo, un confliggere plurivoco di visioni che la voce narrante assume intero su di sé, quasi ad aspirare la miriade di virus e batteri (dell’ideologia irriflessa, del senso-comune) e restituirla, chiarificata, agli occhi del linguaggio.
È qui, è in questo, il ruotare sul suo perno mobile, voracemente a fish-eye, del punto di vista (dello) scrivente: a rimettersi costantemente in gioco, implacabilmente rivelatorio ma senza tirarsi fuori dal massacro del gioco (cioè a dire, il Presente) di cui, tratto su tratto, va ricostruendo la genealogia. Tutto viene rimacinato in una sorta di brusìo costante, in cui può venire a galla eventualmente (ma per via indiretta, di straniamento e impassibilità densa di pathos) la voce, anche, di chi empiricamente ha scritto La gemella, occupandone lo spazio oculare, e moltiplicandolo nel sovrapporsi dei montaggi, che scompongono-ricompongono il cristallo ottico di questo libro. Nell’intreccio delle angolature, un punto di vista (morale più ancora che ottico) che si è tentati di attribuire più specificamente all’autore, è infatti quello che emerge nell’esercizio d’una fulminante, percussiva aforistica, integrata nel poliedro difforme della pagina (ad attualizzare la materia storica che sotto i nostri occhi sta scorrendo); ma è proprio qui che la voce che suona questo libro, giunge a esprimersi in pronunzie più più oggettivate-astratte, ai limiti del saggismo, magari dell’inchiesta, quasi a depersonalizzarsi, assorbendosi ai margini del coro. Ma appunto, anche nelle punte più pianamente saggistiche (come un punto di vista aereo, a volo di falco sul flusso), la prospettiva da cui la voce viene emessa, e da cui il narrato si s/compone e si guarda, resta sempre coralmente diffratta; esteriorizzarsi d’un flusso di coscienza moltitudinario, mai attribuibile unilateralmente ai due, tre soggetti in gioco… Hilde, certo, ma anche la sua controparte integrata, Helga, e poi, naturalmente, l’autore stesso, centro dello smistarsi e rimontarsi delle materie in gioco, molteplici e discordi: ma chi è che veramente enuncia? Resta, nelle orecchie, negli occhi, di questo mondo-flusso interno dell’esterno dell’interno (prendo, non forse ad arbitrio, un titolo da Handke), il contrappunto costante e denso di disarmonie prestabilite oltre ogni controllo, geometrico-convulso, a coinvolgere e straniare: e persino, diceva Giorgio Vasta recensendo (magnificamente) questo libro (“Alias – Il manifesto”, 13.4), a stanare (ogni altro dentro di sé, ogni alieno che ci parassita).
C’è un effetto ottico, un bonus venuto dalle merci caduto nell’infanzia di molti di noi, quasi parte dei nostri “romanzi di formazione”, a cui m’è venuto fatto di pensare, quando s’è fissato in me l’effetto ottico di questo libro, la sua prospettiva sempre sfalsata: e il ticchettìo stesso basculante del suo moto, nello scivolare l’una sull’altra delle due identità pseudo-gemellari (e così, i meccanismi di riconoscimento e distanziamento che si suscitano a ogni atto di lettura). Mi riferisco a quelle figurine lucide, spesse, a elementare effetto 3D, a doppio movimento, che la Locatelli impacchettava coi formaggini MIO: bastava muovere il polso, cambiare angolatura, e qualcosa cambiava all’interno dell’immagine – l’illusione d’un movimento, uno scatto magari impercettibile, ma che compiva il senso della prima delle due figure, magari rivoltandolo, svelandolo (almeno questa è la mia percezione, nella lontananza del ricordo): immagine che si rilancia e che ritorna, sempre identica sempre difforme, così rendendosi elementarmente narrazione. Il nome di questa tecnologia elementare, “lenticolare” (è così che la si definisce), a scatto, a sbalzo (elaborata proprio negli anni ’40, così centrali in questo libro), è “vari-vue”; e si tratta di una dicitura che potremmo facilmente adottare per la scrittura della Gemella H, nel suo prospettivismo moltiplicatamente rescisso – il suo (almeno) doppio (almeno triplo) movimento, a costruirsi su immagini apparentemente identiche ma che, nel sovrapporsi/sostituirsi l’una all’altra, si schiudono per intero sul loro scarto minimo – aprono, in questo dire, la vertigine della moltitudine. Che è vertigine attrattiva: al termine della sua rotazione, ottica, questa scrittura si punta tutta dalla prospettiva stessa dei nostri occhi; il soggetto dell’enunciazione, così stanato, siamo, finalmente, noi.
Ho conferito titolo di note, a questa ripresa da una presentazione della Gemella H (L’Aquila, Bibliocasa, il 20 marzo scorso); vorrei che l’epiteto, impreciso che sia, venga inteso anche in una valenza, seconda e pur impropria, di una (impossibile) pentafonìa di alterazioni: in forma di pur inadeguato omaggio alla musica profonda e dissonante, che tràcima e trascina dal fondale di questo, che – con buona pace d’ogni pubblicistica (im)paludata – rimarrà fra i pochi, i pochissimi testi davvero memorabili nella nostra narrativa di fine-inizio millennio.
Uscito su Il Ponte, luglio 2014
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