Varie – Inediti
di Daniele Ventre
1.
Mi chiedi poi se esista un occhio antico
la veglia al capezzale del malato:
la vecchia salmodia del sole amico
magari non invitto, ma attrezzato
almeno per miracoli alla buona
–non fosse che al perdono interessato
per la monelleria che non perdona
l’amare a nullo amato e poi l’odiare
il nulla odiato e il tutto che non suona
–e meno ancora crea per non disfare
–per non disfarsi o cedere allo strappo
di quel che non consegue a quanto pare
e certo è poco onesto –a cui mi aggrappo
già come a vela per naufragio rotta:
così stracciato di sudario e drappo
l’esistere per sé dilaga e smotta.
2.
Non so che cosa si muova nell’ultimo frangente
dell’onda che la rabbia mesce all’inanizione,
questa inconsulta vinosa indisciplinata sragione
d’umore metà piangevole e metà insofferente.
Sarà che non sopporto davvero più niente,
la futile politica, la pessima televisione,
le voci degli idioti, la critica deiezione
che sulle pagine semina postille da demente.
Perfino questa forma che fragile si sfilaccia
come le rughe allo specchio nel passare degli anni,
come il passo zoppicante dei vecchi sul basolato
umido, non sa placarla quest’angoscia diaccia,
questo torpore d’incenso ipocrita fra gli scranni
delle profanazioni d’un tempio sgretolato.
3.
Ma nel mattino che ti contraddice
nel passo sdrucciolevole che impatta
tu vedi la presenza delle cose.
Questa fede animale si compatta
dalla materia in densità corrose
per l’enigma che fonda e che non dice
come si regga un marmo di colonne
su un ondeggiare liquido di gonne.
4.
Raccontano che un tempo il seme dell’oro
sbocciasse nel miele che cadeva a gocce lente
dalle foglie di timo, o nel sapore rude
delle ghiande, o nell’acqua che scorreva piana
per silfidi-ruscello –il gusto della sete
le mutava in cristalli di nettare fra le labbra.
Quel tempo è tramontato con la polvere delle nubi
nel respiro delle folle soffocate dal piombo.
Qui i futili cantori nessuno li ascolta
nel frastuono di metallo dei proiettili erranti:
le loro voci arrochite cantano calligrammi
e i libellisti ironici che svendono drammi
ci incartano il vuoto in confezioni di nausea.
Ma noi dovremmo intendere e infine disperderci,
svanire ai quattro venti fra i residui di plastica
combusti nella notte dei sorrisi d’asfalto,
nell’odore caramelloso e acre della gomma,
fra gli incensieri del tempio dalle colonne di ruggine
e i lampioni spenti –dimenticare la parola,
la lingua da cui nascemmo, che non conosce altra voce
se non l’invidia sorda degli schiavi sorridenti
e l’austero disprezzo del sussiego.
che belle, Daniele! Si sente come le senti mentre le scrivi, sono uno straripare di rabbia e passione che di certo sembrera fuori tempo, perché tu sei fuori tempo in questo tempo che ti fa consapevole della tua umanissima condizione a margine del fiume.
è assolo senza astanti ad ascoltare, un anaerobico affanno su un astratto orizzonte afasico che non contempla altro oltre da sé indossato, voce nuda che non copre la vergogna dei cori di un diafanico desiderio delirante, ai vertici di un malcostume di un mondo deviato e che ha perso ogni filo per tessere tele, oltre quelle della rete, per celebrare il puro vuoto.
Grazie a Daniele!
fc
….mi aggrego…ma non solo…Daniele innesta, reinnesta il nerbo immarcescibile di quello che è è stato l’interminabile filone della nostra letteratura: la così chiamata classicità..non a caso da Napoli della Magna Grecia….un orribile, se si vuole, paradosso (terra dei fuochi, camorra etc.), ma il poiein, il fare per eccellenza….non potrebbe per caso…?….
incantata, Daniele.
la voce propria emerge dalla massa-matassa testuale come un’agnizione; notevole anche come dichiarazione di poetica l’attacco della poesia 1, dove starebbe “esista” invece di “esita”, e l’unico verso che salverei
“Esita” era un refuso, di cui non mi ero accorto -e ringrazio dell’avvertimento. Fra l’altro, il verso violerebbe la legge di Bembo. Per il resto, buona trasfigurazione in condottieri (no offense).