cinéDIMANCHE #03 CLAUDE CHABROL “L’Inferno”
di Ornella Tajani
Nel folto panorama delle ossessioni, fatali «racconti personali inconsci», come le definisce Walter Siti, una delle più facilmente comprensibili, quella che si potrebbe suggerire all’ossessivo neofita che dovesse ancora farsi le ossa, è probabilmente la gelosia. Nel 1964 Henri-Georges Clouzot decise di farne il tema di un film, L’enfer: i protagonisti erano Romy Schneider e Serge Reggiani. Pare che per la sua produzione la Columbia avesse deciso di non badare a spese, scegliendo di concedere al regista ogni sperimentazione e autorizzando anche riprese esplicitamente erotiche.
L’idea di Clouzot era di sfruttare un ampio lavoro di ricerca cromatica e sonora per ricreare un’instabilità visiva che si prestasse a rappresentare la follia crescente del protagonista: la regia avrebbe dovuto incrociare continuamente il piano della realtà con quello dell’ossessione, il cui oggetto era una Romy Schneider sublime più che mai.
Il film rimase incompiuto: Reggiani, che già litigava spesso col regista, si ammalò e Clouzot fu colto da un infarto. Nel 2005 Serge Bromberg ritroverà le 15 ore di pellicola girate negli anni ’60, nel frattempo dimenticate, e ne trarrà un documentario, L’Enfer d’Henri-Georges Clouzot: la sua tesi è che lo stesso tentativo di immortalare la propria ossessione (qui cristallizzata nelle forme della gelosia) abbia condotto il regista al fallimento del progetto.
Intanto, nel 1994 Claude Chabrol riprende la sceneggiatura di Clouzot e la rimaneggia: il frutto è un nuovo inferno, con François Cluzet e Emmanuelle Béart. Sebbene lontano dal capolavoro mancato di Clouzot, che si annunciava ipnotico, seducente, cinematograficamente rivoluzionario, L’enfer di Chabrol riesce a rendere bene l’evoluzione del dominio che la gelosia assume sul protagonista Paul Prieur, gestore di un albergo su un lago e sposato con la «sin troppo carina» Nelly: giocando con ronzii di sottofondo, sovrapposizioni di immagini e piani narrativi, o riempiendo di punti neri la visuale di Paul, Chabrol racconta quella graduale «negazione del reale» (ancora W. Siti) che è l’ossessione.
«Questa è l’ora magica – viene annunciato a Paul all’inizio del film -, quella in cui le cose sembrano sempre uguali, e però si sente che sta cambiando tutto»: chi parla è uno degli ospiti più fedeli dell’albergo, un cameraman amatore sempre a caccia di qualcosa da riprendere, interpretato da Mario David. L’indizio prolettico è evidente, e di lì a poco infatti tutto cambia. Seppur un po’ lento in alcuni punti, e in brevi tratti pesante come solo l’ossessione sa essere, il film mi sembra restituire perfettamente allo spettatore la vertiginosa percezione del passaggio dalla felicità dell’amore alla gelosia, alla psicosi.
Non ho mai potuto vedere questo film. Qualcosa mi spaventava.
Non potevo vedere questa violenza nel fondo.
Claude Chabrol mi mette a disaggio.
Non conoscevo le radici di questo film.