La mia libertà è l’altro nome della mia inerzia: Mario Benedetti, La tregua
di: Francesca Fiorletta
Domenica, 17 marzo
Se mai un giorno mi suiciderò, sarà di domenica. È il giorno più scoraggiante, il più insulso. Vorrei starmene a letto fino a tardi, almeno le nove o le dieci, ma alle sei e mezza mi sveglio spontaneamente e non riesco più a chiudere occhio. A volte mi domando che cosa farò quando tutta la mia vita sarà una domenica. Chissà, magari mi abituerò a svegliarmi alle dieci. Sono andato a pranzo in centro perché i ragazzi sono fuori per il fine settimana, ciascuno per conto proprio. Non me la sono sentita neppure di intavolare con il cameriere il banale, solito scambio di opinioni sul caldo e i turisti. Due tavoli più in là, c’era un altro solitario. Era accigliato, rompeva i panini con i pugni. Due o tre volte gli ho lanciato un’occhiata, e a un certo punto i nostri sguardi si sono incrociati. Mi è parso che nel suo ci fosse odio. E che c’era, per lui, nel mio? Dev’essere una regola generale: i solitari non simpatizzano tra loro. O non sarà invece che siamo davvero antipatici?
Sono rincasato, ho fatto un riposino, mi sono alzato stanco, di malumore. Mi sono preparato un mate e mi ha disgustato il suo sapore amaro. Allora mi sono rivestito e sono tornato in centro. Questa volta sono entrato in un caffè; ho trovato un tavolino proprio accanto alla finestra. Nel giro di un’ora e un quarto, sono passate esattamente trentacinque donne interessanti. Per ammazzare il tempo, ho abbozzato una statistica dei particolari che più mi piacevano in ciascuna. L’ho segnata su un tovagliolino di carta. Ecco i risultati: di due, il viso; di quattro, i capelli; di sei, il seno; di otto, le gambe; di quindici, i fianchi. Netta vittoria dei fianchi.
La voce, o meglio, il diario, è quello di Martín Santomé, “Signore maturo, esperto, posato, quarantanove anni, senza gravi acciacchi, ottimo stipendio”, ossia un perfettibile impiegato di commercio, alle soglie del pensionamento.
Martín Santomé vive a Montevideo, è vedovo, ha tre figli, due ragazzi e una ragazza, e con loro ha i rapporti talora burrascosi che è prevedibile immaginare, data la situazione familiare non esattamente felice. Conserva bene però, tutto sommato, una sorta di placida tranquillità, quel tipico torpore furente che tanto lustro ha dato, nei secoli e nella storia, al popolo sudamericano, tutto. E, chiaramente, alla sua letteratura.
Martín Santomé, protagonista de “La tregua”, capolavoro uruguaiano degli anni ’60, recentemente edito da Nottetempo edizioni, con la traduzione di Francesco Saba Sardi, è il personaggio meraviglioso attraverso il quale Mario Benedetti ci fa entrare in una narrazione particolarissima, minuziosa, e squisitamente quotidiana.
Che cosa succede, dunque, a quest’omuncolo così, se vogliamo, banale, a questo plausibilmente anonimo Signor Nessuno? Che cos’è che, dopo la lettura di circa sei mesi del suo diario, ce lo fa amare e addirittura anche ammirare così tanto, fino a volerlo quasi prender e per mano?
Proviamo a procedere per gradi.
Quella domenica del 17 marzo, il nostro Santomé si sente triste: sta pensando alla pensione, sta proiettandosi verso un’esistenza che giustamente non conosce e che non sa ancora bene come affrontare. Il pensiero lo spaventa, com’è ovvio, ma a ben guardare, non così tanto. Più di tutto, quella domenica del 17 marzo, Martín Santomé si sente perdutamente solo. Qualche giorno dopo, incontrerà una donna sull’autobus, una prima sconosciuta, che tale resterà; pochi attimi, un contatto fisico tra gli avambracci, e finirà subito a letto con lei, senza troppe domande, alla fine, senza troppa, ahilui!, soddisfazione.
Capiamo già bene, perciò, che Martín Santomé tutt’è tranne che un uomo addormentato: conserva perfettamente intatti i suoi impulsi, tiene a bada i sentimentalismi, certo, ma solo per evitare di sconvolgere il piccolo mondo ovattato che si è costruito intorno, solo per riuscire, senza remore, ad alzarsi all’alba ogni mattina, per andare a svolgere le mansioni che gli sono preposte.
E allora? Può darsi che Dio abbia una faccia da croupier e che io sia semplicemente un povero diavolo che punta sul rosso quando esce il nero, e viceversa.
Questo pensa di sè, il Signor Martín Santomé, sempre teso al dialogo con un Dio che è percepito, innanzi tutto, come negazione. Negazione di sé, negazione di possibilità, negazione di futuro. E questo gli accade, in effetti, giorno dopo giorno, e lui questo annota, giorno dopo giorno, sul taccuino asfittico della sua vita.
Poi finalmente gli viene affidata una segretaria, Laura Avellaneda, una giovane donna di ventiquattro anni, non impeccabile sul lavoro ma con molto giudizio nell’apprendimento, non particolarmente bella ma con un sorriso accattivante. E lui, che fa? Sulle prime la chiama “Povera!”, “Poverina!”, la compatisce, quasi, è intenerito dalla sua timidezza, dal rispetto che lei gli tributa, dalla sua inesperienza, ma non ne comprende appieno il motivo. Finché se ne innamora. Perdutamente, irrimediabilmente; miracolosamente, anzi. E lei, la “povera” Avellaneda, altrettanto miracolosamente, ricambia il suo amore!
I due si abbandonano perciò a un’estasi garbata, senza inutili fronzoli, senza drammatiche promesse sul futuro, solo godendo, attimo per attimo, del loro stesso, ingenuo, pacifico, clamorosamente nuovo sentimento. Vivono la loro relazione in clandestinità, però, a causa della scomoda posizione lavorativa che rivestono, e della insindacabile differenza d’età, che non li lascia, sembrerebbe, tranquilli. Eppure, a ben guardare, vivono il loro amore da clandestini, principalmente per tener fede a un principio che è tanto caro a Santomé: l’equidistanza.
Leggiamo ancora una pagina di diario, che è ancora, guarda caso, una domenica.
Domenica, 9 giugno
Può darsi che io sia fissato con l’equidistanza. Ogniqualvolta un problema mi si presenta, mai che sia attratto dalle soluzioni estreme. Può darsi che sia questa l’origine della mia frustrazione. Una cosa è certa: se gli atteggiamenti estremi suscitano entusiasmo, trascinano gli altri, sono indice di forza, è vero anche che gli atteggiamenti equilibrati in generale sono scomodi, a volte sgradevoli e quasi mai sembrano eroici. In generale, occorre una notevole dose di coraggio (un coraggio di tipo particolarissimo) per mantenersi in equilibrio, ma è impossibile evitare che ai più sembri una manifestazione di viltà. Come se non bastasse, l’equilibrio è noioso. E la noia è, al giorno d’oggi, un grave difetto che per lo più la gente non perdona.
Martín Santomé, e lo si capisce da ogni minima formulazione della frase, risulta evidente da ogni più scarna progettualità nel gesto, è un uomo profondamente annoiato, o meglio: è un uomo profondamente terrorizzato dall’essere annoiato. Vede sfiorire i suoi anni migliori, vede farsi flaccida la pelle delle mani, del collo, della pancia, vede diventargli radi i capelli, e rugosi gli occhi; vede crescere e allontanarsi i suoi figli, così pure come il ricordo di quella moglie tanto amata e però comunque ugualmente perduta, sepolta, ormai sodale , seppure, soltanto in sogno.
Martín Santomé ha una grandissima paura di morire senza provare più emozioni, ma ha la stessa incontentabile paura anche di riuscire a provarle ancora in vita, quelle emozioni. Ha paura di fallire, di soffrire ancora, di essere troppo felice: ha paura di raggiungere l’”apice”, l’apice di qualsiasi cosa, in effetti, poco importa, perché, come scrive lui stesso, confessandosi col suo sudato diario: l’apice non ammette mai proroghe.
L’apice è un momento, perfetto, elevatissimo, estatico, e proprio in virtù di questa natura aurea, è totalmente impossibile da trattenere. Una volta raggiunto, resta solo l’inevitabile crollo, lo sfinimento, l’apatia e, ça va sans dire, la morte.
Tant’è che, molto più avanti, un 14 settembre, guardandosi allo specchio, il nostro dolente Santomé rincarerà la dose:
La cosa più tragica non è essere mediocre ma non avere consapevolezza della propria mediocrità; la cosa più tragica è essere mediocre, sapere di esserlo e non adeguarsi a questa sorte che d’altro canto (ecco l’aspetto peggiore) è semplice giustizia.
C’è qualcosa, però, che sembra allontanarlo da quel terrore della mediocrità: c’è un’unica persona con la quale si è concesso, enfin, di toccare il famoso apice, in barba a tutte le presunte strategie di contenimento, e alle studiate teorie dell’equidistanza: l’Avellaneda.
L’Avellaneda, così giovane e spaesata, che diventa bella per davvero solo quando s’infervora coi suoi pretesi discorsi femministi, che diventa dolce e avvolgente quando racconta la storia apparentemente semplice dei suoi genitori; l’Avellaneda senza una ruga, nel fiore degli anni, che si chiama Laura, ma noi ce lo ricordiamo solo nelle pagine finali del libro, quando arriverà una devastante, drammatica telefonata, quando, proprio con la pronuncia di quel nome, Laura, verrà apposta, e forse stavolta sul serio, senza più scampo, la parola fine alla “tregua” di un’esistenza sensibile e complessa, che Mario Benedetti ci ha fatto assaporare così bene.
Questo libro è commovente, porta con sé un’intelligenza sottile, e una finezza palpabile; può insegnarci molto, di noi stessi, della letteratura e della vita. Può persino (insegnarci a) tenerci ancora per mano.
Lunedì, 3 febbraio
Mi dava la mano, e non avevo bisogno d’altro. Mi bastava per sentirmi accolto. Più che baciarla, più che stare vicini, più di ogni altra cosa, mi dava la mano, e questo era amore.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2014/11/13/la-mia-liberta-e-laltro-nome-della-mia-inerzia-mario-benede… […]
E’ il romanzo che aspettavo da sempre e che non riuscivo a capire se era frutto dei miei desideri inconsci oppure se veramente qualcuno mi ha preceduto.
Sarà come il breviario di un prete.
Oppure il nutrimento che mi sostiene…
Che bello, tiziano, sono contenta. :) buona lettura, dunque.
Uno di quei libri che danno senso al mondo. Sono felice che l’abbia recensito tu!
[…] Francesca Fiorletta La mia libertà è l’altro nome della mia inerzia: Mario Benedetti, La tregua […]