Il bosco che ci contiene (per il paese di Torri)
di Francesca Matteoni
Torri è un borgo della Sambuca Pistoiese a 912 metri di altezza sul livello del mare, dove termina una strada asfaltata che dal torrente, dalla Limentra Orientale, sale tra gli antichi castagneti. Quando arrivi lassù da bambino pensi che dopo non c’è davvero nulla, solo le valli che si aprono dagli scogli assolati, uscendo dagli alberi quando vai per more e lamponi d’estate. Certo non è così e di sentieri e vie non asfaltate ve ne sono altre, ma è per quella deviazione della Riola che da Pistoia, da Prato o da Firenze e perfino da Porretta e dal bolognese, entri in questo paesino dei fiori e della pietra, da quando ti ricordi. È un viaggio incantato in ogni mese dell’anno e di notte è un viaggio tra animali che fuggono all’avvicinarsi dei fari. Perché quando abbuia, è noto, i paesi dormono e i boschi si svegliano. E tu, nel passarci in mezzo, senti sempre qualcosa che non sai nominare, ma che è molto importante, immutato dalla prima infanzia.
A contarli i residenti di Torri sono meno di trenta persone, alcuni di ascendenza torrigiana, tornati a vivere in montagna per rifuggire il caos e il costo della vita cittadina; altri che hanno scoperto il paese, magari venendoci in villeggiatura in passato; e ancora ci sono coloro che hanno fatto una scelta radicale e da varie parti d’Italia sono approdati nei boschi dell’Appennino, per abitare in comuni o in casolari diroccati, che con pazienza hanno rimesso in piedi. Poi ci siamo tutti noi che saliamo al paese d’estate o qualche domenica d’inverno, chi con più assiduità, chi meno; e i volontari che hanno riattivato il circolo e il ristorante e che si adoperano perché il paese non sia popolato solo d’agosto. Ognuno di noi ha un legame manifesto con il luogo. Siamo nipoti, figli, sorelle di chi ci è nato; abbiamo scoperto qui un rifugio; abbiamo stretto amicizie che durano oltre il vivente. E poi però c’è dell’altro – c’è l’odore della stufa; c’è il falco nel cielo; c’è la castagna nel riccio pungente e la tristezza quando la stagione è tale da mandar tutto in rovina; c’è il fungo segreto che appare sotto un pulviscolo di luce; il cervo; i ghiri tra le travi; lo sgomento meraviglioso che ti prende se siedi nell’abetaia; i quarzi incastonati nella parete di roccia. Che cosa significa tutto questo? Nei piccoli paesi c’è anche il rancore, la maldicenza, l’inimicizia che connotano ogni comunità umana ristretta, dove chiunque è esposto all’altro, suo malgrado. C’è un mondo che si chiude e non vede oltre il crinale. La durezza, l’ottusità montanina. Ma ognuna di queste realtà stringe un nodo – fa sì che la vista del declivio, del monte che si fa collina e piano, sia il sentimento della casa, perché alla fine non vi è altra casa che quella che si abbandona, che quella che resiste da prima che ci fossimo, da prima perfino che ogni casa fosse edificata: insieme ostile e accogliente.
Undici mesi fa, il 5 gennaio 2014, una frana, causata dalle piogge abbondanti e dalla condizione di incuria o manutenzione insufficiente in cui la montagna versa da decenni, ha isolato Torri, spaccando in due quell’unica strada percorribile da ogni mezzo, la strada che mia sorella fa quando rientra dai turni del lavoro. Da quel giorno e per molti mesi chiunque volesse raggiungere il paese doveva lasciare l’auto all’inizio della frana e percorrere circa un chilometro a piedi, oppure attendere che qualcuno dal borgo venisse in soccorso. Non racconterò questi fatti e i provvedimenti presi, che si trovano ben documentati in rete, ma proverò a dire il senso di una comunità ritrovata. Perché da allora i paesani hanno cominciato a salire a Torri ogni fine settimana, mangiando tutti insieme al circolo, ripulendo le vie dalla neve, riscoprendo un legame che è tutt’uno con la terra. Dai paesi vicini, come Treppio, qualcuno è venuto a pulire il bosco, a portare aiuto; qualche torrigiano si è reso disponibile per fare la spesa per i più anziani; altri si sono impegnati perché la voce del paese non si azzittisse, cercando un dialogo con le istituzioni e con la stampa.
Nel disastro ambientale e nella superficialità con cui vengono trattate le questioni della montagna, è emerso un senso di famiglia che non annulla affatto le differenze e i difetti degli individui, ma ci suggerisce che è così che si recupera una dimensione normale dello stare al mondo. Riscoprendo che per quanto il sangue sia antico, l’acqua che ci forma e ci distrugge lo è di più – che i legami si creano proprio come le montagne, stratificandosi, che noi lo vogliamo o meno, addolcendosi con il vento che porta via gli spigoli, imparando ancora che radice e foglia si parlano e che un luogo è fatto da chi lo abita e lo sogna: quando il luogo è in pericolo l’abitante lo ricerca nell’altro suo simile. L’altro suo simile è il luogo e il fratello. L’altro, suo simile, è per metà l’umano che di niente si cura, per metà quella cosa innominabile che viene dal bosco, dal terriccio nelle suole, ci fa molto male a volte, ci avvicina, ci tiene.
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(Il paese è ora di nuovo raggiungibile in auto, grazie all’allargamento della strada. Il provvedimento non sarà purtroppo risolutivo, poiché tutta la strada è ancora soggetta al rischio di frane e smottamenti).
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Bellissimo, Francesca. Torri è nel mio cuore.