I centri del triangolo: migrazione e neocolonialismo in Sicilia

di Stefano Portelli

Quando i migranti sbarcano dall’enorme nave della marina militare che li ha salvati in alto mare, li accoglie un dispositivo di emergenza che è ormai diventato abituale. I medici individuano chi ha bisogno di cure speciali; la polizia registra i nomi e assegna un numero a ognuno; poi entrano sotto il gran tendone della Protezione civile e si siedono o si sdraiano sulle brandine. Intorno al porto di Augusta c’è una delle zone industriali più grandi della Sicilia orientale: il petrolchimico di Siracusa, che dagli anni Quaranta ha insieme salvato l’economia e devastato la salute degli abitanti di questa zona. La fascia costiera compresa tra Augusta, Melilli e Priolo Gargallo è conosciuta qui come il “triangolo della morte”, anche se non ha mai ottenuto la stessa attenzione pubblica che hanno avuto l’Ilva di Taranto o altri scandali nazionali. Da quando molte fabbriche hanno chiuso i battenti, negli anni Ottanta, alla disoccupazione si è aggiunto un inquinamento che sembra irreversibile: un bambino su venti nasce con una malformazione, e un adulto su tre muore di tumore. L’aria brucia al respirarla e all’orizzonte brillano scure le fiamme sulla punta delle ciminiere. L’Etna è a cinquanta chilometri, ma raramente si vede, avvolto nella spessa bruma bianca; a volte, al porto, gli operatori sono invitati a mettersi al riparo perché una nube gialla di zolfo colora l’aria e avvelena i polmoni. Sono proprio questi tre i paesi scelti dalle autorità provinciali di Siracusa per i centri di accoglienza per minori stranieri.

Per tre mesi ho lavorato per una ONG nei centri del “triangolo”. Una delle mie prime domande è stata: ma perché li chiamiamo così, se del centro questi luoghi non hanno nulla? L’unica cosa che si può affermare con certezza di essi, è che sono periferici, come è periferica la storia dell’inquinamento di queste terre. La vicinanza all’Africa, che oggi significa immigrazione, in altri tempi significava idrocarburi; e nella stessa fascia di mare che ora attraversano i migranti, vengono installate nuove piattaforme petrolifere – proprio di fronte all’altro gran porto della zona, quello di Pozzallo. Ma lo sa solo chi vive qui; nella punta della Sicilia si viene in vacanza, non per svelare oscuri piani di sviluppo industriale.

Stessa cosa avviene per i centri. Quello che vi succede dentro, in genere, non filtra all’esterno, e se filtra, lo fa in una forma che ha poco a che vedere con quello che vive chi ci abita. Innanzitutto, bisogna abituarsi alla lingua franca che si è sviluppata all’interno. I ragazzi “ospitati” qui – tutti maschi, e di diversi paesi – parlano una lingua come quelle dei porti, fatta di pezzi di inglese, arabo e italiano, mischiati con qualcosa dei vari dialetti siciliani. Una parola mi ha colpito sin dall’inizio: il cibo viene chiamato mangerìa. Sulle prime pensavo che fosse siciliano, e che l’avessero sentito da qualche operatore del posto. Ma la parola ha una storia più strana, come ho scoperto in seguito: i subsahariani l’avevano imparata in Libia, nascosti o rinchiusi nei vari carceri e campi di prigionia, e l’avevano portata qui, diffondendola nel campo, molti pensando addirittura che fosse arabo di Libia. Non era arabo: era una parola italiana antica, che da noi ha assunto tutt’altro significato, ma che è rimasta in Libia anche dopo l’espulsione degli italiani nel 1970. Sin dai primi giorni, quindi, questi luoghi evocano frammenti sommersi del colonialismo.

Questa sensazione è diventata ancora più forte quando mi sono accorto che nessun migrante chiama il luogo in cui è ospitato con la parola centro. Il termine che usano è camp. Ma campo, ovviamente, in Europa è una parola vietata: smuove troppe memorie e associazioni che vorremmo mantenere lontane (tranne che per i campi rom…). Con il tempo ho notato poi che i ragazzi chiamano campi anche molti dei luoghi in cui sono rimasti intrappolati in Libia, posti di violenza estrema, di cui molti ancora portano le tracce sulla pelle. Il parallelo in loro sorge spontaneo, tra i campi o le prigioni per rifugiati istituiti da Gheddafi per trattenere i migranti (in cambio dei finanziamenti italiani) e i nostri centri di primo soccorso, che amiamo rappresentarci come luoghi di salvezza dopo le violenze che hanno sofferto in Africa. È chiaro invece che la frontiera è molto meno definita di quanto vorremmo, e che in Europa questi ragazzi si ritrovano di nuovo in dei campi, governati da una variante più sottile, ma ugualmente strutturale, della stessa violenza che hanno sofferto nel resto del viaggio. E dal colonialismo passiamo al fascismo – visto che i primi campi di concentramento del XX secolo sono proprio quelli che i fascisti italiani istituirono in Libia per rinchiudervi gli sfollati della Cirenaica durante la rivolta di Omar Mukhtar.

Si potrebbe continuare. Perché tutte le parole con cui si parla di questo fenomeno – emergenza, trafficanti, minori – nascondono una menzogna, mistificando una struttura perversa e discriminante che ha radici antiche e profonde: un occulto dispositivo di segregazione, che continuamente si sposta, si frammenta, si ridefinisce, per poter rimanere incomprensibile e inafferrabile. Prima era a Lampedusa; ora in Sicilia; presto da qualche altra parte, in qualche altra periferia ancora più difficile da osservare. Ogni aspetto di questo sistema cambia continuamente; capirne a fondo uno qualunque richiederebbe una vita intera. Perché, per esempio, se i ragazzi dovrebbero stare in questi centri di emergenza massimo tre giorni, quasi tutti ci passano moltissimo tempo, anche nove o dieci mesi? C’è chi dice che mancano i posti nelle comunità di accoglienza; altri dicono che è perché la legge non chiarisce chi deve pagare le rette o i trasporti verso i nuovi centri; altri ancora che sono le cooperative che preferiscono mantenerli più a lungo, per guadagnare di più sui fondi pubblici per l’accoglienza. Ogni tanto qualche centro chiude per infiltrazioni mafiose, o circola qualche voce (quando non vere e proprie operazioni di polizia) sui legami tra qualche cooperativa e qualche politico. In ogni caso, il comune di Augusta da un anno è commissariato per mafia, e questo naturalmente rende ogni passo molto più faticoso. C’è anche chi dice che tutti questi sono solo stereotipi, e che quarantacinquemila migranti in un anno sarebbero un problema anche per una grande città, figuriamoci per un paese di quarantamila abitanti; o anche che, vista la situazione, è ammirevole che non ci siano state violenze come a Tor Sapienza. La settimana scorsa, intanto, qualcuno ad Avola ha tirato una molotov contro un centro.

Un altro aspetto è che – a differenza di quanto succede in altri centri di primo soccorso, come a Pozzallo, dove a volte i migranti non possono uscire neanche nel cortile – i centri della provincia di Siracusa sono tutti più o meno aperti. I ragazzi sono liberi di entrare e uscire quando vogliono, anche di “scappare”, se questa parola ha un senso. Di fatto i siriani, gli etiopi e gli eritrei (cioè, la metà dei migranti che arrivano in Sicilia) non passano mai per i centri: appena sbarcano contattano un taxi o cominciano a camminare sull’autostrada, e velocemente proseguono il viaggio verso il nord. Anche questo cambierà presto, con i nuovi regolamenti dell’Ue; per ora però arrivano nei centri solo persone del Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, le due Guinee, Bangladesh (tutti attraverso la Libia), e poi gli egiziani. Circa uno su tre di loro finisce comunque per scappare, magari per raggiungere qualche familiare al nord; gli altri rimangono, anche se i cancelli sono aperti, e per mesi aspettano che arrivi il famoso transfer verso una comunità di accoglienza per minori non accompagnati, che si faccia carico della regolarizzazione dei loro documenti, e che permetta loro di iniziare ad andare a scuola. Ma passano lì dentro così tanto tempo, che molti perdono la speranza, o anche la voglia, di andar via un giorno da questi centri.

È chiaro che queste sono istituzioni totali: quello che non mi è ancora chiara è la loro funzione. Si tratta solo di separare, di segregare, di allontanare? Non vogliono forse anche educarli all’attesa, all’esclusione, abituare i migranti all’idea che non saranno mai veri cittadini, anche se un giorno otterranno un documento? A questo si aggiunge anche un altro elemento, legato alla minore età, che spesso è solo dichiarata strategicamente per ottenere più facilmente il permesso di soggiorno. Spesso chi lavora o frequenta i centri, anche se sa che sta parlando con degli adulti, finisce per infantilizzarli; anche perché così rispondono meglio allo stereotipo di vittime di cui l’Europa ha tanto bisogno. In breve: se molti avevano pensato di essere arrivati in qualche posto, quando sono stati sbarcati ad Augusta, questi centri gli insegnano che c’è ancora molto viaggio da fare.

Sicuramente il tempo in questi luoghi è uno strumento di esclusione: i tempi si dilatano all’infinito, la quotidianità è dominata dall’attesa, e la ripetizione e la mancanza di fiducia nel futuro generano malessere, anche vere e proprie malattie (una variante dell’institutional neurosis descritta da Russell Barton, mezzo secolo fa). Ma lo spazio è un fattore di cui si parla meno, e che va oltre il fatto che i centri siano ubicati in luoghi malsani. Per cominciare, nessuna di queste strutture è nata per essere quello che è: una era un vecchio albergo, un’altra clinica per anziani, una deposito di taxi, un’altra ancora una scuola abbandonata. L’amministrazione comunale e le cooperative sociali hanno adattato i luoghi per alloggiarvi i minori. I ragazzi stendono i panni sulle reti di recinzione; le camerate hanno ancora i disegni dei bambini attaccati alle pareti; la reception della clinica è occupata dalla polizia; una tettoia per i taxi diventa una moschea, e i ragazzi usano il lavandino del bar dell’albergo per lavarsi i piedi. Tutto trasmette un messaggio di provvisorietà, che però governa le loro vite per mesi e mesi.

Allo stesso tempo questa riconfigurazione dello spazio è anche una crepa attraverso cui penetra un processo inverso: quello dell’appropriazione. Anche se le varie ONG che lavorano qui, e a ragione, spingono perché i ragazzi non mettano radici, e che siano sempre pronti al trasferimento, quello che rende la loro vita meno miserabile sono proprio questi processi di continua presa di possesso e ridefinizione – individuale e collettiva – dei luoghi. Vivendo ventiquattro ore al giorno, per mesi, in questi luoghi mal definiti, i migranti costruiscono degli usi dello spazio che i lavoratori del centro finiscono per accettare, anche se spesso malvolentieri. Gli spazi devono essere negoziati per forza; e se non sempre queste forme di agency sono apertamente sovversive, come i piedi nel lavandino, rappresentano comunque delle strategie di contestazione e affermazione della loro presenza qui. È una variante di quello che scrive Michel Agier sui campi profughi. Questi usi dello spazio indeboliscono delle potenziali istituzioni totali, ponendo freni alla loro pretesa di controllo e infondendo invece in esse una vita, una parte delle loro vite. Nuda vita, forse, ma senza dubbio vita sociale.

Questo è stato evidente nel caso della scuola di Augusta. Nella logica dell’emergenza, quest’estate il comune ha deciso di alloggiare oltre centocinquanta minori in una scuola abbandonata in mezzo al paese, senza neanche affidare la sua gestione a una cooperativa sociale. Le pessime condizioni igieniche della struttura e le continue lamentele degli abitanti del paese hanno portato il caso all’attenzione dei giornali e delle televisioni; le foto dei ragazzi di quindici anni “abbandonati” in cortile tra la spazzatura e i vetri rotti, così come la “promiscuità” delle vecchie aule in cui dormivano diciasette persone, erano ideali per accompagnare gli articoli di denuncia usciti addirittura sul National Geographic e sul Wall Street Journal. Quest’ultimo ha intitolato il suo articolo su Augusta In Italy Migrant Children Languish in Squalor , usando lo stesso verbo che qualche settimana dopo ha usato Al-Jazeera per le prigioni libiche (Libya Migrants Languish in Camps). La pressione pubblica è arrivata al punto che, con l’occasione di una visita di delegati dell’Ue, il comune ha chiuso la scuola da un giorno all’altro, spostando tutti i ragazzi in un altro centro – sempre dentro il “triangolo della morte”. Abbiamo tutti tirato un sospiro di sollievo, visto che la nuova struttura aveva condizioni igieniche molto migliori, e una cooperativa che si sarebbe incaricata dei ragazzi. Ad Augusta i ragazzi rimanevano soli tutta la notte; c’erano episodi di violenze tra loro decisamente inaccettabili, al punto che molti non riuscivano a dormire. Inoltre, c’era gente del paese che entrava nella scuola senza nessun tipo di controllo, implicando i ragazzi in traffici illeciti, o in chissà cosa.

Ma quando ho visitato il nuovo centro per la prima volta, ho capito che l’igiene era l’altra faccia del proposito evidente di ristabilire l’ordine. Oltre venti tra poliziotti e finanzieri, armati, stazionavano giorno e notte all’interno della struttura, con le macchine e i furgoni parcheggiati davanti all’ingresso, passeggiando liberamente per i corridoi; a volte entravano addirittura nelle stanze, manganello alla mano, quando c’erano risse tra i ragazzi. La pulizia del centro riposava la vista; ma il trattamento era molto rigido, e i ragazzi erano chiamati per numero anziché per nome. Molti hanno cominciato a idealizzare Augusta nei loro ricordi. Per quanto degradata e priva di controllo, la scuola era al centro del paese, e da lì era facile incontrare ragazzi italiani della loro età, giocare a calcio nel parchetto, addirittura conoscere qualche ragazza. Queste relazioni, per quanto poco adatte a una situazione di emergenza (e confuse con altre molto meno positive), avevano permesso a molti ragazzi di sentire che erano arrivati in Italia, non solo stipati all’interno di un campo: di prendere confidenza con il nuovo paese, di passeggiare per le strade – certo, anche di mendicare gli spicci per comprarsi una scheda del telefono, che il centro non forniva più; ma anche di mettersi alla prova con la nuova lingua. Nel nuovo centro sono invece quasi completamente isolati, in mezzo a un’urbanizzazione semideserta, lontano da tutto, accanto a un ospizio; i cancelli chiudono la sera e i ragazzi hanno dovuto imparare a controllare gli orari, quando non hanno scelto direttamente di non uscire più perché non hanno soldi per prendere l’autobus. E di nuovo, contrariamente alle loro aspettative, non hanno schede per telefonare a casa. Quindici giorni dopo il trasferimento, un gran numero di ragazzi del Gambia ha scatenato una piccola rivolta, distruggendo i condizionatori d’aria e scrivendo sulle pareti. Ma non c’erano più giornalisti del Wall Street Journal ad ascoltare le loro richieste, né ad osservare le reazioni dei lavoratori del centro o delle forze dell’ordine. Almeno finché qualcuno non ha scoperto che anche la cooperativa che gestisce questo centro è implicata in traffici mafiosi.

Possiamo fare supposizioni, ma ci è assolutamente impossibile capire cosa significhino questi luoghi per queste persone. Nei centri entra solo chi è legato alle associazioni o alle cooperative, e nessuna finora ha espresso una volontà reale di comprendere meglio cosa percepiscono i migranti. Chi è dal lato dei subordinati deve sempre fare grandi sforzi per capire i dominatori; ma i dominatori considerano futile e quasi offensivo doversi sforzare per comprendere cosa pensino i subordinati (lo spiega bene David Graeber nella Malinowski Lecture del 2006). Un giorno, senza dubbio, qualcuno di questi ragazzi scriverà, o racconterà in qualche modo, com’erano questi campi dal loro punto di vista. Quelli che sono ora solo una categoria burocratica, “minori migranti non accompagnati”, riveleranno la loro vera natura storica: nuovi esuli, che attraverso il deserto, il mare, la morte e l’inganno, fonderanno nuove città in nuove terre. Chissà che ruolo avrà Augusta, con il suo triangolo della morte, in questa nuova Odissea. Sarà l’isola di Ogigia, dove il tempo passava tranquillo, anche se vuoto? O forse quella della maga Circe, dove bisogna fare molta attenzione per non essere trasformati in animali?

[questo articolo è uscito in spagnolo su Observatori d’Antropologia del Conflicte Urbà e in italiano su Napolimonitor.it]

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