Il vicino

di Mariasole Ariot

Godere senza utilità, in pura perdita, gratuitamente,
senza rinviare a nient’altro, sempre in passivo – ecco l’umano.
Emmanuel Lévinas

Il Vicino

 

Una semifinale del 2012, due uomini, Napoli, due terrazzi. L’uno, a petto nudo, immerso nell’acqua di un gommoncino gonfiabile guarda la semifinale, l’altro, in canotta, un cappello in testa, sfoglia spartiti, ascolta un suono disteso sull’amaca. La telecamera passa dall’uno all’altro : dall’inno d’Italia cantato alla tv al metronomo dell’altro, dal pesce arrostito al gol di Balotelli, dalla pulizia lenta di una tromba, pezzo a pezzo, al bicchiere galleggiante di un cocktail casalingo. Si sposta per inquadrare un particolare, si inclina tra i tetti delle case, guarda dal basso. La partita è finita, il gommone è pieno d’acqua, il primo uomo si distende bagnato dal sole. Rimontato lo strumento, il vicino comincia a suonare. La melodia disturba.

***

E’ necessario entrare nel vicino, nelle strettoie delle case, tra uomo e uomo, partire dai bassifondi e poi comprendere ciò che accade nell’altrove. Guardare alle moltitudini che teniamo incastrate all’interno dell’occhio.

Nel Il Vicino, scritto e diretto da Andrea Canova (e vincitore come miglior cortometraggio a Festambiente Mondi Possibili ) c’è la folla e c’è l’individuo, l’uomo che si prepara con cura nell’estate bruciante di Napoli, e una società intera all’interno dello stesso volto, nello stesso sguardo. Basta una tromba, il fumo dei pesci alla griglia, basta un rumore troppo forte che oltrepassa il vociare di un’Italia- Germania e sei morto.
E così noi siamo l’uomo sdraiato sulla piscina gonfiabile che mangia e si china sulla semifinale e siamo l’uomo del terrazzo accanto che pulisce calmo i pezzi di strumento, siamo immersi nella vasca e siamo seduti a pochi tetti di distanza, con la pelle sudata e i denti innaffiati di limone, siamo lì e siamo altrove. Gli indisturbati e i disturbanti. Siamo una moltitudine nello stesso corpo. Ed è sempre in quel grado zero, in quell’umano troppo umano, che accade l’indicibile : un grido silenziato, un solo rumore finale. Non c’è sangue, non c’è esibizione dell’osceno, e non per timore di dire ma per la capacità di ri-raccontare il vissuto.

Dove oggi anche l’oscenità si scenifica, e il godimento è puro e non rinvia a nient’altro, l’arte può al contrario muoversi per sottrazione e in quella sottrazione ricollocare l’alterità nella sua vera forma.
Da un troppo pieno di carneficina ad un recupero dell’immaginario e del simbolico, che non butta in faccia – e in scena – un eccesso di reale, ma riesce a dirne proprio attraverso il silenzio.

Vediamo tutto eppure non vediamo niente. Vediamo uno scorcio, una bocca che suona, i denti grandi e bianchi sciacquati col limone, vediamo i pesci, una bandiera nera quasi di pirata, vediamo uno scorcio diventare veliero, il fumo che da casa passa a casa, vediamo i due vicini nelle loro nudità quotidiane, in un’intimità eccedente, che vuole sottrarsi dalla vergogna, vediamo due terrazzi, sentiamo qualcosa cadere prima che cada : sono le cadute in cui la telecamera forza tra tetto e tetto ed è già scesa e guarda dall’alto : non un calarsi ma la fine annunciata dell’essere già precipitati.

E allora l’urlo – già anticipato dall’immagine, non ha più bisogno di mostarsi nella sua brutalità, può fermarsi un istante prima, o forse un istante dopo : un rumore secco, il volto sdraiato dell’uomo-strumento.

Scriveva Michaux: “Le orecchie dell’uomo sono mal protette. Pare che i vicini non siano stati previsti.”

Il vicino è allora questa alterità sformata – questo non-essere-noi pur essendoci così prossimo da starci quasi incollato alla pelle. E’ l’essere noi nell’altro (come i tricolori appesi alle finestre) che ci disgusta quando in lui ci riconosciamo, perché specularmente ci fa da riflesso e il riflesso ci acceca, si fa insopportabile alla vista, alle orecchie.

Una tromba che per errore confondo con un sassofono, e scrivendo sassofono la penna scivola in sasso/fondo. Ne Il Vicino c’è in effetti qualcosa che va a fondo. Una pietra lanciata nel basso che riecheggia. Uno sguardo, quello di Canova, che non si pone a giudice ma si limita a raccontare l’alterità, dove il vicino è sempre vicino. Dove Napoli è Milano, è Trento, è Roma, è un luogo periferico, un territorio sognato, è una città di mare, di montagna, si colloca al centro dell’immaginario. Il vicino è l’altro con cui non si è disposti a fare i conti, un tu che va eliminato.

Non avere più nemmeno la forza della vergogna, di un rossore che ne avverte la presenza per aprirsi al dialogo. Basta uno sparo. Basta un laccio, una mitragliata, un dito in un occhio, una parola come fionda, un brusio di fondo. Basta : non dirsi niente.

Qui  – per la prima volta sul web, in anteprima per Nazione Indiana –  il cortometraggio completo

7 COMMENTS

  1. l’abbiamo selezionato anche noi del comitato artistico di corto dorico ad ancona tra i finalisti, facendolo rientrare a malincuore nella rosa dei 15 finalisti in mancanza di meglio. ma a me continua a sembrare facile e moralistico nel contenuto, catatonico nel ritmo e sorrentiniano (cioè virtuosistico e manierato) nell’aspetto esteriore.

  2. A me, Luigi, è parso invece un lavoro molto interessante – e che però sicuramente apre ad ambiguità : dove si può vedere moralismo io ci ho visto metafora. Certo, se lo si legge inquadrandolo all’interno di un unico scenario (una Napoli stereotipata, ad esempio), allora il senso cambia radicalmente. Se lo si legge in termini di relazione con l’Altro, e che “esce” dall’inquadratura del dove è stato girato, allora, io credo, la lettura può addirittura ribaltarsi, e diventare un tentativo portato all’estremo, all’eccesso certamente, di un momento in cui tutto è vicinissimo e contemporaneamente insostenibile, insopportabile perché altro da sé, perché esce dal simbiotico. Ed è la lettura che ho tentato di darne io. Va da sé: questa è una delle possibili interpretazioni, che può essere anche totalmente in dissonanza con le intenzioni dell’autore. Rispetto alle questioni puramente tecniche (ritmiche, inerenti all’uso dello strumento) lascio ad altri più esperti la parola.

  3. Caro Luigi Socci,
    puoi scrivere tutto quello che vuoi e che pensi sia utile o liberatorio scrivere…dammi pure del moralista(?) o del sorrentiniano(?)..fai come credi, ma quando dici che avete selezionato “a malincuore” il corto al vostro festival, non ci fai una gran bella figura, né tu né il festival in questione…sappilo! Mi mette una tristezza addosso questa tua frase ostentosa…
    La prossima volta vi mando una torta alle mele, forse apprezzerete di più.
    Andrea Canova

  4. Catatonico nel ritmo che significa? Quanti registi di valore utilizzano inquadrature lunghe, dialoghi pressoché assenti: Wim Wenders è catatonico?
    Virtuosistico e manierato… Non so, a me sembra ben costruito

  5. sono nel comitato artistico di quel festival da 10 anni e ho ormai visto migliaia di corti. il festival è considerato, nel panorama nazionale, assai serio proprio per lo scrupolo con cui vediamo, analizziamo, e discutiamo tutte quelle opere che ci sembrano meritevoli. non a caso da qui sono passati quasi tutti i corti che hanno poi vinto david e nastri d’argento, qualcuno ha persino rappresentato l’italia all’oscar, per il corto. quest’anno erano 150 I PARTECIPANTI (meno del solito, sarà la crisi?) e ne abbiamo visti e rivisti una quarantina e allafine scelti 14. MI CORREGGO: il comitato artistico di corto dorico lo ha selezionato a maggioranza, io, ovviamente, ero nella minoranza. i 2 aggettivi incriminati erano riferiti al corto e non a te che non conosco e di cui posso pensare tutto il bene possibile. una (consolatoria) notizia non diffusa: il vicino, che è stato proiettato nella prefinale soggetta a ripescaggio, è arrivato secondo con il voto del pubblico dopo officium che ha poi vinto anche la finale. insomma mi assumo tutte le responsabilità dei miei gusti e delle mie opinioni (sempre opinabilissime) ma vorrei assolvere il festival che è davvero rigoroso (credimi) nella selezione dei partecipanti. poi si può sempre sbagliare. comunque se mandi la torta (sempre apprezzata durante le lunghe sessioni di visioni domenicali) mandala anonima per non influenzarci

  6. “questo non-essere-noi pur essendoci così prossimo da starci quasi incollato alla pelle. E’ l’essere noi nell’altro (come i tricolori appesi alle finestre) che ci disgusta quando in lui ci riconosciamo”
    “Il vicino è l’altro con cui non si è disposti a fare i conti, un tu che va eliminato”
    quel grado zero dell’umano a cui per ora è impossibile avvicinarsi. Bella scrittura, e l’incontro con Levinas.

  7. Ti ringrazio per le parole, Cristiana. E – come tu dici – quello con Lévinas è stato esattamente questo : un incontro.

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.