Le Bandierine
di: Federico Pevere
Sergei Chalibashvili, georgiano, è l’unico atleta deceduto durante una competizione internazionale riguardante gli sport acquatici. Greg è considerato il più grande tuffatore di tutti i tempi. Tom è semplicemente Tom, per lungo tempo il compagno di Greg; è morto una ventina di anni fa per AIDS.
Ricorda il peso morto e già senza velo di Sergei Chalibashvili. Molto lontano da casa, un banale tuffo, siamo alle Universiadi, la testa piccoletta già congegno di un flipper fuori tempo massimo; già proiettile al contrario, meccanismo che insegue l’inerzia di un corpo che s’infila fra tutto quel bianco e nero che vediamo, diventando bara già in volo. Accorrete, Sergei sta morendo. Il suo braccio che in preda a una violenza nervosa – l’ultima Sergei, l’ultima – chiede aiuto, forse saluta con la mano, s’agita, graffia nel grigio di quel pomeriggio, gratta per sentire, un’altra volta. L’ingresso in acqua fu il coma, l’ultimo assaggio d’aria di Sergei. Il voto complessivo dei giudici fu un per nulla stimolante 0.0, può fare di più, Sergei. Il voto alla morte, zero punto zero. Accorrete, Sergei sta morendo.
Ho avuto un presentimento e ho chiuso gli occhi e mi sono tappato le orecchie e poi era finito, mi raccontò Greg qualche anno dopo a proposito del proiettile georgiano in procinto di morire; senza lacrime, assente, così farfuglia Greg, il mio amore Greg, Greg e la morte. Fu un mattatoio senza presa sul terreno, Sergei. Non toccatelo, non toccatelo! Gridarono tutti. Una pozzanghera di sangue (e non una pozza, com’è consuetudine di espressione), così Greg concluse il suo racconto, senza un preciso riferimento temporale, senza forze, Greg senza Greg, una pozzanghera dove piove del Sergei. Accorrete, Sergei è morto. Nessun colore, le bocche aperte senza colori dei pochi presenti. Greg me lo raccontò seduto in cucina, al buio d’estate. Le gambe esili, le ginocchia si toccarono frenetiche per tutto il tempo. Mi guardò piangendo e disse Tom, Tom, che faccio, e poi smise di parlare. Le gambe sussultarono un attimo e poi il buio che già c’era ma chi aveva tempo di accorgeresene. Nessuno andò da Sergei. Ma che accorrete e accorrete, restate dove siete, Sergei è morto davvero.
Ora Greg è bellissimo, è statua in volo. Adoro le forme dei suoi muscoli delicati e tesi, senza macchie, impuniti. C’è chi piangerebbe per lui, chi si vestirebbe a lutto a vita per averlo. Dice che questa sarà la sua ultima gara, lo dice ogni volta; siamo lontani da casa come Sergei, un banale tuffo, siamo alle Olimpiadi. L’arena si zittisce, le mille belle bandierine bianche rosse e blu sfarfallano ancora un attimo. Greg prima di ogni tuffo non respira. Parte, il viso sformato, in procinto di tutto. La rincorsa, e poi lo stacco, le braccia scivolano indietro con un tono metallico e sono bellissime così distese come se così distese fossero orgasmi su di un letto, legate sul nostro letto le sue braccia, prima di tutti questi abbandoni che sono banali tuffi.
Le braccia le ritira di scatto, qualcosa va storto. Tocca l’unica cosa che poteva toccare, che non andava sfiorata, il trampolino azzurro. La testa non rimbalza, è scheggia, schizzo anticipato di carne. Tutti sugli spalti si mangiano la lingua. In volo si riunisce col suo corpo, ridiventa feto, è pavimento su pavimento, l’aria dell’aria. Finalmente respira, tutti respiriamo, sputiamo le lingue. Finalmente l’acqua. Perdo di vista le linee dei suoi muscoli intrecciati, devoti, che mi accompagnano nei sogni mentre l’aspetto qui, come in un altro tempo, seduto sul letto, una mattina di qualche anno fa. Non voglio dividerti con nessun altro, gli dico. Sei pazzo, mi risponde, non se ne parla, continuiamo così. No, sei solo mio, ripeto. Cerco qualcosa con le dita senza perderlo d’occhio. Cammina pensieroso. Ha la schiena ancora lucida, così delicata. Si distrae. Lo prendo da dietro, la mia mano sul suo collo, come il padrone col suo cane al guinzaglio, dove vai, che ti abbai, vieni qui e intanto il cane è fra le gambe. Perde l’equilibrio, è sul pavimento, io subito sopra. Accorrete, Greg sta morendo.
L’acqua spazza via tutto, piscio sangue infezioni, le cose belle, anche. Greg vorrebbe essere quella dispersione. Invece è un concentrato di paure del tempo. Infezione che non infetta, che forse non sa di infettare. La dispersione che diventa macchia che scivola verso l’alto, la vedi solo se t’immergi con degli occhialetti speciali, se proprio vogliamo essere pignoli. Se sprofondi, se te la vai a cercare, la trovi. Un tuffo sbagliato. Cinque o sei gocce di sangue. E’ tutta una questione di superficie. Ha la forza di uscire dall’acqua, poi chissà. Il dottore ha le mani calde e guarda Greg negli occhi. Le occhiaie di Greg, d’un antico, rallentano, spengono gli occhi, li spingono nella paura, a una mattina di qualche anno fa, alla nostra prima volta, io il padrone lui il cane, quel presagio maledetto, quel mio desiderio di volerlo tutto per me. Accorrete Greg non sta morendo ma ha gli occhi strani, nascondono qualcosa.
In quel momento Greg non ha coscienza, è la combinazione sbagliata. Perde sangue e controlla attento le dita del dottore che sono olio da come scivolano, ma quale protezione. Scattano sulla sua pelle sempre bagnata, quelle dita, sempre. I guanti dove diavolo sono, Greg guarda l’allenatore dall’occhio impazzito, ovunque, pensa, crede, spera. Arriva tutto e subito, il freddo e tutto il resto. Da disteso lentamente perde, perdi conoscenza, ripensa, ripensi. Cinque punti. Non dice altro. Nessuno parla. Le bandierine statunitensi continuano a muoversi frenetiche, inutilmente patriottiche, l’altra mano sulla bocca. Come una mattina di qualche anno fa la mia mano sulla bocca di Greg, sotto di me, un coltello da cucina appena sotto il mento. Il coltello ti costringe su di me. Ne approfitto. Non dici nulla. Ho la forza.
Scappo dalla tribuna. Greg è già negli spogliatoi. Non prova dolore. Le scale sono buie, voglio solo la mia stanza d’albergo. Un uomo mi chiede cosa è successo. Ha l’occhio insanguinato sa, mi dice poi. D’istinto me lo sfioro. E’ rosso, dice. Mi sorride, mi chiedo come sto, se voglio sedermi, il mio nome. Piacere, Tom, gli stringo la mano. Nessun guanto. Sorrido, guardo le mie mani tremanti, bianche e malate. Mi guarda stranito un attimo prima di allontanarsi mangiandosi le unghie, pensa. Rientro in albergo, solo. Un pavimento qualsiasi. Pulisco del sangue che non c’è. Accorrete Greg è sieropositivo. La colpa è mia, che si sappia in giro. Greg, ti prego, abbracciami quando mi vedi.
Sono tagli piccoli, minuziosi. Profumano e si nascondono. Nulla a che vedere col cemento, Tom. Sono figli miei, che se ne dica, e della perfezione, e del fallimento mi faccio portatore sano, Tom. Evoluto. Io credo nel tempo. Io ho paura del tempo, sai Tom. Non sono un eroe, al massimo rancore. E’ vero mi hai dato questo peso. Mi hai bucato con la tua malattia. Mi volevi tutto per te. Alla fine mi hai avuto, Tom. Ti ricordi il coltello? Non serviva arrivare a tanto. Ti voglio bene. Nonostante.
Eccoli i pensieri di Greg, pensati detti qui accanto, in ginocchio sul mio letto, mentre sto morendo. Ha detto infine che era bravo a tuffarsi, per il resto si faceva male ovunque. Il mio Greg. Lo guardo dall’alto della mia morte, qui, fra queste pareti verdi e col sapore definitivo in bocca, lo guardo sì, gli occhi strani. Lo guardo piegato sul pavimento. Accorrete Tom è morto, non griderà Greg.