Essendo il dentro un fuori infinito #5
di Mariasole Ariot
Vuotarsi; ci si espone a tutta la pressione dell’universo che ci circonda
S. Weil
Stamani hanno spostato le poltroncine arancioni : la chiusura dev’essere libera, la porta in entrata e non in uscita, una donna vigila come un arbusto sulla soglia. Allunga uno ad uno gli arti, parla dei suoi cani sfogliando i giornali del 1998. Il tempo è fermo, nessuno se ne cura, le bave delle lumache si affacciano prima dei loro volti : escono di sera, quando l’ambiente è più umido, si cibano di cavolarie, disfano il raccolto seminato, scombinano l’ordine del campo.
Annamaria ha pianto tutta la notte. Si contorceva nel sonno, si alzava a tratti, pregava che l’inesistenza finisse, che il vuoto in cui l’aveva rinchiusa la figlia maggiore avesse uno spazio cavo all’interno : ma il vuoto non è mai cavo, si prende gioco della materia, non dell’umano, non del disumano. Il pianto è una scia lunga di parole, l’accavallarsi di ricordo e di futuro
“Quando sarò qui non mi sarà permesso di bere. Quando sono uscita non potevo seminare : i bambini giocano con la nonna e non hanno una madre. L’hai vista mia madre? Sarà per sempre una figlia. Mi ha inchiodata al muro con le dita – spesse come chiodi infilzati nella carne, ha urlato : prendetela, è questo il momento giusto.”
Ha disegnato un crocifisso al muro per fare una chiesa. Dal foglio appeso sulla fronte cadono parole : ma l’antitesi del vuoto è un’invenzione, un pieno di voce che non dice nulla se non questo sgoccialare di lettere, una ad una come nevischio, quando la consistenza non è tale da dirsi neve, quando la velocità non è tale per poter dire : pioggia.
Ha disegnato un muro per costruire una casa, per aggiungere prospettiva alla stanza che contiene. L’inserviente è entrata tre volte, ha invitato a cancellare, poi ha riso : tutto – dice – si cancellerà quando ve ne andrete.
Hai disegnato una casa : e non aveva muri.
***
Annamaria piange da centodieci giorni. Continua a pregare, straccia le verità che le sono state costruite attorno, ne aggiunge di nuove a pennarelli spessi. Ha individuato tre colori da cui è impossibile sfuggire : i primari che non hanno il camice possono mescolarsi tra loro, copulare fino a creare un terzo. Annamaria non li mescola, lascia le tinte separate come vorrebbe non fosse il mondo.
***
Eppure oggi è di nuovo ieri. La donna arbusto ha deciso di pulire i tempi. Scarta uno a uno i giornali del passato, li sostituisce con un niente : meglio il niente di un tradimento, meglio la superficie liscia, meglio estrarre la polvere e restituire un senso.
Ancora, le strisce umide a terra ricordano un tempo in cui i primi animali ad evolversi non erano ancora gli ultimi : pesci, rettili, anfibi, uccelli e molluschi. Annamaria è l’ultimo fossile rimasto in vita.
“Cara, non diventare come mia figlia. E’ il rumore che non ci capisce. Mia figlia urla e m’incatena, ha corrotto gli stolti, costruito una scena lunga e una carriera per farmi fuori. Ma io ho un buco nel petto : guardami : escono figli : guardami : nascono doglie : guardami : non esce niente. ”
Il carrello è arrivato, Annamaria piange da centodieci notti. Le infilzano uno stecco bianco in gola, restituiscono le pinzette, il colore alle labbra, le ciglia di un sud profondo, restituiscono le coroncine, gli unguenti, le madonnine dei catechismi, restituiscono i Vangeli, la lima per le vertebre, la schiena, il corpetto, due seni, la chiamano La Santa, le aprono il cappotto, le infilano le risa nella tasca, due figlie, un maschio preparato, mancano i soldi, non se ne farà niente. Sparisce come spariscono tutti:
Gli invertebrati
da adulti somigliano alle piante.
Il crocifisso è stato cancellato, mi solleva la vista di due toni : posso guardare il bianco, il rovescio di una traccia, la nostra testa grida e non emette suono.
Dicono si sia persa. Ha preso un treno senza documenti, l’hanno rispedita a casa senza nome.
“Quando tornerò sarà già tardi. I bambini saranno cresciuti e la mia casa non è più grande per contenerli : mi sono rimpicciolita, hai visto? Potrò ancora parlare dopo tutto questo? Possono ascoltarmi i bambini caduti nelle buche? Può un bambino – ti chiedo – può un bambino smettere di cadere? Possono le buche smettere di avere la forma dei bambini? Sàlvati : sfonda la porta, lascia che la scia si secchi, dimenticati del troppo tardi, recupera la ore immobili, apri i giornali del giorno dopo, non guardare le date, cancella i titoli : riscrivili. E’ ora che vada. Mi hanno truccata per bene: dicono che l’arcata sopraccigliare scriva già del sorriso prima di vederlo : mi vedi? Lo vedi come sorrido? La vedi tutta questa partenza nel corpo? Ho forse bisogno di una bocca per parlare? Quante bocche ci hanno costruito, piccola, quanto partire? Smetti le bocche, smetti le teste, pensami quando io avrò smesso di pensarti.”
Madre, quando ce ne andiamo portiamo sulla schiena il ricordo di un guscio : è la nostra memoria, il nostro arto amputato che ancora continua a bruciare.
[…] Essendo il dentro un fuori infinito #5 | Nazione Indiana. […]