Vado in Piazza
di Gianni Biondillo
Per raggiungere i livelli alti del ponteggio Marco, uno dei responsabili del cantiere di restauro delle facciate, decide di farmi fare una deviazione sui tetti della Galleria. Da qui lo spettacolo è semplicemente incredibile. Guardare dall’estradosso della copertura vetrata le persone che passeggiano ignare sui mosaici, quaranta metri più sotto, toglie il fiato. È come stare dentro ad un film fantasmagorico, mi sento Hugo Cabret, m’aspetto da un momento all’altro Martin Scorsese che grida: “ciak, azione!”
Arriviamo ai piani alti dell’impalcatura, sul braccio sinistro della Galleria, e Marco mi racconta del portale semovibile che permette di pulire sezioni delle campate lasciando libero il resto delle braccia. Poi, finiti i lavori di pulitura, tutto viene trainato sui binari per ricominciare i lavori sulla sezione successiva. Anche questa impalcatura volante, a ben vedere, ha un che di favolistico. Marco mi espone con minuzia i lavori di restauro e io tocco, fremente, il capo di uno dei telamoni, o il cornicione in cemento decorativo. L’animo d’architetto che mi rugge dentro è felice come un bambino nel paese dei balocchi.
La storia di quest’opera titanica mi ha sempre affascinato. Da quando un giovane architetto, Giuseppe Mengoni, nel 1859 vinse il concorso del rifacimento della piazza del Duomo, sbaragliando 176 concorrenti, alle infinite traversie del cantiere, inaugurato ben tre volte, con gli scandali finanziari, i tracolli economici delle varie società appaltatrici, la deportazione forzata degli abitanti dell’area, le bustarelle a politici compiacenti, gli aumenti di volumetria in corso d’opera, insomma, tutto l’armamentario della più tipica, triviale storia italiana. Ma anche, altrettanto tipico del nostro paese, la voglia di edificare un monumento magistrale, capace di stupire chiunque passasse, per mettersi al pari con le altre nazioni avanzate dell’Occidente – noi, all’epoca nazione appena nata -, di rappresentare cioè un’epoca e i suoi sogni più arditi. Riuscendoci. Perché i milanesi perdonarono tutti gli scandali e adottarono da subito la Galleria trasformandola in uno dei luoghi deputati della loro identità cittadina. Non solo passeggio coperto, ma anche luogo dove scambiare opinioni, fare cultura, politica, socialità. Un posto dove stare, magari per consultare un libro, sorseggiare un caffè o bere un aperitivo. Il salotto buono di un’intera città.
Il salotto di tutti, però, non solo dei ricchi signori del centro. Ricordo che da bambino, quando abitavo a Quarto Oggiaro, mio padre diceva: “Vado in piazza” senza aggiungere nulla e tutti sapevamo dove. Lì, sotto la Galleria, in uno di quei capannelli di anziani che discutevano animatamente di tutto, dall’ultimo derby alle prossime elezioni amministrative. Milanisti o interisti, fascisti o comunisti, ogni scusa era buona per bisticciare. Erano anni senza internet o cellulari, ma se avevo bisogno di lui sapevo dove trovarlo: nel salotto di Milano, dove magari mi presentava orgoglioso ai suoi amici e poi mi portava a bere un caffé da Biffi.
Cammino su una delle balconate e guardo la gente passare sotto di noi; vedo alcuni turisti fotografare compulsivamente tutto, compresa l’impalcatura dei restauri, quasi fosse un’imperdibile installazione di qualche designer postmodernista. Sorrido. I milanesi ci sono abituati alle impalcature in Galleria. Ci passeggiavano già fra i ponteggi eretti dopo la grandinata estiva del 1874 che distrusse la copertura, o quando ancora la facciata con l’arco trionfale sulla piazza era un cantiere bloccato dalle pastoie burocratiche. Hanno continuato a farlo dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale che scempiarono l’edificio, o fra le strutture provvisionali di rinforzo, quando si scavò in Piazza del Duomo per la nuova linea metropolitana. La rossa. Altro sogno modernista di una Milano un po’ vanesia che si sentiva capitale economica e “morale” di una nazione.
Un monumento non è solo un edificio, è un luogo carico di memoria. Questi muri trasudano storie. Lo so da architetto, lo so da scrittore. Ancora nel secolo scorso in questo dedalo di cortili, scale, palazzi e strade interne – talmente grande che fece dire a un ammirato Mark Twain che si potrebbe vivere tutta la vita qui senza mancare di nulla – abitavano maestri di scuola elementare, sartine della Scala, artisti bohémien. Qui due milanesissimi siciliani, Giovanni Verga e Luigi Capuana, potevano conversare dei loro progetti editoriali degustando un risotto da Savini, qui, come si può ammirare in un dipinto di Boccioni, potevano scatenarsi zuffe fra donne pronte ad accapigliarsi davanti alla bouvette del Campari, le stesse che poi magari andavano a comprarsi una borsa in cuoio da Prada, qui Salvatore Quasimodo di ritorno dal Genio Civile di Sondrio tirava tardi parlando d’arte e poesia con De Grada, Cantatore, Messina, qui nel ’68 i figli ribelli della borghesia meneghina manifestavano per Cuba nel nome di Mao Tse Tung.
Ho visto col nascere del millennio perdere l’abitudine dei milanesi a frequentare questo luogo. Capannelli di sfaccendati, come quelli che frequentava mio padre, non se ne vedono più e la cosa mi intristisce. Mi sembra d’essere il testimone di un perduto amore. Da questa posizione privilegiata vedo passare scolaresche, turisti cinesi che si fanno selfie selvaggi, gruppi sparsi di russi o americani che ruotano divertiti i talloni sui testicoli del toro, senza sapere esattamente perché. I milanesi passano di corsa ma non si fermano. Oggi la Galleria appartiene ad un immaginario globale, è ammirata in tutto il mondo, tappa obbligatoria per chiunque venga in città. Pare, mi racconta Marco, che un magnate del Qatar ne stia costruendo una identica a casa sua, tutta in marmo di Carrara. Chi lo sa, gli dico, forse questo restauro che sta dando una nuova vita ad un luogo così carico di storia è il nostro modo di dichiarare un nuovo amore per queste pietre. Un regalo fatto prima di tutti ai milanesi, che tornino a fare della Galleria casa loro.
Era un freddo inverno quando Mengoni, il giorno precedente la consegna definitiva dei lavori, cadde dalle impalcature della cupola centrale perdendo la vita. Aveva la mia età. La leggenda dice che si suicidò per le troppe critiche ricevute e per l’affronto del Re a cui aveva dedicato la sua opera che non sarebbe stato presente al taglio del nastro. Le leggende non sono necessariamente vere, basta che siano belle.
Anche oggi è una fredda giornata invernale ma di buttarmi da questa impalcatura ovviamente non ne ho la minima intenzione. Non mi interessa entrare in alcuna leggenda. Invece ho voglia di scendere, di fermarmi sotto l’Ottagono, di comprare un libro, di discutere di politica con uno sconosciuto o di prendermi un aperitivo, come facevo con mio padre, quando si andava in piazza, senza specificare dove, che tanto poi ci si ritrovava sempre in questo luogo così familiare, così domestico. Il salotto buono di casa. Quello di tutti i milanesi e, ormai, del mondo intero.
(pubblicato su Vanity fair del 4 febbraio 2015. Le foto sono mie.)