Miti Moderni/8: fine di un amore noir
di Francesca Fiorletta
Non si dovrebbe tenere un diario, quando si soffre, si rischia di ricordarlo sempre, quanto fa bene, quel dolore. Si rischia la confessione, e lo sparo.
Senti come pulsa, la lingua gonfia, l’amianto sterile non ha sapore, dopo il caffè, resta ancora lì accucciato nel giardino dei ricordi di mammà, anche un secolo va bene.
Hai sempre la bocca bagnata, perdi l’udito, senti fischiare, continuamente, starai piangendo, ti confiderai con un amico, scattano opachi i secondi impressi sopra al contatore in miniatura dell’autovelox, la luce gialla si fa di vetro inconsistente, senza accorgervene vi allontanate ogni giorno dalla meta prefissata, non avete mai saputo dove andare, a sbattere.
– L’hai preso tu il bagaglio a mano?
O te l’hanno rispedito in tumulto da New York?
Passate lontani la notte, vi manda segnali bruciati questa luna di garofano, che pure non siete più in grado di cogliere, o forse è pura finzione, inaccettabile, tremano forte per l’impatto i polsi, tu invece hai le dita sottili, inesistenti, aiutati col vino, impara a cantare sul nuovo pianoforte a molle, qui in mezzo alle gambe si battono i denti, ma è solo la spia dell’abbandono, non temere, potete starvene ancora un poco lì a morire, nel bidè, lasciatevi ammaestrare, senza litigare, qualcosa vi fraintende:
– Non senti quello che dico?
Oppure non lo capisci?
La concorrenza è sempre spietata, l’illegalità, “non siamo più noi”, quelli che si baciavano a morsi fino a consumarsi la barba, in questa fotografia tu sembri più giovane, lui le ricorda i pranzi di lavoro sotto i portici argentini, quei putti alati che ridono spesso, rendiamo grazie ai bambini, addirittura, con le mani strette, serrate, la coscia appesa nella coscia, “tu sei il mio infinito”, che pena, ma adesso è meglio non parlarne più, c’è un campanello che stride, un allarme disinstallato male.
Sempre troppi gli intoppi, prima di partire per una scampagnata, è la primavera precoce di Vivaldi, e voi siete appena arrivati al mare, “sediamoci sul primo scoglio”, quello tiepido di giugno, che ancora viene la pelle d’oca al vento, e si scarmigliano i vestiti dietro la schiena, teste di bimbi sudati con le frange in disordine, il residuo del lecca lecca ai lati della bocca, forse, ma solo forse, un cane da passeggio, quanti cani negli appartamenti, nelle grandi città, nei quartieri popolari, tre metri quadri per fare la pipì, i vicini sempre all’erta sul pianerottolo, ve ne stavate lì a parlare, lei che alla fine sbatteva la porta, gridava di violenza, lui s’attardava nell’esasperazione, non vuoi più sentir parlare d’amore:
– Dovresti vedere un medico
E intanto l’ascensore continua a bloccarsi, piano due, piano tre, piano tre, c’appendi dentro l’arbre magique, le cartacce spaiate dei giornali, quelli vecchi, ecco sbiadito l’andamento della borsa, in crollo, l’intervista al premier, lo spettro del terrorismo, il condimento all’olio d’oliva, in variante balsamica, 2,45 centesimi di euro, lo trovi esposto nel discount più grande, quello all’angolo col negozietto bengalese, al semaforo. Lo sconto per la palestra incluso resort, se porti un amico entro la fine della settimana, prepara i volantini, devi affrettarti, i calzini usati buttali nella cesta, li rammendi domani, fai la fila per l’asciugatrice, l’allarme avvisa con un sms in caso di furto, se ne stanno stesi sopra lo scoglio di periferia, loro, e noi persi ancora dentro a un abitacolo molesto, col led incrostato dagli umori vaginali, una zanzara qualsiasi.
Le prime volte senza crederci, una telefonata urgente, è il capoufficio, un amante imbizzarrito quando passa l’una di notte, chiama a casa la sua donna per sapere se c’è, per controllare se dorme, per impartirle un sogno, che cos’ha creduto, lei, per chiederle scusa, sai, amore, per quella scappatella: “non lo faccio più”. Poi si attarda giusto il tempo di un amaro, gioca una partita a bridge, ride con gli amici, c’è un anziano che cerca aiuto, gli fischiano le parole in mezzo ai denti, le gengive che prima pulsano, poi sanguinano, e fanno male, l’orecchio che non s’accorda e fa gorgogli, glu glu glu, pronto, “pronto?” ma chi parla, non si sente niente, nessuno alza il ricevitore.
Dormono ancora, o sono già usciti, una, due sere, tutte le sere, adiranno a vie legali, il trillo continua imperterrito, e voi che già non vi guardate più negli occhi, “doveva finire”, in qualche modo, s’è spento tutto così, con le ginocchia rannicchiate sul sedile passeggeri, come fosse un mozzicone di tabacco, un filtro, troppo lontani dalla pompa di benzina, è solo il suono del garage, il campanello ipocrita della dogana, l’ingresso sintetico per le vetture automatizzate, senza il climatizzatore.
Avete intorno quattro palazzi, dieci piani per ciascuno, quattro appartamenti su ogni piano, sei stanze per ogni appartamento, escluso il cane, 1,3 automobili pro capite, la vita audace è assai frenetica, il car sharing, ricordati almeno il parrucchiere, di sabato, previo appuntamento, vuoi provare il motocross, sposta di corsa l’ayurveda naif, il carretto di bottiglie smerigliate che ti taglia la strada a prima sera, l’ananas verdastro dall’incerta provenienza, ritira la giacca in tintoria, improrogabile ore 18:00, c’è la chiusura dei seggi, fai la spesa per il cane, screma i croccantini, abbandonalo in tangenziale, prendi la scala mobile o il montacarichi?
Poi vi lasciate, c’è una mostra fotografica dell’amica ricca che abita in centro, danno al cinema d’essai l’ultimo film di quel regista emergente cileno, 48 anni, vergine, smetti di provare a rimorchiare minorenni in discoteca, esci con le amiche, semmai, scegli quelle da riaccompagnare a casa, la sera, così hai la scusa per attardarti un poco, le chiavi del portone le hai perse, è meglio ricominciare daccapo, avanza solo la claustrofobia di un momento: la discoteca, la vineria oceanica, il pub irlandese, il centro commerciale, il falegname fermo e davanti la saracinesca, lo zoppo coi baffi neri, la pizza dal pony express abruzzese, 7 euro l’ora, baciarsi sui sedili in pelle di un Suv, premi il tacco 12 contro il lampione.
Ti trema la voce ma nessuno la sente, non riesci più a parlare, non riesci nemmeno a guardarti intorno, non vedi nessuno e vuoi soltanto rimanere fermo, in religioso silenzio, hai gli occhi vuoti di tempo, gli zigomi appesi, la faccia stanca, le guance molli tirate indietro, le borse gonfie, le lacrime algide che non sanno scendere, restano scarse di pianto, adesso no, cinque minuti prima di entrare in macchina sì, speravi in un abbraccio, ancora in volata le scale, uscire all’alba da un qualunque appartamento, la bocca impastata dal sonno:
– Ma che hai addosso?
Era in ansia, correva da te, non poteva immaginare che sarebbe stata l’ultima volta, non avrebbe portato la pistola.
[…] https://www.nazioneindiana.com/2015/03/06/miti-moderni8-fine-di-un-amore-noir/ […]