L’Art d’exposer. Carlo Scarpa museografo
di Enrico Camporesi
Alla Biennale di Venezia del 2003, Gabriel Orozco presenta la scultura Shade Between Rings of Air. Si tratta di una replica 1:1 della pensilina preparata nel 1951 da Carlo Scarpa per il padiglione centrale dei giardini, nel cortile interno aperto nel tentativo di sopperire alla ventilazione insufficiente delle sale. Secondo Alberto Viani, che nel 1951 si astenne dall’esporre le sue sculture in tale spazio, la forza plastica e « l’esito poetico » della pensilina erano giustamente paragonabili a un’opera scultorea, e quindi inutilizzabili come spazio di esposizione. Orozco non fece che additare tale presenza, iscrivendo, per mezzo della copia, un elemento architetturale nello spazio di esposizione adiacente, in una sorta di divertito gioco di specchi (nel quale il modello mantiene le stesse proporzioni della copia, la quale è a sua volta concepita come “il modello” dell’originale).
In un gesto teorico che replica idealmente la pratica artistica di Orozco, lo storico dell’architettura Philippe Duboÿ ha approntato per i tipi di JRP Ringier – La Maison Rouge un’antologia intitolata Carlo Scarpa. L’Art d’exposer. Nel volume l’autore raccoglie i minuti interventi scritti di Scarpa, e più precisamente quelli dedicati al suo lavoro di museografo, accompagnandoli e mettendoli in dialogo con commenti, riflessioni, critiche e apprezzamenti di altra provenienza. La traiettoria è chiara: Duboÿ invita a leggere l’opera di Scarpa, ovvero, come richiama puntualmente il titolo, un’arte di esporre. Tale arte, che presume dunque di mettere in valore una produzione artistica, viene a sua volta esposta come tale – così come la pensilina della Biennale veniva investita di un altro valore tramite lo spostamento nella sala del padiglione centrale. Le realizzazioni commentate da Duboÿ coinvolgono due musei, una decina di mostre, e un incontro con Marcel Duchamp. L’andamento è cronologico e parte da un testo programmatico: “Adesioni al movimento razionalista”, pubblicato su Il lavoro fascista nel 1931. L’articolo in omaggio a Piacentini, firmato da Scarpa assieme ad Aldo Folin, Guido Pelizzari, Renato Renosto e Angelo Scattolin, racchiude una preziosa dichiarazione d’intenti nelle ultime righe, che si potrebbe applicare come esergo all’opera di Scarpa (così poco prolifico nei testi): «sappiamo benissimo che, se il pubblico interroga, bisogna rispondere con delle opere, non coi manifesti». L’indicazione di metodo è chiara: è alle realizzazioni concrete di Scarpa che bisogna guardare per cogliere la sintesi del suo pensiero, che non trova numerose occorrenze nei suoi interventi scritti. Basta volgersi alle produzioni capitali di Scarpa per comprendere la traiettoria teorica dell’architetto. Si pensi per esempio alla risistemazione delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, compiute fra il 1941 e il 1947 sotto la supervisione di Vittorio Moschini. Il primo gesto, radicale, è quello di abbassare il ciclo delle storie di Sant’Orsola del Carpaccio, che erano state sistemate a quasi due metri dal suolo dopo la prima guerra mondiale, in un goffo tentativo di ricostruzione ideale della “vecchia scuola”. Scarpa sceglie di posizionare i dipinti più in basso, in modo tale da renderli leggibili allo spettatore (una preoccupazione che sarà una costante del suo lavoro). Non solo: si sbarazza pure delle cornici, di provenienze eterogenee, e degli stalli che circondano le opere.
In quegli anni, estremamente produttivi, Scarpa non si cimenta solo con le collezioni storiche, ma partecipa alla realizzazione della prima Biennale del dopoguerra (1948). Il segretario generale Rodolfo Pallucchini (membro della commissione con Lionello Venturi, Nino Barbantini, Roberto Longhi, Carlo Ludovico Ragghianti, e gli artisti Pio Semeghini, Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio Morandi e Marino Marini) affida a Scarpa la disposizione di alcuni spazi centrali fra i quali la retrospettiva di Martini e quella di Carrà/De Chirico/Morandi, la sala di Paul Klee e la collezione Peggy Guggenheim nel padiglione greco. Nel salone centrale Scarpa si adopera per ottenere, scrive Duboÿ, «una vera e propria prospettiva teatrale metafisica animata dalle sculture di Arturo Martini», adattando alcuni principî scenografici desunti dalla sala “Moda e Sport” allestita da Josef Hoffmann (una delle influenze dichiarate di Scarpa) al Werkbund di Vienna del 1930. Per Klee invece Scarpa adotta una soluzione diversa, allestendo uno studiolo con i dipinti su una serie di pannelli, secondo un dinamico rapporto di sovrapposizioni. In particolare della sala si ricorda la “striscia” di opere che si dispiegano, seguendo un sapiente gioco di allineamenti, come in un nastro, la cui altezza è determinata dalla misura di L’uomo grigio e la costa (1938). Scarpa riprenderà poi l’idea, radicalizzandola, in un altro sodalizio con il curatore Pallucchini – il pannello obliquo concepito per la celeberrima mostra di Giovanni Bellini al palazzo ducale di Venezia.
Il progetto museografico di Scarpa è orientato secondo una precisa preoccupazione teorica: strappare l’opera d’arte alla pedante ricostruzione storica, e immetterla con decisione in un dialogo proficuo con il passato, senza la necessità di ricrearne le sembianze posticce. Si tratta di un’operazione comprensibile non solo iscrivendo le trovate di Scarpa nell’ambito dell’architettura razionalista ma in quell’alveo, ben più ampio, che coinvolge la storia dell’arte italiana del dopoguerra e – perché no? – anche i fondamenti teorici del restauro di Cesare Brandi. Tale è il percorso adottato nella prefazione al volume di Patricia Falguières, che avvicina Scarpa ad alcuni professionisti contemporanei (come Franco Albini, autore del supporto telescopico per la Margherita di Brabante di Giovanni Pisano, presso il Palazzo Bianco di Genova) e a pensatori chiave nella teoria e nella storia dell’arte italiana coeva. In questo senso, un’affermazione giovanile di Giulio Carlo Argan
(1938), che ricordava come l’allestimento di un museo non fosse solo una questione di “atmosfera” ma anche «il risultato e la condizione di un progetto critico», pare l’accompagnamento ideale del lavoro di Scarpa. Lo stesso Argan continuava, ancor più esplicitamente, affermando che è possibile «paragonare la disposizione di un quadro in un museo all’edizione di un’opera poetica».
In questo senso insomma, la museografia pare fare tesoro di un precetto della filologia letteraria: l’originale è (per definizione) perduto. Il museo non è uno spazio per mimare un passato inattingibile (nessuna concessione alle Period Room) bensì il luogo ideale per iscrivere l’opera nel contemporaneo e renderne così leggibili i valori formali ed estetici. È proprio su questo punto che Falguières richiama l’attenzione del lettore nelle ultime righe della sua prefazione. Il formalismo di Scarpa prende le distanze tanto dalle soluzioni museali adottate all’incirca allo stesso periodo da Alfred Barr al MoMA, quanto dalle formulazioni moderniste di Clement Greenberg, che sfoceranno implicitamente nel White Cube, lo spazio immacolato della galleria, sprovvisto di qualunque distrazione percettiva per uno spettatore ridotto a puro occhio. Non vi è prospettiva più distante dal fare di Scarpa, che si rivendicava spesso prossimo di un certo “bizantinismo” in virtù dei suoi natali veneziani. Ora, è certo curioso ricordare che Scarpa realizzerà nella seconda metà degli anni cinquanta, proprio una sorta di White Cube che suscitò non poche controversie: la gipsoteca di Possagno. I candidi gessi di Canova vi sono presentati contro un fondo dello stesso colore – che si tratti di una parodia del cubo bianco modernista? Ma qui è la luce, e la collocazione spaziale delle opere, a fare la differenza. La scenografia di Scarpa deriva da un via forse “impura”, come sostiene Falguières – l’arredamento d’interni, ma si origina ugualmente da un sapiente studio delle opere da mettere in scena. E forse un’altra via “impura” ci consegna, di sbieco, il ritratto migliore di Scarpa: la cucina. Philippe Duboÿ ricorda che, parafrasando Brillat-Savarin («cuoco si diventa, ma rosticcere si nasce»), Carlo Scarpa soleva affermare: «museografo si diventa, ma architetto si nasce». Un altro parallelo ci pare a questo punto irresistibile. Nelle parole di Aldo Buzzi, lo scultore Arturo Martini (prossimo di Scarpa) definiva la cucina come fatto d’istinto: alcuni devono assaggiare la zuppa per sapere se è salata, ma a Martini bastava uno sguardo per capirlo. «C’è l’Artusi, e poi c’è l’inafferrabile», continuava Martini. Carlo Scarpa, il museografo bizantino amante del dettaglio, ha di fatto cercato di valorizzare proprio quell’inafferrabile che sta al di fuori dai volumi di teoria o di storia dell’arte – tale è “l’arte dell’esporre”.
Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa. L’Art d’exposer, JRP Ringier – La Maison rouge, 2014, pp. 240.