Il sapore femminile
di Federico Pevere
Heidi Krieger è stata campionessa europea di lancio del peso. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Heidi negli anni è diventata Andreas e ama Ute. Ute Winter è stata una campionessa di nuoto. Ha avuto seri problemi di salute dovuti principalmente a ciò che le veniva somministrato. Ute è rimasta Ute, e ama Andreas.
Perché sempre la prima volta? Perché nessuno si concentra sull’ultima, piena di luci volta. Chiedetemi ogni giorno dell’ultima volta, su tutto, su l’amore, l’amore, su che altro. Chiedeteci perché è così devastante, e ancora così diverso, l’amore nostro, l’amore mio e l’amore di Ute – due volte amore. Vivo, dopotutto – e tutto è proprio tutto. Devastante perché siamo ancora quelle devastazioni, e poi entrambi vittima del mio corpo che si è fatto negli anni e negli anni incapace di sottrazione – cresceva e cresceva, senza ragione – non c’è dubbio, avete ragione. Naturalmente e da sempre sconosciuto al sollievo, il mio corpo umano oggi, ora, rinasce, ogni giorno, eppure; eppure voi, dicci della prima volta, Heidi. Chiedetemi dell’amore, di quest’ultimo, l’unico – ne sono sicuro – amore, maledetti, non di quella spenta prima di tante volte. E invece, raccontaci dei corpi stratificati, della confusione che smandibola, della tua vita sottratta (la vita sottratta, che poetici, così vi riducete), Heidi, tu ne sai qualcosa di devastazioni, insinuate, forza raccontacele. Volete delle prove, volete l’alba della trasformazione. Servitevi pure, la parola al mio medico di allora: “in tutti questi tumultuosi anni la qualità di vita di H. può essere definita buona. I periodi di ricovero e di trattamento ambulatoriale sono stati brevi e con modesta tossicità, ha frequentato regolarmente la scuola con largo profitto, pratica attività sportiva a livello semiprofessionale e la famiglia, coinvolta attivamente nelle decisioni terapeutiche, ha sempre manifestato un valido appoggio ai medici che si stanno prendendo cura della piccola e già formata H.”. Soddisfatti? E’ tutto lì l’inizio, dimentichiamocelo. Io voglio amore, non transigo. Anche se ero sbagliata, se diventavo sbagliato, volevo amore. Che ci frega dell’amore, concluderete poi voi, che ci frega dell’amore di una che è diventato animale – manco lo è nato, è stato creato animale – che è continuamente istinto, che sono io, per voi sempre Heidi, che sono per voi solo capace di odori, di “modesta tossicità”. Di dolori, modesti, già formati, Andreas.
Chiedetemi di Ute, del suo sguardo. Chiedetemi del nostro corpo umano. C’è questa foto di Ute che devasta, che è sintesi e roccia del nostro amore. Sul lato sinistro il taglio della pellicola Fuji. E’ lo squarcio interno di una tipica casa di vacanze ad Ammersee, il cielo di un bianco a tratti radioattivo sullo sfondo a comprimere il tutto, a schiacciare Ute, a rendere felice Ute: la donna seduta come una ragazzina disobbediente – “per cena c’è minestra di broccoli, Ute siediti composta” – le gambe così maestose, capaci di grazia in bilico tra le acque e a calci appena sotto, così disordinate nella foto. La sua mano sinistra sulla sua spalla destra, l’abbraccio a metà, privato e gelido, il mio sguardo di pietre che ammira il suo essere statua su di uno specchio e la luce che via via si spegne, che la aggredisce e che la rende Ute in una posa che vuole racchiudere tutto e che non sa vivere di particolari, che vive “in tutti questi tumultuosi anni”, parallelamente ai miei, la viscontiana Ute; l’asciugamano intriso del sapore della nostra casa a coprire la parte inferiore del costume da donna di mezz’età, vigorosa e manesca la mia Ute: il costume soffocato dalla pelle di Ute. I piedi secchi sono di chi è stato in acqua per tutti questi anni, sono di acqua, sono Ute. Dal tutto ne esce una smorfia che scivola verso quell’orribile moquette che non sopportiamo, che non sappiamo dove mettere, come staccare, con cosa sostituire. Non sappiamo mai cosa sostituire. L’ora di posa si conclude. Le mani mi tremano, toccano il seno di una volta, stringo poi sui muscoli, sgonfiati, che ricordano. Ute mi chiama, vuole mostrarmi qualcosa. Le sorrido. I suoi occhi pensano ad altro. Ci incamminiamo. Il cielo non è più bianco, Ute non sembra preoccuparsene.
Perché sempre l’ultima volta? Chiedetemi della prima volta, quando vidi Andreas per la prima volta. Al solo pensiero le ossa già mortificate mi si stringono, queste piccole lame capaci di infilzare pelle, queste ombre queste macchie a bucare senza tagliare il tutto che sono io, che sono Ute, il muscolo, e voi a tormentarmi sul perché del nostro amore. C’era necessità di autenticità, rispondo ferma, tutto qui. C’era bisogno di sbagliare, ribattete voi, c’era bisogno di dimenticare. Sì, ci siamo ritrovati nello sbaglio, nel momento esatto in cui entrambi chiedevamo di noi: sì, siamo stati per troppi anni dimenticanza. Quale miglior luogo di un’aula di tribunale per risvegliarci, concludo. Continuate ad aggredirmi: perché eri lì Ute? Perché non volevo diventare grande. Ricordo che ero grande e ricordo che sparivo. Ricordo lo sguardo di Helena, la mia compagna di banco, ricordo le sue preoccupazioni. Ricordo le parole del suo medico di allora, i suoi consigli su come trattarmi: “intanto tu falle sentire che le vuoi bene, che per te è importante, coinvolgi Ute nelle attività extrascolastiche in modo che non si senta esclusa da tutto oltre che da se stessa, deve sapere che su di te può contare, che con te può crescere, che ci si ammala e poi si guarisce”. Mi racconto tutto questo in una lettera, anni dopo, quando era tutto finito – l’anoressia, le bombe nel mio corpo, tutta quella vita buttata. Nel frattempo se n’era andata, Helena. E’ scappata perché non volevo diventare grande e questo non lo capiva. Perché non mangiavo, ero un’unica fibra – un muscolo bastava a fasciarmi tutta, rivoltandomi – eppure in quattro mesi ingrassai di quindici miserabili chili. Chiedetemi della prima volta, quando vidi Andreas per la prima volta. Ero appena diventata grande.
Chiedetemi di Andreas, di ciò che smuove. Chiedetemi di un suo piccolo gesto. C’è un momento di Andreas. A Stoccarda 1986, credo. Non credo sia il lancio definitivo, tutto è troppo disinteressato. Andreas non è per nulla teso eppure i movimenti scattano continuamente come se mancasse qualcosa, come se ci fosse troppo, l’Andreas rallentato. Il peso tra le mani, e poi sul collo imbiancato, lo rendono buffo e meccanico. Appoggia le labbra sulla palla, ci soffia quasi dentro, non c’è nessun buco, eppure ci sbuffa dentro. Vuole il sapore, il gusto sanguinoso di quel metallo. Ha i capelli corti, da ragazzino, sudati sulla fronte. C’è vento e nessuno sembra interessarsi di Andreas, di ciò che farà, di ciò che mi ha reso amore, della mia prima volta. La camera stringe su Andreas – è velocissimo – e quasi si perde lo scatto verso la pedana. L’inquadratura s’allarga, le gambe ripide, la leggerezza. Più di ventuno. Corre subito via, sorride già. E le labbra si gustano la preda, sono forma irreale – la lingua come se settacciasse gli angoli inutili della sua bocca. La faccia diventa felina, furba, irriconoscibile, altra. E poi quel gesto bambinesco con il braccio. Quell’esultanza. Quella consapevolezza di quel braccio rilanciato in quella contentezza che so già sopita, subito. Ora Andreas, ora mi segue, si sfiora le braccia. Ho ancora il costume addosso. Mi siedo, stanca dopo un’ora di posa. Andreas è irrequieto, la faccia ancora una volta gattesca. Poi si volta, sorride, non mi chiede nulla, del perché gli ho chiesto di seguirmi in giardino. Si sfiora la mano, quasi ci soffia, con quello sguardo lì, un bacio alla sua mano. Non so che colore abbia il cielo. Perdiamo sapore, dice, amo quell’espressione, geshmack verlieren. Per un attimo scatta, perdo l’inquadratura. Prima e ultima volta. Lo riprendo subito.