Dall’appunto al frammento. Raccontare la Resistenza oggi
di Giacomo Verri
Beppe Fenoglio appuntava, su fogli recuperati dalla vita quotidiana della famiglia, i propri ricordi partigiani. Ricordi accesi, ancora attaccati alla carne. Ma con parole cercate tra tante e tante per dire un’esperienza eccezionale. Eccezionali, le esperienze, solo per chi le vive. Gli altri non le hanno esperite e non le esperiranno mai, ne sentono parlare, ne sentono i verbi fremere nell’aria, sono come il povero contadino che raccoglie le fole, le gesta di qualche cavaliere cantato sulla piazza, di chi aveva sconfitto il drago mai veduto o era stato sotto l’impero malvagio di un filtro stregonesco.
L’esperienza se n’era andata, dunque. Restava il racconto. Scottante dentro, interno e conficcato negli occhi e nella pancia. Fenoglio strappava fogli, tirava su dal basso i propri appunti per stendere in bella copia, per costruire sé stesso e il proprio passato e il passato di tutti. Scriveva per fermare il caos, il ribollire dell’esperienza, per portare l’esperienza fuori di sé e consegnarla a ciò che di più straniero e assoggettante c’è per l’individuo: la propria lingua. Appunta la propria storia, chiedendo il permesso al proprio linguaggio, sperando che la storia di Beppe diventi la storia di tutti. Ma spesso è Babele ad avere la meglio. Al partigiano di qui non convince la Resistenza narrata da quello di là, tutti traditori di un’esperienza d’eccezione. Il racconto e la parola sono meno o molto di più, troppo di più, di ciò che è stata la vita. Ma quella vita, quella esperienza non c’è più. Parlano attorno al vuoto. Bisogna accontentarsi delle parole e dei motti. Gli appunti partigiani, quelli di Beppe Fenoglio, quelli asciutti e robotici di Vittorini, quelli fiabeschi di Calvino o minerali e fisiologici di Meneghello, o quelli del più ignorante e analfabeta e bestia d’un partigiano, hanno dato inizio all’ultima era della parola.
Gli appunti hanno tenuto su il gran telo della vita. I racconti si sono inanellati l’uno nell’altro, rotolando a valle, diventando grandi e grossi. Parole, parole, parole, soltanto parole. Tutte traditrici? L’uomo non può vivere in pace senza parole, l’uomo adora l’adulterio. Nell’esprimersi, la Resistenza ha conosciuto i limiti della profondità, quando la profondità vuole essere detta, e si è voltata in cruccio, o si è perduta nell’encomio odioso, o si è contentata, per rabbia, o per ironia, o per cinismo, dei lati oscuri e bui del fare Resistenza. Perché la chiarezza lampante dell’azione diventa più nera dei peccati, degli errori, dei tradimenti, quando è ora di dirla. Se poi il mondo, come è accaduto, ha iniziato a distrarsi dal suo passato, allora la memoria ha preso a viziarsi. A giocare con se stessa e con l’avanzo di guazzabuglio che ancora abitava le menti di chi ci fu. E vide.
Ma il viaggio compiuto dal racconto della Resistenza a partire dall’appunto è mai approdato all’opera piena? Forse no, neppure con Il partigiano Johnny. I miti sono invecchiati e non vale la pena di tenerli vivi imbellettandone l’involucro, se dietro non c’è nulla. Tutte le idee hanno una scadenza e poi diventano museo. È stato così per il Risorgimento, sta accadendo per i caduti di cento anni fa. Sarà anche per la Resistenza. È una legge. Occorre però farla morire con stile. Non a caso ho dedicato i miei racconti Ai condannati all’oblio della Resistenza italiana: il cui indirizzo è ambiguo: coloro che l’hanno fatta e ora vengono dimenticati? Oppure coloro che, oggi, sono destinati a perdere la memoria di allora? In ogni caso, credo che dall’appunto si sia passati direttamente al frammento. La memoria odierna non può che essere disorganica, non può che essere disintegrata in scaglie di passato che bucano il presente con i particolari magari più insignificanti. Ma il frammento non è tanto il contenuto della memoria (che mantiene sempre quell’ombra di epicità) ma ciò che la memoria è diventata in sé o ciò a cui sono ridotti i possessori di memoria.
Settant’anni sono passati; per dirla con Dante, è passata una vita intera. La Resistenza è accaduta una vita fa. Il passato è perciò visto di scorcio, in maniera indiretta, attraverso filtri, cartilagini, fogli di alabastro ingiallito: assomiglia alla ricostruzione di un plastico, alle pagine di un quaderno gualcito; chi parla di quelle esperienze, avendole vedute con i propri occhi, è ormai gente anziana, che mostra intera la decadenza fisica e la stanchezza dei lustri. Sono frammenti, essi stessi, di vita. Frammenti incommensurabili e inaccomodabili. La memoria non può essere che frammento.