les nouveaux réalistes: Silvia Bortoli
Un uomo
di
Silvia Bortoli
Quello che è veramente buono, dice spingendo col taglio la salsa contro il bordo del piatto, è il sugo.
L’argomento di oggi è il caramello.
Se con la crema ci vogliano le uvette sul fondo dello stampo o non ci vogliano, o ci voglia magari il pan di spagna era invece l’argomento di ieri. I brusii di dissenso non lo turbano mai. È lui il padrone, e può dire quello che gli pare e gli altri hanno sempre torto. E se hanno ragione è da prima, perché lui, da prima, a suo arbitrio, gliel’ha riconosciuta.
Deve il silenzio che accompagna quelle divagazioni culinarie al suo carattere autoritario. L’unica che ha osato dar voce alla ridicolaggine, oltre che al disgusto, per il pan di spagna nella crema, e figuriamoci poi le uvette, è stata punita col silenzio e la disattenzione.
Le disquisizioni sulla crème caramel sono ricorrenti. Vengono fuori ogni volta che Olga, dopo che lui le sventola sotto il naso il risultato di esami quasi accettabili, cede e gliene fa un poco. Guarda qui, dice aggressivo, transaminasi, colesterolo, globuli bianchi, snocciola cifre e dati. Ma il caramello non è mai come lo vorrebbe lui. Quello del passato gli sembra sempre migliore e attribuisce la decadenza del cibo alla generale decadenza del mondo.
Dal regno animale è scomparsa la felicità e i suoi cibi, suoi di lui, che di quella felicità faceva parte, non sono che pallidi simulacri.
La crème caramel è diventata così un cibo mistico. Un cibo sulla cui inadeguatezza si accanisce, che lo innervosisce, come lo innervosisce la nostra presenza perché contrastiamo quel suo andare verso la morte scomposto e irascibile, legandogli intorno lacci d’affetto che non apprezza e che pure gli sembrano naturali e dovuti. Una zavorra, ma irrinunciabile. Le donne sono noiose, ci ha detto ieri guardandoci torvo, sua moglie ha alzato le spalle. Che scemo, ha detto lasciando la stanza. La sua reazione mi ha sorpreso.
Ieri si è fatto portare in giardino. È stato sollevato di peso e sistemato su una sedia, si è fatto caricare un fucile. Ha deciso di ammazzare le civette sul tetto, di sparare così, indifferente a ogni norma e legge. Dice che le sente respirare e gli dà fastidio il rumore. A nessuno è venuto in mente di chiedergli se scherzava, di opporsi. Un colpo ha grattato rumorosamente l’intonaco. Si è innervosito, ha fatto ricaricare sbottando in tutta la sua irascibilità sulla nostra pochezza e le mani tremanti hanno lasciato cadere il fucile per terra, ha preso in pieno una coperta stesa al sole. La rosa dei pallini l’ha quasi distrutta. Ha avuto un tale attacco di rabbia che abbiamo dovuto chiamare il medico e far finta che passasse per caso. Il dottore ci ha chiesto se siamo matti a mettere a rischio la vita di tutti per le stramberie di un vecchio bilioso, se viene a sapere di nuovo che lo lasciamo sparare va dai carabinieri e lo fa mettere dentro, e noi con lui.
Il medico è un vecchio amico. È il nostro fedele e mediocre dottore da quando ha cominciato a esercitare. Ma è una persona ragionevole e noi, se mai lo siamo stati, non lo siamo più. Ci prende un’angoscia a non poter far girare il mondo all’indietro, oltre che per amore credo per vigliaccheria. Non siamo all’altezza di questa vecchiaia irruenta. Non abbiamo medicine, consolazioni, rimedi.
Mia figlia è di corvée. Quando torna da scuola deve andare da lui ancora con la cartella sulla schiena, a raccontargli le novità, novità scolastiche di una bambina di terza media. Ci va volentieri. Pare, a sentir lei, che lui ascolti con attenzione e faccia domande e si beva le sue storielle. Solo un paio di volte il loro infantilismo non ha coinciso, si è innervosito e l’ha trattata male. Il cinismo di lei è però solo a nostro uso, è affascinata dal vecchio signore e se inventa, è solo per arricchire le poche cose che gli offre, perché sul fatto che siano poche lui non le lascia illusioni.
In un certo senso la disprezza, e nel disprezzo per lei disprezza se stesso, un povero vecchio, buono solo a star coi bambini, immobilizzato, legato, impotente.
È spesso torvo. Ignobilmente, dice il suo figlio maggiore, vede negli altri ogni genere di ignobiltà. Dove chi lo circonda si augura una fine armoniosa, che li riconcilii con lo specchio della propria morte, lui smania e ne mostra l’orrore, una continua crescente impotenza senza speranza né scampo.
Oggi ha un ginocchio gonfio e il dottore lo ha messo a dieta. Ha la gotta, il diabete, e ogni tanto sragiona. È convinto che se non mangia non vivrà a lungo e vivere a lungo per lui è indispensabile. È sicuro che il medico sia un cane e lo voglia uccidere per fame. Non vuole accettare la morte. Accettare la morte è come cedere lo scettro. Se lo facesse diventerebbe forse mite, o forse solo distratto. Cerca di non mostrare crepe, esibisce la sua vitalità di forte mangiatore, l’unica che gli sia rimasta.
Ogni volta che si parla di qualche centenario, cosa che vedendolo cupo facciamo volentieri, ci guarda con occhi fieri e allarmati. Sono fratelli suoi, i centenari, esemplari di una razza che è la sua, ma anche, per lui che ha sempre voluto vincere, antagonisti e nemici, e forse, se non starà attento, più fortunati.
Ogni tanto leggerissimamente svanisce e mi chiama Bruna. Succede per pochi minuti. Giorni fa ha gridato forte in tedesco, con ira, e aveva il viso corrucciato, rimpicciolito, infantile. Quando sono entrata mi ha guardato e ha girato la testa verso la finestra. Piangeva. Su se stesso, ho pensato.
Gli sono andata vicino e gli ho preso una mano. La sua è grande e asciutta, calda. Ha stretto leggermente, rispondendo. Mi sono seduta vicino a lui tenendogliela stretta e ascoltando mentre ripeteva le sue frasi senza senso. «È questo?» chiede con fervore fissando la parete al suo fianco. È questo, questo, questo, questo? Gli ho chiesto «questo cosa?», ma non mi ha risposto. Continua a tenere la testa girata e interroga il muro al suo fianco come se la risposta potesse venirgli dalla tappezzeria a righe, leggermente macchiata da uno spruzzo di soluzione sfuggito a una siringa che in uno scatto d’ira ha fatto volar di mano a un’infermiera.
È questo, questo, questo? continua a chiedere al muro, finché chiude gli occhi esausto e io lo lascio, esausta anch’io, desiderosa che muoia e ci lasci liberi.
Ieri ero in giardino e sarchiavo un’aiuola e ho sentito Olga che correva e sua moglie che correva più lenta dietro a lei. Ho pensato che stava per morire e ho aspettato, paralizzata dalla paura e dal sollievo. Ma aveva solo buttato per terra il vassoio della colazione, furente perché il brodo non sapeva di nulla. Di nuovo lui, di nuovo irascibile e ostile.
Non morirà, non morirà, lo sento. Per anni ancora ci terrà qui immobilizzati, legati dall’amore e dal bisogno, tutti dipendenti da lui, tutti in attesa della sua morte che ci permetta di vendere e separarci. Lo vogliamo pagare questo prezzo, ci ha costretti all’amore, ci ha umiliati con la sua generosità, ci ha comandati a bacchetta, ci ha abituati a dipendere da lui, non c’è mondo per noi se non il suo, regolato dalle sue leggi, anche adesso, amministrato com’è da donne armate di siringhe e biancheria pulita, che lo lavano, lo sollevano, mettono le mani tra le sue cose, fanno ordine nei suoi cassetti, neppure un angolo più di intimità, neppure i pochi centimetri quadrati del suo comodino gli appartengono oramai, la sua virilità umiliata, il suo dominio sospeso. Ma quella vuota scatola di leggi che ha promulgato funziona ancora e il padrone è lui e le sue grida a sproposito sono le grida di chi sa.
Oggi è di nuovo lucido. O forse no. Forse è un altro se stesso quello che mi chiama nella stanza, un suo doppio addolcito, il vecchio che avrebbe potuto essere se non fosse stato tanto attaccato alla propria forza.
«Vieni qui» mi ha detto. Mi ha chiamato con la mano, non gli hanno ancora fatto la barba e quei pochi millimetri di peli bianchi che gli spuntano sulle guance gli danno un’aria dimessa. «Ho una cosa per te» mi dice. Io so che non può darmi niente. Ogni cosa che regala va portata a sua moglie e lei decide se la si può accettare o no, lui però non lo sa. È una regola non detta, adottata tacitamente da tutti quando ha cercato di regalare la casa a Olga. Olga è andata da sua moglie scuotendo la testa. «Attenti al prete», ha detto. È sicura che un frate del convento vicino che ogni tanto lo viene a trovare cerchi di farsi lasciare qualcosa. «Ho una cosa per te» mi dice ancora e indica l’armadio. «Apri, apri». A gesti mi fa cercare in una scatola di carte e fascicoli, poi si irrita e me la fa portare sul letto. Cerca alla cieca con la mano e tira fuori un piccolo cartone arrotolato. «Apri» mi dice spingendolo con l’indice verso di me. Un indice dai polpastrelli solcati, leggermente adunco per l’artrite. Sciolgo il nastro e lo srotolo con delicatezza. C’è una testa di bambino disegnata a matita. Una piccola testa rotonda. Sorride con aria d’intesa. «È tua». Gli prendo la mano e mi piego a baciargli la guancia, ma si è già girato contro il muro, di nuovo chiuso in se stesso. Sua moglie dice che posso tenerlo. È lui da piccolo, dice, e io sono la moglie del suo figlio maggiore. È un disegno di nessun valore. Garbato, piacevole, posso tenerlo.
Olga gli ha fatto di nuovo la crème caramel. È il suo compleanno, ci sorride, da qualche giorno parla a fatica, gli brucia la gola, fa capire senza emettere suoni, noi lo accusiamo di pigrizia. Siamo arrivati tutti insieme nella stanza con fiori e caramelle e piccoli regali di cui non sa cosa fare, una bottiglia d’acqua di colonia, un volume sulle architetture rustiche della sua regione, abbiamo contrabbandato come regalo persino un nuovo pigiama. Si fa mettere ogni cosa sul letto, è calmo, è dolce. Tocca i pacchetti con le mani senza sollevare le braccia, solo le dita si muovono a destra e a sinistra a cercare, come se fosse cieco. Quando Olga entra con il dolce ci fa la grazia di un oh quasi muto, sa che Olga se lo aspetta. Ma è un oh terreno. Fa appoggiare il piatto sul comodino, dice che lo assaggerà più tardi. Improvvisamente a Olga tremano le mani, stringe le labbra e scuote appena la testa. Ha colto qualcosa in lui e subito lo sentiamo tutti, il caramello non ha più alcun senso. Non è più l’oggetto di quell’unico vizio che gli è rimasto, la gola, non è più un chiodo piantato sull’impervia parete della memoria, un termine di paragone, un’occasione di disprezzo per i tempi nuovi, i nostri, da lui non voluti né amati. Il caramello è un cibo come un altro, ormai, al quale un vecchio invalido fa le feste perché alle feste si risponde così, festeggiando, esclamando anche senza voce, rispondendo con un faticoso entusiasmo di vecchio alla fatica degli altri.
«Ha mollato» dice Olga uscendo dalla stanza con gli occhi lucidi. E improvvisamente sappiamo che è vero.
Il medico viene tutti i giorni, d’un tratto più efficiente e gentile, preoccupato soprattutto di sua moglie. Dà a qualcuno di noi consigli pratici, parla con Olga che vorrebbe sfuggirgli. Perché dovrebbe essere proprio lei, che più di tutti gli altri, priva com’è di legami di sangue, è una sua creatura, a dimostrarsi la più dura e più pratica? Si rifugia nelle vicinanze di mia suocera, cerca riparo, rifiuta le responsabilità. Noi la capiamo, vorremmo scappare tutti e invece, giorno dopo giorno aspettiamo, ci affacciamo alla stanza, entriamo a baciargli la fronte, gli teniamo la mano e lui sorride distratto, apre gli occhi uscendo dal suo sonno leggero, muove le dita e richiude gli occhi. I due figli lontani sono stati avvertiti e saranno qui tra poco. Io passo ore e ore seduta vicino a lui. Pensano che sia per affetto. Ma io non ne sono sicura. Sento invece un senso di dipendenza, mi chiedo come sarà la vita dopo di lui, non più regolata da lui. Ne sono curiosa, ne sono addirittura avida. Mentre lo guardo, le occhiaie sempre più incavate e pallide, il profilo sempre più trasparente, come se questo lungo sonno lo purificasse e imponesse una quarantena alle sue passioni, io mi chiedo soltanto come sarà la vita senza di lui. Fantastico. Non ho vergogna di me, non mi sento meschina. La verità è che in fondo al cuore non ci credo.
I giorni passano in silenzio, lunghi e privi di dolore, pieni come sono di una disciplinata laboriosità. Abbiamo preso un’altra infermiera perché ci sembra terribile che possa morire da solo, vogliamo che qualcuno corra subito a chiamarci, sentiamo che è male che muoia durante il nostro sonno, pensiamo che non ce lo permetterebbe, il suo egoismo vorrebbe la nostra attenzione, non è una cosa privata la sua morte.
E così una notte l’infermiera ci chiama. Sentiamo che ci trova assurdi, che sarebbe stato meglio per tutti scoprirlo all’alba. È morto nel sonno, avrebbe detto. È morto nel sonno, in pace, avremmo detto.
E adesso dunque lo vegliamo, nessuno osa dormire e domani saremo esausti. Come il dottore aveva suggerito, inavvertitamente, Olga prende delle decisioni, porta a letto mia suocera, si occupa di lei, si dà da fare, è attiva. È morto in pace, dice. Sì, diciamo tutti, siamo contenti che ci sia riuscito. Siamo sollevati che alla fine si sia calmato.
E alla fine capisco la sua domanda. È questo, mi dico, che cercavamo e che cercava anche lui nelle macchie del muro. Mi pare di capire finalmente la sua fatica, l’irascibilità di chi si concentra e viene sempre distratto, dalle sue proprie forze, da quelle degli altri, dal caotico e casuale brulicare degli affetti che trattiene irragionevolmente nella vita e costringe alla disarmonia.
Nota
Il racconto, in una versione leggermente diversa, è presente nel volume Percezioni variabili, Piero Manni, 2005.