Didascalie: Salvador Dalì
Reminiscenza archeologica dell’Angelus di Millet (1936), S. Dalì
di
Agnese Azzarelli
Maybe there’s a God above
And all I ever learned from love
Was how to shoot at someone who outdrew you
It’s not a cry you can hear at night
It’s not somebody who’s seen the light
it’s a cold and it’s a broken Hallelujah.
Leonard Cohen
Una gelida sera ad attendere che lui arrivasse sul sagrato del duomo. “Fiat mihi secundum Verbum tuum”, parole pronunciate volgendo lo sguardo alle ardite guglie che si stagliavano su quel grigio cielo. Gelso e garofano, ardore e cimento, il tutto accompagnato da uno strenuo Hallelujah di Leonard Cohen. Era arrivato.
Non ci occorsero preamboli.
Ancora ignoro a quale assurda legge ci si debba appellare per mutare verso e direzione del percorso. A che pro adombrare il cielo di cuspidi, archi e pilastri, quando la verticalità non ci appartiene?
Ma allora, fervore e immaginazione, non mi impedirono di inoltrarmi in coda alla sequela delle possibilità.
Tu fosti sempre più accorto, salvo in principio, ancor prima che avesse inizio la nostra lunga corsa. Ma non ebbi molto tempo per assaporare i momenti in cui, impavido, lasciavi che le emozioni facessero il suo corso. Pensa: sarebbe scoppiato non so quale finimondo!
Offrimmo la nostra tenera scoperta in pasto alle teorie e alle loro confutazioni, lasciammo il nostro amore alla mercé dei fraintendimenti e di un errore di valutazione.
Che ogni linea retta sia delimitata da due punti è cosa nota, si sa, e questo vale sia che la retta sia tracciata sulla sabbia, sia che questa altro non sia se non il tracciato percorso da un uomo e da una donna. Ebbe inizio il nostro viaggio, al riparo dagli “scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, per citare un poeta a noi caro.
Lasciasti che fossi io a precederti. Fu a quel punto che intorno a noi presero a discettare sul chi sarebbe arrivato per primo e noi prendemmo presto ad interpretare il nostro viaggio come una competizione. Sarebbe bastato uno sguardo, ma da allora io presi a correre e la distanza tra me e te divenne incolmabile… O meglio, divenne incolmabile allorché qualcuno ti convinse che obiettivo sarebbe stato raggiungere l’altro capo della retta.
Ma che una retta sia un insieme infinito di punti è cosa altrettanto nota. Per quanto io mi attardassi, prendendo tempo, l’intervallo tra me e te sembrava farsi sempre più ampio e questo a dispetto di ogni previsione.
Ricordi? Esordisti una sera dichiarando che la distruzione sarebbe stata lecita a condizione di non confonderla con l’opposto dell’azione. Capivo poco, ma mi pareva che tra le parole che eri uso pronunciare, l’una di seguito all’altra – abolire, eliminare, salvare – intercorresse un fil rouge di cui eri estremamente competente, mi pareva facessero un tutt’uno.
Ora vorrei distruggere ciò che mi lega al percorso intrapreso e ripeto, tra me e me, queste tre parole – abolire, eliminare, salvare. Ne ho scoperto il segreto.
Ho dimenticato la ragione per la quale abbiamo intrapreso questo nostro viaggio, ma abolire il mio movimento decreterebbe l’impossibilità di giungere a destinazione. Eliminare ciò che a te mi lega sarebbe impossibile. Non mi resta che salvare questa nostra traccia, abolendo ed eliminando la destinazione a cui gli altri pensano sia consacrata, farne tesoro e sperare – forse questa era la quarta parola che allora ti rifiutavi di pronunciare – di incontrarti al capo opposto del mondo, quando la distanza incolmabile tra me e te sarà arrivata ad abbracciare, nello spazio di una circonferenza, l’intero globo.