Qui. Salotti, storie e un graphic novel
di Ornella Tajani
Alcuni anni fa sono andata a visitare la casa di Balzac a Parigi, nel XVI arrondissement. Ci sono andata da sola, mossa da un desiderio appena tiepido, come per una cosa che si deve fare, perché in realtà spesso mi annoio tremendamente in queste case-museo in cui tutto mi sembra così cristallizzato nel tempo da apparire quasi finto. Una casa-museo è una contraddizione in termini, perché priva di ciò che rende un luogo una casa, e io proprio non riesco a emozionarmi per «la tazzina in cui nel 1941 ha bevuto il caffé Benedetto Croce», come tuonava Silvio Orlando contro i malcapitati turisti nel film Il portaborse.
Mentre gironzolavo per le stanze della maison Balzac, quindi, non mi stavo emozionando neanche per la caffettiera in porcellana con le iniziali HB; curiosavo più che altro fra la bellissima galleria dei personaggi della Comédie Humaine e il Fonds Gautier, perché all’epoca progettavo di scrivere qualcosa su Gautier che poi sicuramente non ho scritto, e aspettavo di finire la visita per passare in giardino a fumare, sedendomi magari sulla stessa panchina sulla quale Balzac fumava la pipa. A un certo punto ho notato l’orologio sul camino del salotto: le cinque e un quarto. Sarebbe stato bello immaginare che fosse fermo dalle cinque e un quarto di un pomeriggio del 1847, ultimo anno in cui Balzac aveva vissuto in quella casa, un pomeriggio in cui, mentre lavorava alla scrivania, lo scrittore aveva alzato gli occhi sentendo cessare di colpo il ticchettio delle lancette. Oppure, più rocambolescamente, l’orologio si era rotto cadendo, Balzac l’aveva urtato mentre provava a mettersi in salvo da qualche creditore (era il motivo per il quale aveva scelto proprio quella casa, che presentava il vantaggio di avere due entrate).
Sarebbe stato bello, ma l’orologio non era fermo. Funzionava: in quel momento, mentre io visitavo la maison Balzac, erano davvero le cinque e un quarto. Lo stesso orologio che aveva scandito le sue ore stava adesso segnando il mio tempo.
Questo dettaglio piuttosto banale mi piacque moltissimo, perché era riuscito ad animare il luogo, a farmelo sentire come una vera casa e a collegare cronologicamente il 1847 al XXI secolo. Io non ho buon rapporto con la storia, ma ho un buonissimo rapporto con i luoghi. A scuola, in geografia avevo ottimi voti, in storia riuscivo a racimolare sufficienze con complicate strategie da baro. Per sentire la storia, devo quindi passare quasi sempre per i luoghi, ricreandomi una specie di geografia diacronica.
C’è un bellissimo corto d’animazione di Kunio Katō, dal titolo La maison en petits cubes, che forse si presta a rendere quello che intendo. Il corto inizia mostrando un anziano protagonista che fuma la pipa, da solo, nel suo appartamento dalle pareti ricoperte di ritratti fotografici. Dopo poco l’inquadratura si allarga su una città in gran parte sommersa dall’acqua: dalla superficie spuntano soltanto gli ultimi piani dei palazzi. Il livello dell’acqua sale costantemente; il vecchio, ogni volta che si ritrova con i piedi a bagno, costruisce un nuovo piano sopra la casa nella quale ha vissuto sino ad allora e vi si trasferisce. I vari piani dell’edificio, che sono quindi tutti suoi ex appartamenti, sono collegati tra loro da una botola al centro del pavimento nella quale lui, occasionalmente, pesca il pesce da mangiare a pranzo.
Un giorno gli cade la pipa che, di botola in botola, finisce per posarsi al piano terra, sul fondo dell’acqua. Il vecchio decide di recuperarla: acquista un’attrezzatura da sub e si immerge. Ciò che lo aspetta è naturalmente un viaggio nel passato, di casa in casa: quella in cui viveva quando la moglie era ancora in vita, più giù la casa in cui è nata la figlia, poi la stanza in cui ha chiesto la mano della sua fidanzata e via dicendo. Tutti appartamenti identici, costruiti uno sull’altro, nei quali è contenuta l’esistenza del protagonista. La storia dentro le case e attraverso le case.
Ho ripensato a questo corto ieri, quando ho letto il graphic novel Qui, che parla, ancora una volta, di case e di storia e la cui lettura è un’esperienza molto simile a un viaggio nella macchina del tempo.
Ho parlato di case al plurale ma Qui, scritto da Richard McGuire, è ambientato in un’unica casa. Il libro, edito ad aprile da Rizzoli Lizard (trad. it. di Steve Piccolo), è la rivisitazione e l’ampliamento di un’idea concentrata in una striscia che McGuire pubblicò nel 1989 su Raw, storica rivista americana dedicata al fumetto.
Qui inizia nel 1957, anno di nascita dell’autore, e apre il sipario su un salotto: poltrone, tavolo, carta da parati. In alto a sinistra è segnato l’anno in cui ci troviamo, così come, nell’angolo di ognuno dei riquadri che McGuire “ritaglia” all’interno della stanza, è segnato l’anno di riferimento. In una stessa immagine, dunque, succede di trovarsi simultaneamente nel 1970, davanti a una ragazza che legge distesa sul tappeto, e nel 10000 avanti Cristo, dove sullo stesso tappeto riposava un mammut, naturalmente millenni prima che quella casa venisse costruita. Oppure si assiste al pic nic di due aristocratici nel 1870, quando al posto delle pareti c’era ancora un bosco, ma in un rettangolo a sinistra un gruppo di amici gioca a Twister nel 1964. Nel 1984 una ragazza chiede all’amica che sta facendo esercizi ginnici davanti al camino: «Che mi racconti del palazzo di fronte?» e l’altra risponde sciattamente: «Benjamin Franklin viveva lì, o forse ha piantato un ciliegio in giardino. Qualcosa del genere»; dopo poche pagine, superfluo dirlo, siamo nel 1775, al cospetto di Benjamin Franklin che attende l’arrivo del figlio. Quale che sia l’anno in corso, la scena si svolge nello stesso rettangolo di spazio dove nel 1907 è stata costruita la casa che vediamo in quasi tutti i disegni: assistiamo anche alla costruzione delle sue fondamenta e del camino.
«Here è una storia possibile solo a fumetti», ha scritto Marco Apostoli Cappello in una dettagliata recensione che suggerisco ai cultori del genere. È vero che una tale efficacia nella narrazione simultanea di frammenti di storie lontanissime fra loro risulta difficile da restituire in un testo scritto non accompagnato da immagini; ma naturalmente la letteratura ha i suoi prodigi. La Woolf cristallizza in poche parole scarti temporali di millenni: quando Mrs Dalloway cammina per le strade di Londra immaginando il nulla che vi regnerà di lì a qualche secolo, ad esempio; o quando in Gli Anni (recentemente ritradotto) Sara pensa ai paleontologi che un giorno rovisteranno disgustati nel salottino di casa. Joyce arriva a descrivere tutto quel che è contenuto in un istante di esistenza: ciò che un personaggio pensa, dice, fa e contemporaneamente tutto ciò che sta accadendo intorno a lui. La narrativa riesce magnificamente a sovrapporre i piani: si pensi anche, con un salto alla fine del secolo, alla scena in Underworld di DeLillo in cui J.E. Hoover guarda la partita di baseball allo stadio e all’interno del proprio quadro visivo vede i dettagli di una scena medioevale come quella del Trionfo della morte di Bruegel (di cui parlo diffusamente qui). Tutti esempi che potrebbero rientrare in quel che R.L. Stevenson definiva, in un suo saggio sul romance, «the plastic part of literature», quella parte in cui ogni cosa ne richiama un’altra («Everything is connected», sempre DeLillo) e in cui «There is a fitness in events and places».
Allora forse quel che c’è di veramente peculiare in questo graphic novel sta nell’atto di lettura. Che non sia più l’autore a decidere in quale ordine somministrarci le varie fasi storiche che riempiono uno stesso spazio, bensì il lettore a stabilire su quale frammento di tempo far rimbalzare l’occhio all’interno della pagina, non è certo una novità narrativa. A questo però si aggiunge il fatto che, mediante l’utilizzo dell’immagine, la narrazione è servita come su un vassoio: si può scegliere di iniziare da un episodio del passato o da un riquadro del futuro, ma la storia è tutta contemporaneamente davanti agli occhi del lettore, dilatata in maniera vertiginosa in entrambi i sensi cronologici. Era questa la «nuova dimensione per la narrativa illustrata» che, come ha scritto Chris Ware in una recensione sul The Guardian, McGuire ha aperto nell’89; e, se il suo libro resta ancora oggi sorprendente, io credo che sia anche perché l’autore ha saputo legare così radicalmente la storia a uno spazio ben circoscritto. All’interno dello stesso contenitore, il fluire degli anni risulta incessante, vorticoso e il lettore lo percepisce in maniera quasi epidermica.
McGuire restituisce il sentimento del tempo senza legarlo a nessuna memoria individuale: in Qui non c’è un protagonista e non c’è neanche una conclusione. Strategicamente, il libro non si ferma al 2015, e dunque a un presente prossimo a scadere, ma al 1957, chiudendo il cerchio ma in realtà facendolo esplodere: nelle trecento pagine del volume il lettore ha viaggiato nel passato, in un futuro prossimo che plausibilmente conoscerà e in futuro remoto cui non assisterà, ad esempio quello in cui si faranno visite guidate attraverso proiezioni istantanee ottenute digitando direttamente nell’aria, senza supporti tecnologici.
Nelle pagine finali, dopo decine di vite raccontate in frammenti, un televisore del ’72 manda in onda il film Casablanca: Dooley Wilson, che interpreta il pianista Sam, sta cantando «It’s still the same old story, a fight for love and glory». Sarebbe stata una bella conclusione per questo romanzo sul tempo e sulle storie, su un luogo che li contiene come per una sorta di singolare metonimia. McGuire opta invece per un vero e proprio sigillo, un po’ didascalico, ma di certo perdonabile: nell’ultimo disegno una donna prende un libro posato sul tavolino e dice «Ora mi ricordo».