Tra gli ingranaggi e gli specchi di Vila-Matas
di Giovanni Dozzini
Enrique Vila-Matas poteva scrivere questo libro in un altro momento della sua vita, uno qualsiasi, purché fosse diverso da quello in cui l’ha scritto, e cioè un paio d’anni fa, il tempo sufficiente perché la sua casa editrice italiana, Feltrinelli, lo pubblicasse proprio adesso, proprio in questi giorni. Mi avrebbe risparmiato un bel po’ di ansia, Vila-Matas, perché la storia che racconta in Kassel non invita alla logica (traduzione di Elena Liverani), almeno nelle sue parti meno profonde e speculative, somiglia non poco alla storia che potrebbe raccontare dopo il suo ritorno da Perugia, dove tra oggi e domani parteciperà alla seconda edizione del festival letterario che contribuisco a organizzare con tanto entusiasmo e tanta fatica. Questo libro, che per inciso a mio avviso è un libro splendido, racconta la storia di uno scrittore, e cioè di Vila-Matas, invitato a trascorrere alcuni giorni all’edizione 2012 di Documenta, manifestazione dedicata all’arte contemporanea che si svolge nella città tedesca di Kassel: racconta i dubbi e le idiosincrasie, gli imbarazzi e il rimuginare che spesso contraddistinguono esperienze del genere: un ospite illustre e la gente che si dovrà occupare del suo soggiorno per conto del festival, o della fiera, o di quel che sia.
Ora, Encuentro non è Documenta, noi abbiamo radunato una decina di scrittori, qualche studioso e un fotografo, là si tratta di nuove frontiere dell’arte, tutta un’altra cosa, per carità. E infatti l’ho detto, il guaio è entrare nella testa di un uomo che a momenti potrà pensare di te e dei tuoi compagni qualcosa di simile a ciò che ha pensato dei tizi di Documenta, anche se noialtri siamo gente molto meno concettuale, va da sé, forse pure più modesta, e di sicuro più cerimoniosa e attenta a mettere i nostri amici a proprio agio. Per cui in fondo non c’è niente di male, nel fatto che Enrique Vila-Matas abbia scritto proprio adesso, ovvero proprio un paio di anni fa, il libro di cui parlerà questa sera a Perugia, e in esclusiva italiana, perché domenica già se ne ritorna a Barcellona, e della faccenda, ci perdonerete, tendiamo a voler farcene un vanto. Niente di male: uno dei soliti scherzi del destino, di quelli che piacciono tanto a lui, e un po’ a tutti, diciamo la verità, le coincidenze piacciono a tutti anche se pochi riescono a giocarci come ci riesce Vila-Matas, con tutto il suo bagaglio di incastri e intrecci e ricami letterari.
E comunque, parlare di un libro come Kassel non invita alla logica è un’impresa pressoché impossibile. Naturalmente so che non potete fidarvi di quel semplice aggettivo (“splendido”), io sono solo uno come gli altri, e le parole che scelgo le scelgo arbitrariamente, come gli altri, e per di più ho anche un’urticante allergia all’Accademia e all’idea che in letteratura esistano più regole di quelle che potrebbe intuire un bambino di tre o quattro anni. Per cui no, non vi fiderete, ed è giusto così. Allora argomento un po’, ma divagando.
Di una cosa sono sicuro: Kassel appartiene al genere di letteratura per cui Enrique Vila-Matas è probabilmente più conosciuto, e che bene o male ci siamo abituati a definire meta-letteratura, costruita come un grande meccanismo disseminato di ingranaggi e specchi e spifferi che funziona più per convinzione che per esattezza. Non è un romanzo, ma allo stesso tempo lo è, non tanto perché potrebbe essere tutto finto quanto perché è dotato di una forza narrativa evidente, un magnetismo che ti porta a chiederti cosa succederà poi, e come andrà a finire – se qualcuno dovesse propormi di buttar giù una definizione di romanzo forse, almeno in questo istante, sarebbe questa.
Io non ho gli elementi per sapere che Vila-Matas abbia effettivamente partecipato a Documenta 13, nel settembre 2012, e pur bastandomi fare qualche ricerca su Google eviterò di sincerarmene, dato che non conta affatto. La descrizione di Kassel e di molte delle opere d’arte messe in rassegna è d’altro canto così precisa e dettagliata che il problema sembrerebbe non porsi neppure. In ogni caso il viaggio del protagonista, scrittore catalano euforico al mattino e depresso all’approssimarsi del buio, va dritto al centro dell’idea di arte contemporanea, ed è un viaggio verniano, tra trabocchetti e scorciatoie e rischi d’ogni sorta, e la percezione fortissima di poter arrivare davvero da qualche parte di incredibile e sbalorditivo, in un modo o nell’altro, anche contro le leggi della scienza, se necessario.
Vila-Matas si interroga sullo stato di salute dell’arte contemporanea, richiama altra arte e altri frammenti della propria vita – la giovinezza, l’avanguardia, i vecchi sodali, l’ossessione per la novità. Si pone anche interrogativi esplicitamente politici, storici, sullo stato di salute dell’Europa, della Germania, della Spagna, e si concede una stilettata, che peraltro ovviamente mette nella bocca del protagonista alter-ego, agli scrittori spagnoli di oggi, per cui è così difficile «concepire l’arte senza un messaggio, accettare una letteratura senza un tocco necessariamente umanista in versione comunista». Un genere di letteratura che, per quel che importi, a me peraltro piace e interessa moltissimo, così come mi piace e mi interessa quel genere di letteratura che pratica Vila-Matas, se è praticata bene come la pratica lui.
Il privilegio del lettore dopotutto è non dover scegliere, e lo sa benissimo anche Enrique Vila-Matas, che alle peregrinazioni reali o sognate o immaginate del suo avatar tre le vie e i boschi di Kassel assegna una funzione quasi catartica quanto illusoria, come si illude chi crede di esser sfiorato da un alito secco e freddo in un vicolo buio o in un’installazione esasperata, come – non è vero? – lo sono tutte le installazioni. Nel vortice di libri – Walser, Sebald, Bellow, Kundera – e di cinema e di pittura e di musica in cui si ritrova il protagonista di Kassel non invita alla logica c’è una riflessione accurata e incerta sulla vita e sull’arte, e alla fine il discorso sembra ricadere sempre lì, dove batteva forte Pirandello cent’anni fa: l’una, l’altra, o entrambe le cose? E ancora, quando cala la sera, chi è veramente così sciocco da non sentire il peso dell’inevitabilità, davanti a sé, e da non capire che l’arte in fondo è capacità di boicottare la ragione, di non invitare alla logica, e suggerire altri mondi e altri capolinea impossibili allo scorrere delle esistenze?