Annegati negati
Mimmo Sammartino, Un canto clandestino saliva dall’abisso, Sellerio Editore Palermo, 2006.
C’è un libro che ha anticipato tutto. Sono andato a riprenderlo e l’ho riletto. È un libretto in-16 uscito nove anni fa, piccolo e potente. Fatto di poesia, prosa, citazioni di Eliot, di Coleridge, di Jacopone da Todi che si integrano nella narrazione. Versi presi in prestito rispettivamente a La morte per acqua (La terra desolata), La ballata del vecchio marinaio, la laude Il pianto della Madonna. Ventun capitoletti che evocano un dramma e denunciano un naufragio fantasma, negato da tutti. Dramma e denuncia reali che convergono nelle parole, per quanto di fantasia, di una madre realmente esistita – e tuttora esistente – in qualche parte dello Sri Lanka:
“L’altra notte ho sognato mio figlio
che dormiva sul fondo del mare.
Mi porgeva un passaporto
con il sorriso che conosco da sempre.
Un passaporto impigliato in una rete
di pescatori.
E nel sogno
gli ho accarezzato i capelli
bagnati
e gli ho baciato la fronte
e l’ho benedetto”.
Che parla è Parameswary, madre di Anpalagan Ganeshu, nato il 2 aprile 1979 a Chaukachceri, Sri Lanka del Nord, penisola di Jaffna. Anpalagan è morto nel naufragio della notte di Natale del 1996 al largo di Portopalo, Canale di Sicilia. Insieme a lui, oltre il fratello Arulalagan di un anno più vecchio, morirono annegate altre duecentottantuno persone provenienti dal Punjab indiano, dal Pakistan e appunto dallo Sri Lanka. L’assurdo è che quel disastro, poi riconosciuto come il più grande naufragio del Mediterraneo dalla seconda guerra mondiale (ma che ora sappiamo essere solo il primo di una triste serie di grandi naufragi), fu negato per almeno due anni. O comunque messo in dubbio sino al 2001, quando grazie alla caparbietà di un giornalista del quotidiano La Repubblica e all’utilizzo di un robot subacqueo avvenne il ritrovamento dell’imbarcazione e delle vittime.
Un canto clandestino saliva dall’abisso, dicevo, ha anticipato tutto. Gli sbarchi degli anni successivi, le collisioni, gli affondamenti, i gommoni alla deriva, l’incremento dei numeri e dei morti sino alla tragedia che nell’aprile scorso ha stravolto, questa volta senza che si potesse nascondere nulla, i dati statistici: oltre ottocento morti annegati in un solo naufragio.
Quella di Sammartino è una ricostruzione lirica, una cronaca di quegli eventi filtrata dai sentimenti. Sono i sentimenti di chi ha vissuto il dramma in prima persona, di chi è sopravvissuto e di chi è morto, di chi ha assistito impotente ai primi macabri ritrovamenti: un corpo, un teschio, il passaporto di Anpalagan impigliato nella rete e ritrovato dal pescatore Salvatore Lupo (anche questo nome autentico di persona reale). Sino allo sgomento della gente di mare che vive a Portopalo e che scruta l’acqua con un presentimento che le soffoca il cuore:
“A Portopalo la sera s’alzava un vento d’oriente. C’era chi lo chiamava per nome. C’era chi ne riconosceva il fiato. C’era chi continuava a sentire, dentro al suo grido, la voce degli annegati che risaliva dal fondo”.
Poi ci sono gli sciacalli umani, scafisti e armatori, esseri che lucrano su questi viaggi della follia e della speranza, che cambiano persino il nome delle barche. La Yiohan, responsabile del naufragio, l’ha fatto quattro volte. L’ultima, appunto, a seguito del disastro del Natale 1996, dopo che in fase di trasbordo dei passeggeri ha speronato la F-174, un peschereccio maltese dal legno mezzo marcio colato a picco come un sasso con il suo carico di vite umane.
È un libro, quello di Sammartino, che oltre ad essere ben scritto andrebbe letto nelle scuole. Così come si legge il Diario di Anna Frank. Un libro scritto dalla parte del dolore, un dolore composto. Non c’è pietismo, non ci sono accuse dirette. Solo la denuncia di una migrazione di massa che rischia di generare drammi senza fine. E dove un dramma in particolare, quello al largo di Portopalo, si fa narrazione e poesia. O, come precisa l’autore, “trasfigurazione lirica di fatti realmente accaduti”. I morti annegati diventano allora spiriti del mare dalla presenza proteiforme: ora misteriose sirene nel racconto di un pescatore ubriaco, ora “lamenti rimasti impigliati nelle reti”, ora coro di anime rassegnate che vagano nel silenzio dei fondali:
“Dormiamo nell’abisso
dove l’acqua che ci accoglie
ci accarezza i capelli
e culla il nostro riposo.
Ma il suo sale non è dolce
come il pianto delle madri
sui sepolcri dei figli”.
L’ho riletto tutto, questo libretto. Cento paginette si leggono in fretta. Specie quando l’argomento è così scottante. Non so perché ma mi si è affacciata l’immagine di altri eventi per noi lontanissimi nello spazio e nel tempo: la tratta delle navi negriere del XVI, XVII e XIX secolo. Schiavi o migranti, sempre gente in qualche modo forzata ad imbarcarsi per terre sconosciute. E a morire rinchiusa nelle stive, incatenata alle travi degli scafi o soltanto alla speranza vana di un mondo migliore in cui poter vivere.
Il libro si chiude con alcuni versi di Rocco Scotellaro, il poeta-contadino:
Non muore niente
siamo solo noi provvisori
perché a tutti rimane
anche una mollica di pane.
***
Per approfondimenti su Nazione Indiana:
I fantasmi di Portopalo, un’intervista a Giovanni Maria Bellu