Dal rito al ritmo: leggere Muro di Casse e non prendere congedo dal sogno collettivo

di Francesca Matteoni

Anni fa Vanni Santoni mi girò un suo lavoro inedito incentrato su una mappa di Europa riscritta dallo sguardo di due giovani, fratello e sorella, i cui viaggi o vagabondaggi per teknival o i più borghesi club delle capitali erano il fuoco in cui il passato si consuma mentre i luoghi e le storie sopravvivono ben oltre i singoli destini. Da quella lettura uscivano alcune domande fondamentali e interconnesse: cosa tiene vivo il vecchio continente sopra un mucchio di stereotipi e richiami ipocriti alle comuni radici culturali? Cosa resta del percorso esperienziale quando incontra il suo momento più estremo e deve decidere se abbandonarvisi, attraversarlo o voltarsi altrove? Quale rito ci farà credere che siamo stati vivi una volta? Quale libertà non si può istituzionalizzare, categorizzare perché è pre e post verbale, ha il ritmo di quell’anima del mondo che ci tiene inconsapevolmente insieme? E, in sunto, come si racconta tutto questo, cioè, ciò che resta sempre fuori dalle mappe?

Tracce di quel manoscritto riemergono da Muro di casse, il romanzo con cui finalmente l’autore affronta l’esperienza dei free party, le feste ritmate dalla musica tekno (o, in tempi più recenti, psytrance), tenutesi nell’arco di oltre vent’anni in località liminali del continente: campi incolti, vecchie fabbriche, edifici dismessi – paesaggi squallidi nella luce diurna, capaci di trasformarsi in terre iniziatiche nella notte, sotto la cattedrale del soundsystem. Ed è appunto con una cartina sentimentale di quest’Europa che si apre il libro: nessun confine politico, nessuna caratterizzazione fisica – solo la sagoma bianca al cui interno spiccano i nomi dei luoghi di raduno: Portalegre, Altopascio, Uxbridge, Tuzla, Beauvais, Odessa, per citarne alcuni.

La categoria “romanzo” permette a Santoni di scegliere una forma ibrida, che varia dal romanzo-documento al romanzo-intervista e al saggio-narrativo, fornendo apparati, note e bibliografia in chiusura, ma sfruttando il potenziale di immersione che solo l’atto del racconto può offrire. La voce narrante muta dalla prima persona al tu di un dialogo serrato, tramite una struttura tripartita che sembra evocare  visioni platoniche e rinascimentali dell’io e dell’universo, dipanandosi in Corpo, Intelletto, Spirito, ovvero tre personaggi con cui l’autore si immedesima (Iacopo) o interagisce (Cleo e Viridiana) facendo emergere la dimensione sensuale, lo sguardo teorico-politico e infine l’adesione profonda all’esperienza dei festival quale scelta di vita.
L’ibridazione continua nella potenza della lingua, che mescola slanci lirici, inflessioni gergali, scambi sincopatici di battute e flussi, seguendo proprio la progressione della musica elettronica e portando, come una scrittura algida e puramente saggistica non potrebbe fare, traccia della natura sincretica dei teknival, dove si fondono  elementi della sovversione punk, delle culture hippie e freak, dello ska e del reggae.
La cultura rave non si esaurisce infatti nella partecipazione a una festa illegale: si tratta (o si trattava: i voli low cost hanno inevitabilmente compromesso l’idea di distanze europee e di viaggio), di arrivarci via terra, su furgoni e camper, spostandosi quindi come i traveller, corrispettivo irlandese e scozzese degli zingari slavi; di perdersi per strade e sentieri polverosi, rischiando di scoprire all’ultimo cambiamenti di data o destinazione, dovuti a sgomberi e incursioni delle autorità locali. Si tratta ancora di fondere il puro godimento estetico e perfino lo “sfascio”, unica attrazione per alcuni dei partecipanti, ad un momento di trance collettiva, regolata, come nei rituali sciamanici, dalla ripetitività della musica. Si tratta di chiamarsi fuori dalla cultura dominante attraverso le sostanze stupefacenti e il loro uso, troppo facilmente stigmatizzato dagli allarmismi del senso comune, della cattiva informazione, della più ottusa legalità che di buon grado si accompagna alla legge di mercato, vero demone di ogni atto libero. Si tratta di rifare la geografia del continente, disegnandola nei suoi spazi desolati, abbandonati, periferici, reliquiari della contemporaneità più selvaggia, la cui bellezza “quindi la speranza”, luccica nei corpi e nella danza dei raver, di un collettivo che travalica confini nazionali, etnici e linguistici. Si tratta infine di tirar dentro anche il più estraneo dei lettori nell’utopia autorigenerante di questo unisono, niente affatto commercializzabile. Si capirà bene che un saggio non poteva funzionare.

Grazie al suo strano, appassionato romanzo Vanni Santoni riesce a chiudere il cerchio aperto anni fa con Gli interessi in comune, di cui qui ritroviamo il narratore, Iacopo Gori: dal particolare della provincia, che è la cifra di una giovinezza, siamo trasportati nell’universale dei festival internazionali, che sono la giovinezza, intesa senza alcun moto condiscendente come quell’energia vitale (e sì, nella sua forza, anche distruttiva e destabilizzatrice), che dà senso al tentativo di raggiungere se stessi, perché si situa sempre oltre ogni domanda, ogni spiegazione, ogni costrutto sociale – è un qui e ora umano e celebrativo. E se la giovinezza anagrafica dei personaggi e del loro sogno di festival sfuma, si fa nostalgica e dubbiosa, perché le feste non sono più quelle di una volta –  frase che colei che scrive questa recensione ha sentito esclamare e ha a sua volta esclamato svariate volte su altre esperienze sorelle, come il blues di Pistoia e il suo mai troppo rimpianto campeggio al Parco della Rana o il festival di Pelago -,  è pur vero che la giovinezza quale ideale e tensione, non viene meno: si trasforma, ricomincia da capo, si scrolla di dosso ogni lamento e delusione, balla imprendibile sui margini.

Inizialmente avrei voluto dire che questo è un libro coraggioso, fra le altre cose, per l’onestà sulle droghe,  un libro da citare nella battaglia per la loro definitiva liberalizzazione contro le speculazioni economiche, contro la morte che l’ipocrisia, il perbenismo e il cinismo si portano appresso; coraggioso perché rende dignità a una parte della storia estatica dell’umano, che pare andar bene in un testo di antropologia o storia delle religioni, ma non va giù quando è pacificamente non codificata e contemporanea. Ma in realtà è un libro bello e coraggioso perché schiude la giovinezza in un atto d’amore e, tornando alla provincia (perché se alcuni moriranno goani invece che teknusi, altri democristiani invece che comunisti, noi dopo aver girato mezzo mondo, moriremo toscani), di toscanissima irriverenza.

Nota conclusiva

Altre recensioni, sicuramente, sottolineeranno questioni tecniche, bibliografiche, sociologiche – la mia purtroppo non può perché viene dal disordine del cuore, quel cuore che si è riconosciuto leggendo questo estratto che volentieri vi riporto:

“Ed è mentre Cleo mi stacca un pezzetto di calendario maya, mentre mi alzo e me lo metto nella tasca davanti della giacca a vento, e intanto lei parla di chissà che festa o problema legato alle feste, lei che alla fine non ce la fa a non sistematizzare, analizzare, a non vedere tutto sotto un’ottica politica, lei che sulle feste ci ha fatto addirittura la tesi, al sound intanto – perché quel tir sulla cui scaletta stavamo seduti conteneva un soundsystem, che era dispiegato lì accanto, non visto perché ancora muto, scuro nella notte – ora si accendono due
luci, qualcuno grida qualcosa in francese, si sente un rumore a mezzo tra un fischio e un frullio, e partono i primi battiti, e con Cleo sorridiamo,
è lì,
fu lì, che una mano prese la mia e mi portò a ballare, una mano che faceva capo a una testa di capelli mezzi arruffati, a caschetto, turchesi, con una frangia troppo cresciuta, e due occhi sottili e in qualche modo – oh, così mi sembrarono, allora? – saggi, come quelli che a volte hanno i bambini, e insieme prendemmo a ballare e senza che nulla fosse fatto o detto dai visi e dai corpi se non la celebrazione di noi e di tutti lì intorno, lei mi baciò e fui mondato.
Fui mondato da quando a sei, sette otto anni mille e mille volte andavo a giocare a casa della Laurina e mi chiedevo se davvero avrei dovuto provare ad appoggiare le mie labbra sulle sue.
Da quando vidi la Masini e il Lapi, in seconda media, chiavarsi delle gran lingue in bocca.
Da quando strappai un bacio, finalmente, quindici anni avevo, dalla Dania, grazie a un “obbligo o verità”. Da quando baccagliai la Federica, la Chiara, la Beatrice, Katia, la Candice, fino a ottenere un coito da quest’ultima, diciannove anni avevo, quanta fatica.
Mondato da infiniti discorsi, palle su palle raccontate per strappare un bacio, o al massimo una toccata di billo, da serate “per chiarire”, da cene a quattro da pompini senza ingoio da scopate venute male perché troppo sbronzi, da “one night stand” che costringono poi a scappare nella notte, da relazioni lasciate crescere solo perché lei era bella e allora mi piaceva portarla in giro, da relazioni sessuali invece coltivate al buio, al riparo, perché lei aveva qualcosa che non mi andava giù ma non volevo rinunciare a una tacca sull’aereo prima (mondato da quando, a ventitré anni, fui felice per l’essere finalmente entrato “in doppia cifra”) e a una trombata sempre pronta dopo, a tutta una corda di pochezze su cui avevo costruito un’esistenza, un’idea interiore di me.
Fui mondato da tutta la merda che avevo dentro, boccate e boccate di merda, merda che scorreva profonda, e se qualche volta qualcosa da allora cercai, fu sempre e solo un riflesso di quell’allora, di noi, qualche ora dopo, che facevamo l’amore nel camper di una sua amica e le baciavo il viso e gli occhi mentre un tosa inu guardava dal posto guida, dalla rete che separava il posto guida da noi lì dietro, e io provavo a sillabare due parole in francese e lei mi prendeva in giro dicendo Arezzo, Arezzo, e io ma che Arezzo, Figline! e lei Arezzo, Arezzo, e mi guardava stringendo gli occhi a fessura e mi stupivo della nostra nudità, mi riappropriavo di quello che mi avevano tolto a sette, quattordici, diciannove, venti, ventitré anni; e sarei andato per feste, mille e mille volte ancora, l’Italia, l’Europa, credendo a volte di star cercando lei, ma in realtà cercando ancora
un’altra
rinascita”

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.