Il talento di Jonathan Coe
di Giovanni Dozzini
Non siamo avvezzi a pensare a Jonathan Coe come a un autore di racconti, e accogliere con qualche sospetto il suo nuovo libro, una raccolta di racconti, appunto, e per lo più già pubblicati fuori dai confini italiani nell’arco di quindici anni, era un esercizio non privo di qualche fondamento. Di operazioni simili ispirate alle logiche del mercato editoriale più che a quelle del sacro fuoco della creatività, d’altronde, se ne vedono tutti i giorni. Ebbene, per sgombrare subito il campo dai dubbi: in realtà si tratta di un buon libro. Si intitola Disaccordi imperfetti (traduzione di Delfina Vezzoli, Feltrinelli), e contiene sette brevi storie oltre a un articolo su Billy Wilder, o meglio sul suo non fortunatissimo film La vita privata di Sherlock Holmes, commissionato una quindicina di anni fa dalla rivista cinematografica francese “Cahiers du Cinéma”.
Coe, scrittore dalle nostre parti piuttosto popolare e in grado di penetrare efficacemente le questioni sociali e politiche della Gran Bretagna dagli anni Settanta in qua attraverso il ricorso a un immaginario spesso molto pop e molto ancorato a certi stilemi ben precisi, quasi di culto, musicali e cinematografici, in questi racconti sembra concentrarsi in maniera pressoché esclusiva sul proprio versante più intimista. La malinconia dell’infanzia e del tempo che sfugge, le occasioni perse e irripetibili, la rassicurante e sciocca ingenuità di una vita piccolo borghese svelatasi impietosamente con lo scorrere delle stagioni: è uno dei canoni da sempre sfruttati più a fondo dal cinquantaquattrenne scrittore inglese, e qui finiscono per fagocitare pressoché ogni altra cosa.
Non è un Coe politico, quello che scrive racconti, come se il passo breve chiami per forza di cose il respiro corto, l’impressione dilatata a schema narrativo, la suggestione eletta a bussola quasi esclusiva. Semmai a reclamare vigorosamente la propria parte ci sono le già citate grandi passioni dell’autore della Banda dei brocchi e La famiglia Winshaw, il cinema e soprattutto la musica. Giochi di note, accordi balzani e scale pentatoniche, più un ibrido perfetto come un autore di colonne sonore invitato a sedere al tavolo della giuria di un piccolo festival horror francese. La materia abbonda.
E poi c’è un percorso trasversale che comincia e prosegue altrove, come rivela lo stesso Coe in una nota di prefazione. Tre dei racconti fanno parte di un progetto più ampio, intitolato Unrest, che comprende anche i romanzi La pioggia prima che cada e il recente Expo 58 e vuole raccontare la storia di una famiglia borghese delle Midlands nel corso del ventesimo secolo: “Forse potrebbe esserci una manciata di lettori là fuori che ha letto questi libri abbastanza attentamente da individuare alcuni collegamenti”.
Tornando al punto da cui eravamo partiti, Disaccordi imperfetti è insomma un buon libro. Senza la sua carica più impegnata, o perlomeno lasciandola intendere molto lontanamente, Coe dimostra un’abilità narrativa pura, come succede con i migliori autori di short stories. Gli incastri tra nostalgie ed entusiasmi, in particolare, gli riescono benissimo, c’è sempre qualche amore intuito e mai lasciato esplodere, e per questo incorrotto e incorruttibile, specie nei ricordi, c’è sempre qualche sliding door su cui rimuginare, qualche vecchia notte in una casa rigonfia di affetti e piccoli misteri irrisolti. Jonathan Coe, al netto delle sue conclamate e non di rado soddisfatte ambizioni storicizzanti, ha soprattutto questa indubbia capacità di simpatia ed empatia col lettore, che gli consente di riempire le poche pagine di un racconto di sensi e di immagini incisive. Uno scrittore di talento a cui non vergognarsi di volere un po’ di bene.