Seia tre : Haruki Murakami
Metamorfosi e solitudini
di
Seia Montanelli
Non fatevi ingannare dal buon Murakami: “Uomini senza donne”, il suo ultimo libro pubblicato da Einadi (222 pp., 19 €, trad. it di A. Pastore) è pieno di donne: desiderate, sognate, cedute, tradite, amate fino alla consunzione, ascoltate, invocate, evocate, fraintese, sopravvalutate e infine perdute per sempre.
Uscito nel 2014 in Giappone con il titolo “Onna no Inai Otoko-tachi” (traduzione letterale: uomini che non hanno fidanzate), “Uomini senza donne” è una raccolta di sette storie brevi, scritte a partire dal 2005 – anno in cui è uscita la prima raccolta dell’autore, “I salici ciechi e la donna addormentata” – e pubblicati quasi tutti sul mensile “Bungeishunju”, o apparsi su riviste di tutto il mondo e sul sito del New Yorker (solo un racconto è del tutto inedito).
Questi uomini senza donne in realtà di donne ne hanno avute, e come: ma per qualche accidenti della vita, o per loro incapacità a tenersele strette, hanno finito per perderle. Murakami ribalta così la solita visione della donna rifiutata, che ha riempito la letteratura e il cinema fino alla noia, e racconta la storia dal punto di vista degli uomini, sedotti e abbandonati, melensi e romanticamente disperati come – o forse di più? – le loro controparti femminili di ogni tempo e luogo.
Questo aspetto, l’inevitabile associazione all’omonimo romanzo di Ernest Hemingway (che pare Murakami avesse intenzione di evitare, modificando il titolo della raccolta per le edizioni straniere, ma poi deve aver cambiato idea) e un certo maschilismo di ritorno che affiora in qualche pagina del libro (si legga il racconto “Organo indipendente)”, in un primo momento mettono in allarme da “mattonazzo” (a prescindere dalla limitata mole del volume) il lettore un po’ smaliziato, ma l’autore vien considerato un possibile vincitore del Nobel ogni anno non per caso: è troppo bravo a raccontare delle storie per cadere in stereotipi o lagne da libro Harmony. Così continuando nella lettura ogni allarme si spegne e ci si addentra nell’animo ferito di questi uomini, di ogni estrazione e grado, spesso misteriosi, altre volte squisitamente banali, che hanno perso il centro del loro equilibrio insieme alla donna amata. Che sia morta dopo numerosi tradimenti, o sparita nel nulla all’improvviso, o persino che l’abbiano lasciata andare, a riempire i loro giorni è il rimpianto per ciò che poteva essere, la solitudine insostenibile perché piena di domande senza risposta.
Allo stesso modo il lettore si trova davanti a racconti che non hanno un punto focale: si entra e si esce da queste vite, portandosi dietro lo stesso senso di incompiutezza dei protagonisti. Solo uno dei racconti si apre alla speranza, l’unico che ha peraltro qualche rimando alla dimensione onirica che l’autore ha esplorato in altri suoi testi: trattasi di “Samsa innamorato”, un chiaro omaggio al più famoso racconto di Franz Kafka, in cui la storia viene ribaltata perché l’orrenda scoperta che Gregor fa una mattina all’improvviso è quello di essere stato tramutato in un uomo, e di trovarsi senza il duro carapace che lo proteggeva dal mondo. In questo stato, con solo quello strato sottile e roseo di pelle a fargli da scudo, gli accade di innamorarsi di una donna non propriamente attraente ma che per lui è bellissima: e questo amore diventa anche un modo per conoscere il mondo in cui si ritrova e la sua nuova condizione. Un altro omaggio letterario è nel racconto “Shahrazād”: qui una donna per intrattenere Habara, un uomo recluso non si sa per quale ragione in un appartamento, dopo aver fatto l’amore con lui comincia a raccontargli delle storie e quelle storie diventano per lui più importanti del sesso, sono quasi come delle compensazioni alla libertà che gli è negata. Dopo un’ultima storia lasciata in sospeso, Habara comincia a vivere nell’angoscia di non poterne più ascoltare altre e di non poter conoscere la fine dell’ultima nel caso in cui Shahrazād non tornasse.
Come Murakami fa dire al protagonista del suo ultimo racconto, il più disperato forse, che dà il titolo alla raccolta, per Habara e per tutti gli altri uomini che hanno subito la perdita di una donna è come «perdere quel fantastico vento da Ovest», come «essere derubati per sempre del proprio quattordicesimo anno». E, ancora, «a volte perdere una donna significa perderle tutte». E tutto. Tanto che Murakami racconta un intero universo fatto di suoni e di odori e di colori percepiti diversamente senza la donna amata, vera condizione esistenziale senza rimedio, e pur sfiorando spesso il paradossale, tutta la narrazione rimane possibile, tangibile, come il dolore che l’assenza si porta dietro mentre consuma questi “uomini senza”.
La nostalgia, il rimpianto, l’abbandono, il rapporto tra uomini e donne, l’impercettibile superamento della linea sottile tra realtà e fantastico: ci sono tutti i temi principali di Murakami in questi racconti – e anche il suo essere scrittore internazionale, moderno, pop perfino, con i ripetuti riferimenti musicali, i soliti Beatles, l’amato jazz, le influenze della letteratura statunitense, pur restando uno scrittore profondamente giapponese. E c’è quello stile difficile da individuare in una traduzione, ma che fidandoci della bravura di Antonietta Pastore, è lo stesso di sempre: frasi semplici, parole d’uso comune, spesso ripetute, un linguaggio colloquiale con delle saltuarie colorazioni poetiche, con una precisione quasi maniacale nei dettagli e dialoghi vivaci e momenti anche di ironia.
Non fidatevi, perciò, del titolo del libro: ma abbiate piuttosto fiducia in Murakami e nella sua capacità di raccontare delle storie che difficilmente dimenticherete.