Entomologia della sceneggiata. C’è del pianto in queste lacrime di Antonio Latella
di Ornella Tajani
È una entomologia della sceneggiata quella che Antonio Latella porta in scena con lo spettacolo C’è del pianto in queste lacrime, nato nel 2012 per il Napoli Teatro Festival e riproposto al pubblico partenopeo del Teatro San Ferdinando fino al 18 di questo mese, con l’obiettivo di rilanciarlo e farlo viaggiare più di quanto abbia fatto in questi anni.
I protagonisti-insetti sfilano sopra una piattaforma illuminata, sorta di palco sul palco che nel suo taglio orizzontale ricorda un vetrino da microscopio. Al centro della scena si muove invece un unico personaggio, presente per l’intera durata dello spettacolo (2h e 45), vestito da Edward mani di forbice e circondato da microfoni che costituiscono quasi un’appendice delle sue mani fatte di lame; sebbene decisamente riconoscibile nelle vesti della creatura plasmata da Tim Burton, figura incompleta, “non finita”, inesorabilmente disadattata, l’attore somiglia anche a una specie di ragno che lentamente si muove dentro le maglie della narrazione, ora entrando direttamente in gioco, ora commentando in contrappunto l’azione.
Pur dichiarando di non voler resuscitare né nobilitare la sceneggiata, Latella e Linda Dalisi, autori del testo, ripropongono il genere senza trascurare alcuna caratteristica; non c’è l’intento di superarlo, semmai di espanderlo, trascenderlo e farne metafora. Così il frame tipico è ben identificabile: in scena ritroviamo isso, essa e o’malament, ma anche la madre, il figlio ingenuo, i caratteristi comici o alcune figure inedite come il guappo depresso. I temi sono l’adulterio, l’onore, i legami familiari corrotti da anni di omertà parentale; ma anche la vergogna, l’omosessualità, la fame. Musicalmente c’è spazio per tutto: O’ sole mio, Maria Nazionale, Dove sta Zazà, i Kasabian. Alcuni brani sono recitati senza il supporto strumentale e forse già in questo si riconosce la traccia di una sorta di scarnificazione del genere che Latella sembra voler compiere: se da un lato il regista scende in profondità e scandaglia la sceneggiata in tutti i suoi elementi, dall’altro forse prova a ridurla ai minimi termini, conservandone l’involucro per riempirla d’altro senso.
Inizialmente, infatti, tutto è automatismo, reiterazione forsennata, modulazione in climax di uno stesso frammento di testo che viene recitato dagli attori seguendo delle gradazioni di registro sempre diverse, quasi un esercizio di stile. La sceneggiata come genere, almeno in parte radicata quasi inevitabilmente nel genoma artistico dell’autore campano, è più volte esplicitamente chiamata in causa, anche con l’intento di metterla al bando, e si assiste al tentativo di svuotarla e di isolarla nella sua stessa codificazione. Successivamente, però, la forma sembra esplodere e ingurgitare tutto. Così il riferimento shakespeariano appena riecheggiato dal titolo si impone: il personaggio del figlio diventa Amleto, testimone dell’adulterio della madre, e le due mosche accorse al suo fianco sono Rosencrantz e Guildenstern. La sceneggiata inghiotte la tragedia e si ingrossa rotolando come una valanga, trascinando con sé anche una parte di discorso religioso, un pezzo di fondale che non poteva mancare, fino a un finale Kitsch tinto di natività e di morte.
Latella e Dalisi hanno scritto di aver voluto attribuire ai loro personaggi le sembianze di insetti con l’obiettivo di mostrare la vita all’interno di una spaccatura della terra, di una ferita morfologica che è, naturalmente, la Napoli infettata da un virus e rappresentata dal genere sceneggiata: «pecché quanno uno vene a’ Napule addà murì?» è la replica all’inevitabile ritornello iniziale «Vedi Napoli e poi muori». L’intero spettacolo, recitato in un dialetto potente e acuminato, muove le mosse da questa domanda, dietro la quale si avverte la pesante contraddittorietà che il discorso su Napoli sempre porta con sé: il significato ultimo si frastaglia tra ambiguità e contraddizioni, tra la repulsione, il desiderio di stigmatizzare e al contempo una persistente fascinazione. «Quello che è già accaduto si ripete, si trasforma, rimbomba nell’aria», scrivono gli autori. Così, in quella domanda affannosamente ripetuta, si cela il «pianto coatto e disperato, un lamento marcito nel tempo» che viene posto a sigillo dell’opera.
L’augurio è che C’è del pianto in queste lacrime sia rappresentato altrove, di nuovo. E, a pochi giorni dalla nomina del prossimo direttore del Napoli Teatro Festival, Franco Dragone, non si può non pensare che sarebbe bello in futuro avere un regista poliedrico come Latella a dirigere una rassegna che, almeno nelle prime due edizioni, era riuscita, con una programmazione dal respiro ampio e realmente internazionale, a coinvolgere ed entusiasmare l’intera città.
[…] Antonio Latella e Linda Dalisi rileggono la sceneggiata napoletana trasformandone i personaggi in insetti e parassiti che si muovono in uno spazio claustrofobico, automi privi di identità, vivisezionando le dinamiche familiari tipiche della sceneggiata dando vita a una favola nera, a un incubo dove la speranza è un traguardo irraggiungibile. Resta la volgarità di una lingua degradata (il napoletano), ridotta a gergo, depauperata della sua ricchezza espressiva, espropriata della sua proverbiale musicalità. Un urlo, un guaito, un rantolo che trasforma la tradizione in un presepe di gesso atroce e immutabile. Qui trovate un’intervista al regista Antonio Latella, nel video sopra lo spettacolo in versione integrale. […]
è sempre un piacere leggere la tajani