Pochissimo conosciuti alla maggior parte del pubblico, i quadri di Antonioni a cui si dedicò con passione poco dopo il Duemila, furono già esposti a Piazza di Pietra in una grande mostra, allestita da Renzo Piano, col bel titolo Silenzio a colori. Il luogo scelto per mostrare il cinema silenzioso di Antonioni era non a caso il luogo del rumore più persistente, il fragore metafisico oltre che sonoro della Borsa, come si vede nel suo film L’Eclisse. Era il il 30 settembre del 2006, giorno dell’ultimo compleanno, il 94°, di Michelangelo Antonioni. La sera del vernissage, il silenzioso Michelangelo passava tra la gente, nella sua carrozzina, e quando i commenti e le esclamazioni di fronte ai suoi quadri da parte di qualcuno che conosceva erano troppo insistenti, faceva con la dita della mano il segno di quando tocchi e fai frusciare i soldi, come se dicesse, sornione: “Allora comprateli, no?
Di quello che scrissi all’epoca, sia nel catalogo che in due pagine dedicate all’evento sulle pagine domenicali de la Repubblica, per comodità scelgo la versione, più breve, quella uscita sul giornale:
http://www.beppesebaste.com/i-quadri-di-michelangelo-antonioni/
Avendo avuto il privilegio di far visita spesso a lui e ai suoi quadri in vista del testo che avrei scritto per il catalogo, quel giorno lo trascorsi in compagnia del maestro, fin dal pranzo di compleanno organizzato da Felice Laudadio alla Casa del Cinema, con pochi intimi. È dell’inverno scorso la mia scoperta, in casa di un anziano e celebre fotografo nella città vecchia di Calcutta, Nemai Ghosh – già amico di Antonioni – che tutto di quel giorno era stato documentato da sue fotografie (v. qui sotto). Coincidenza, le sue fotografie dedicate a Michelangelo Antonioni sono esposte proprio in questo periodo a Calcutta, a cura del consolato d’Italia. (Ho raccontato quella agnizione, quasi un’avventura metafisica alla Corto Maltese, per la rivista il Reportage: http://www.beppesebaste.com/silenzio-a-calcutta-per-michelangelo-antonioni-e-nemai-ghosh/ )
Adesso, in questa seconda mostra che tutti accolgono come se fosse la prima e unica, c’è un nuovo catalogo in cui appare la testimonianza recente di Enrica Fico Antonioni, che di Antonioni fu moglie e compagna. È un testo molto bello, che riporto qui integralmente:
“Michelangelo è pittore. Certo che è un pittore. Ha sempre dipinto, ha sempre guardato come un pittore, ha guardato i colori, colto le sfumature, la bellezza dei paesaggi e dei volti, dei muri e della luce rarefatta, si è soffermato a gioire dell’armonia degli alberi fioriti o delle dune del deserto, ha ammirato l’estro nelle tele dei più grandi artisti, ma quello che ha guardato più di tutto è stato l’uomo che guarda, che dispone, che medita, come è scritto in una lettera di Giorgio Morandi a lui indirizzata. Per questo credo sia diventato regista, perché la curiosità di scoprire i sentimenti era più forte di tutto.
Questo è stato il suo compito, scavare nell’animo umano, a costo di incontrare una grande sofferenza. L’impegno che ha messo nel cinema è stato lo stesso che ha messo nella vita. Ha seguito una caparbia volontà di voler capire, di voler capire tutto. E io credo che alla fine ci sia arrivato a capire tutto. Avvolto nel suo morbido scialle color rosso fuoco, alla sua tarda età, il suo sguardo sapeva andare molto lontano e sapeva adagiarsi gentile sui colori delle sue ultime tele, finalmente libero, libero di giocare nella forma e nello spazio, nel colore puro o composto sapientemente, nella condizione che lo rendeva felice, quella astratta. Dipingere per lui era una gran gioia. I momenti dedicati alla pittura sembravano liberi dal tormento che il cinema poteva dargli, insieme alla soddisfazione di saper fare il mestiere che amava di più, ma che lo metteva sempre alla prova.
Nei suoi ultimi anni, dal 2001, ha deciso di dedicare alla pittura tutto il tempo che gli rimaneva. Era al suo tavolo di lavoro tutto il giorno e tutti i giorni, assorbito nel colore, nella forma, nel silenzio, nella quiete del suo respiro. L’eleganza dei suoi gesti era disarmante, come sempre.
La sua casa, la nostra casa si è riempita di colori e di improvvisa giovinezza. Invece di invecchiare sembrava affrontare il viaggio verso la morte immerso nella bellezza, quando dipingeva l’aria intorno a lui diventava leggera e sembrava che tutto quello che aveva imparato, osservato, letto, capito, si potesse disporre in un rosso, in un verde, nell’accostamento di molti colori, a volte mischiati e cercati per ore. Lui che stava perdendo la vista si è lasciato riempire le pupille di luce colorata e ha raffinato sempre di più il suo sguardo, per riuscire a vedere meglio quasi come con un senso superiore. Come quando una volta siamo usciti dal Prado, dopo essere stati giorni davanti a Velasquez, mi ha detto ‘ora vedo in modo completamente diverso’.
La pittura che ha guardato lo ha sempre influenzato. La bellezza e l’eleganza lo hanno strutturato, cominciando dalla sua città, Ferrara. Per capire veramente Antonioni bisogna andare a Ferrara, la notte, con la nebbia o al tramonto per gustare il colore caldo dei muri di cotto sempre coperti da un velo di grigio. Nelle piazze di Ferrara si trova la pittura che ha voluto ricreare nei suoi fotogrammi. Le piazze vuote, il deserto dei sentimenti, il rumore dei passi di camminate solitarie, percorsi vuoti all’interno di sé stessi. Il De Chirico che si rivela a Ferrara era anche appeso alle pareti della sua casa romana, insieme a Morandi, a Bacon a Balla, Feininger, Baumeister. Una discreta collezione.
Il bianco e nero dei suoi film era costruito per essere infinitamente ricco di sfumature, composto da centinaia di grigi. Una fotografia pastosa che rendeva i volti di pelle di pesca, gli abiti fruscianti nelle loro pieghe. Aveva il gusto di una ricerca della fotografia nitida, quasi come la percezione dell’occhio, studiata con i più grandi maestri, quelli che hanno insegnato a tutti. Con loro, Gianni di Venanzo, Enzo Serafin, Michelangelo ha conosciuto le scale dei grigi e la ricchezza della luce.
Poi è venuto il momento di cedere al colore, di allontanarsi dalla nebbia, anzi di raccontarla con un occhio più distaccato. Si doveva preparare a raccontare le percezioni della sua natura più adulta, quella dell’uomo che sa stare nel deserto, o solo in una stanza deserta, di un uomo che non vuole appartenere a nessuna città, a nessun paese, per poter raccontare lucidamente di ogni cosa che vede.
Con Il deserto rosso si è veramente affermato pittore. Ha letteralmente dipinto i suoi set, i fotogrammi sono diventati tele. I colori esprimono i sentimenti, ancora di più della posizione della macchina da presa. L’angoscia è grigia, l’amore è rosa. Sembra così semplice, ma è grigia anche la faccia di chi vende la frutta su un carretto anch’esso grigio, in una strada tutta grigia. Poi negli interni, col pretesto di raccontare le impressioni di un personaggio psicopatico, si concede a dipingere le pareti nella ricerca dei blu, dei viola, i verdi. Esprime la sua voglia di essere pittore. Come Rothko che aveva visitato nel suo studio a New York nel 1962, per l’uscita de L’Eclisse.
Raramente Michelangelo riconosceva una grandezza negli artisti suoi contemporanei, invece considerava i quadri di Rothko superbi. Gli scriveva del quadro N.19, esposto alla mostra di Roma nel 1962: quest’opera è di una purezza e di una forza fenomenali, c’è tutto l’acciaio di New York nel colore del quadrato superiore, così isolato dal fondo scuro: ti dà il panico, un panico cosmico. Questa è l’angoscia dipinta. Straordinario.
E ancora, in un’altra lettera. Caro Rothko, io e lei facciamo lo stesso mestiere: lei dipinge e io filmo il niente.
E’ stato quel dipingere il niente che lo rendeva felice. Solo immerso nel colore ha creato superfici che potevano parlare il suo linguaggio, di nuovo trovare un’armonia, un canto senza parole”.
La Castellina, 17 Agosto 2015
Il giorno della conferenza stampa di questa nuova mostra in una galleria privata, mi è venuto il ricordo di quella del 2006, dove mi fu chiesto di parlare. Quello che improvvisai doveva essere interiormente importante per me se dopo anni si è sedimentato in una pagina del mio nuovo romanzo, Fallire. Storia con fantasmi, di cui gli Anni Zero scandiscono i capitoli. Credo che quelle parole spieghino in qualche modo anche la nostra mancanza di memoria, dato il nostro stile di vita a imitazione di una tv che non viene mai spenta, e che cancella se stessa ogni momento che passa. È un’altra idea del tempo, di ritmo, di lentezza, che rimandano sia il cinema che la pittura di Antonioni. Siamo ancora in grado di capirla, di accoglierla? Dunque, nel capitolo dedicato al 2006 del mio nuovo libro, a pag. 120-21 si legge questo, dedicato a Michelangelo Antonioni e all’illuminante subbuglio che condividere un po’ con lui creò dentro di me:
“… Noi, dici, stiamo ancora aspettando che quei frammenti, oggetti senza più uso né scopo, finiscano di cadere. Non guardiamo verso l’alto per paura o per vergogna, e li aspettiamo sapendo che nulla d’importante, in nessun ambito, è nel frattempo avvenuto, nonostante il brusio e la nebbia di eventi. Nulla tranne questo cadere di cui da anni redigiamo il catalogo… ” (pag. 121).
Impressionava fantasmi