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A morire ci vuole una vita

di Sara Nissoli

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Nasco il dieci luglio millenovecentottantaquattro. Piove. Sono le otto e mezza del mattino. C’è anche mio padre. Mi conta le dita delle mani e dei piedi. Ci sono tutte, scoppia in un pianto accanito per qualche secondo, poi smette come nulla fosse. Mia madre ha una camicia da notte chiara, gli dice di andare, ma poi di ritornare. Mio padre scende le scale fino all’ingresso dell’ospedale, va al bar, chiede un caffè e due gettoni del telefono. Berrà un caffè solo per chiedere anche i gettoni del telefono, perché gli sembra che distribuire gettoni non sia il lavoro di un barista, ha paura di infastidirlo. Io ho solo un paio d’ore di vita e già eredito quell’imbarazzo per le piccole cose fuori posto, quell’ansia totalizzante per cui tutto debba andare come stabilito.

Da chi? Perché? È così, punto. Inserisce il gettone in uno dei tre telefoni contro il muro, chiama mio fratello. È nata Sara, gli dice. Ok, risponde lui, e torna a dormire. Ha dodici anni e, solo per oggi, può restare a casa da scuola.

Mia madre è a letto da un po’ di giorni, fa quasi sempre buio. È febbraio, mia sorella è morta il mese scorso. In due anni ha potuto prendermi in braccio una volta sola, abbiamo una foto di fianco all’albero di Natale con poche palline. Poche se no cadono, dice mio padre: nessuno ha la forza di rispondergli. Febbraio è un mese che per me rimarrà buio tutta la vita, anche quando c’è il sole. È un paese del Nord Europa, dove le case sono riscaldate dal pavimento, le persone hanno cappelli di pelliccia e sembrano felici di tutto quel freddo. Anzi, più compiaciuti che felici. Del tipo noi non vi dobbiamo niente, respiriamo aria pulita, amiamo le nostre alci, le nostre lentiggini e le tisane alla mela. La domenica non andiamo a messa perché della religione non ce ne frega un cazzo, facciamo tanti figli e se rimaniamo senza lavoro ci pensa lo stato. È un mese buio, certo, ma anche piuttosto rassicurante.

Il giorno della prima confessione ci mettono in fila di fronte all’altare, come tanti piccoli condannati a morte. Indosso una gonna blu con delle ciliegie stampate due a due. È uno stereotipo, dice la mia catechista prima che entriamo in chiesa. Cos’è uno stereotipo?, chiedo. È come disegnare una foglia attaccata a un mandarino. Non capisco. C’entrerà la frutta? Non faccio in tempo a rispondermi che inizia l’esecuzione. Il primo è Michele Selvaggio. Nessuno lo prende in giro per il suo cognome perché lui è un selvaggio vero, e picchia. Suo padre lavora alla fabbrica dei trattori, la stessa in cui sta il mio, ma fanno due lavori diversi. Loro vivono nelle case popolari. Quando mi chiedono per cosa devo purificarmi davanti a Gesù dico che ho rubato una Barbie a una mia compagna di classe. Non è vero. Recito l’atto di dolore e corro fuori. Aprile è iniziato da poco, davanti casa è fiorito il pesco.

La mia prima sigaretta è una Diana Blu, rubata dal pacchetto della madre della mia migliore amica. Siamo dietro al suo garage, in giardino. Non sa di limone, dico. Perché limone?, mi chiede lei. Niente, ero convinta sapesse di limone, rispondo. Quando gli altri fumano sento qualcosa nelle guance, come quando mastichi una fetta di limone. Sa di schifo, dice. Bleah, diciamo. Secondo te Andrea Maridati ci viene al mio compleanno?, mi fa. Certo che ci viene. Non partirà? È sabato. Lui non va mai in vacanza, è povero, la rassicuro. Come fai a saperlo? Ha i calzini bucati, l’ho visto a educazione fisica. Giusto, dice e si rilassa. Ti rendi conto che sono nata lo stesso giorno di Leonardo di Caprio? Sai che sua madre lo ha chiamato così perché davanti a un quadro di Leonardo lui ha scalciato per la prima volta? Ti rendi conto che… dunque, oggi è il cinque novembre… tra un mese e quattordici giorni esce Titanic? Sì. Dobbiamo tornare a studiare, domani c’è la verifica di storia.

Vai a trovare tua sorella al cimitero, mi dice mio padre mentre faccio colazione. È il 25 dicembre. Perché?, gli chiedo. Perché oggi è Natale. E allora? I morti non festeggiano il Natale. Anna!, chiama mia madre. Anna, senti cosa sta dicendo. Mia madre arriva in cucina, in mano ha la custodia del servizio d’argento, quello che usiamo nelle feste. È di velluto verde e sa di chiuso. Senti cosa dice, non va a trovare sua sorella nemmeno il giorno di Natale. Io non l’ho mai conosciuta mia sorella. Certo che vi siete conosciute, mi rassicura mia madre. Ci rassicura tutti, sempre. Mio padre scuote la testa e va a farsi la barba. Lei inizia a lucidare le posate. A me viene da piangere. Ieri ho finito il Giovane Holden, io e il protagonista abbiamo la stessa età. Anche suo fratello è morto di leucemia. Però, almeno, gli ha lasciato un guantone da baseball.

Non ti faccio male, mi dice. Io non ho paura che mi faccia male, ho bisogno che si sbrighi, perché ho già diciotto anni. L’ho scelto a caso, dal falò. Quello più lontano dal fuoco. Un tipo prudente, insomma. Non mi fa male, si sbriga e non ci vediamo mai più. Buon Ferragosto.

La stanza del professor Petrucci è piccola, ci sono solo una scrivania, due sedie e uno di quegli armadi di ferro, da ufficio. Solo che l’etichetta del faldone che vedo da qui non recita Fatture giugno 2006, ma Psicopatia. Io non sono psicopatica, vero?, gli chiedo. No, ride, lei non è psicopatica. È la prima volta che mi danno del lei, tanto che mi viene da girarmi pensando stia parlando a qualcuno dietro di me. Non sono psicopatica, però svengo quasi tutti i giorni, svengo quando devo scegliere. Lunedì scorso il tabaccaio mi ha chiesto: Vuoi le Marlboro light che in regalo c’è una sveglia? Light, rosse, light, rosse, light, rosse: mi passavano davanti agli occhi alla velocità della luce. Finché la luce non si è spenta.

C’è una possibilità su trecentocinquantamila che una madre e una figlia si ammalino della stessa forma di cancro. Lo dice il dottore. E nostro padre lo ripete come un mantra, sul balcone. Vieni dentro pa’, che è freddo. Però quella possibilità esiste, e si presenta in casa nostra esattamente il primo gennaio 2010. La prima volta che vado a trovarla in ospedale le dico: Ma non poteva ammalarsi papà? Poverino, risponde. Poi aggiunge che non vuole curarsi. Nemmeno provarci? Nemmeno. Scendo le scale, dei tre telefoni contro il muro all’ingresso ne è rimasto uno solo. Entro al bar. Un caffè per favore. Liscio o macchiato, per la signorina? Svengo.

Tu non devi buttarti giù, devi guardare avanti, altrimenti poi te ne penti. I problemi vanno superati, e quando c’è da lavorare si lavora. Ho chiesto al mio capo una domenica libera, per andare a trovare mia madre. Non dovrei nemmeno lavorare di domenica, ma qui funziona così. Lunedì dobbiamo consegnare un lavoro per Conbipel. Mia madre non sta bene e io non me la sento di restare accanto a dei piumini col cappuccio in peli di gatto. Ma è già settembre, siamo in ritardo. Dico al mio capo che va bene, lui mi risponde bbrava con il suo accento romano. Si crede uno della Magliana, ma è nato a Parioli nel 1972. Chiamo mia madre, mi rassicura: per questa settimana non morirà.

Un pomeriggio di maggio vado a trovare mia nonna. Ernesta Maria Bazzetti, classe 1919. Mi racconta ancora una volta del suo viaggio di nozze a Civitavecchia. I nazisti mi hanno fatta stare in piedi tutto il tempo, dice mentre inzuppa una fetta biscottata nel tè. Poi si alza e va a baciare una statuetta che tiene tra San Antonio da Padova e il Papa Buono. È il lupo travestito da nonna di Cappuccetto Rosso, gliel’ha regalata il nipotino della sua vicina di casa. Cosa fai, nonna? le chiedo. Dò un bacino alla madonnina nera e prego per i bambini del suo paese. Quale paese, nonna? L’Africa. Da quel giorno, tra le preghiere serali per non far morire mia madre, invoco anche la Madonna Lupa.

Se ne va un pomeriggio di fine ottobre, lo stesso mese in cui mi innamoro per la prima volta.

Avete presente quella storia per cui poco prima di morire ti passa davanti tutta la tua vita, dall’inizio alla fine, come un film, che poi sarebbe il tuo? È un tema trattato soprattutto in romanzi di terza categoria, tipo quelli che vendono nelle edicole dei luoghi di villeggiatura per anziani, tra Dipiùtv e Mondogatto. Chissà se questa ragazza che mi sta guardando ne ha letto qualcuno, secondo me no. Vorrei dirle di non farlo mai, perché la vita è davvero troppo breve per accontentarsi subito della verità. Ho sentito un gran botto, nient’altro, e il rumore di qualcosa che si spezza. Un rumore così, credetemi, non l’avevo mai sentito. Molti di voi, secondo me, non lo sentiranno mai. Stavo solo attraversando la strada, davvero, ero pure sulle strisce pedonali. Sulla Fidaty Card ho tremilacinquecento punti fragola, una follia. Là fuori qualcuno grida di non spostarmi. Due dita fredde mi premono contro il polso. Gianluca è a casa che mi aspetta, lui è un fanatico dei Punti Fragola, voleva prendersi una bilancia. Ama tutte le raccolte punti. Fin da bambino, mi ha detto la prima volta che ci siamo incontrati. Quando ero piccolo andavo per tutto il palazzo a chiedere se potevano darmi i punti della Parmalat. Mi sono preso cinque paia di scarpe delle squadre di calcio, te le ricordi? Avevo perfino quelle del Cagliari. Ho capito subito che con Gianluca non mi sarebbe mai successo nulla di male, perché sarebbe andato di casa in casa a chiedere aiuto per me. Se ne sarebbe accorto e sarebbe partito, dal primo all’ultimo piano e mi avrebbe guarita ogni volta. Tra poco stacca dal lavoro. Poi la ragazza che mi guarda si sposta, la sento vomitare. Lo interpreto come un addio, diciamo. Vedo il cielo, c’è ancora luce, è una bellissima sera di marzo.
Fa ancora un po’ fresco, è vero, ma in fondo si sta bene.

Foto di Giacomo Lunghini

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