Anteprima Sud. 23 novembre 1980
L’Ottanta
di Giusi Marchetta
L’ultima volta che sono tornata a Caserta, è venuto pure lui per conoscere mamma. È stato bravo: ha bevuto il caffè e ha detto che era buono, si è tenuto il gatto addosso e ha fatto finta di niente quando lei mi ha fatto notare che gli restano pochi capelli. Alla fine della visita è sceso in cortile a fumare e a lasciarci un po’ da sole per dirci le cose che davanti a lui non avremmo detto.
Più tardi l’ho trovato sulla panchina di fronte a fissare il palazzo.
– E quella?
È una crepa sottile, un lungo ghirigoro che rompe la monotonia rossa della facciata.
– L’Ottanta – dico e basta. Sono trentacinque anni che sento questa risposta e non c’è mai stato bisogno di aggiungere altro. Fa sì con la testa. Ha capito.
Pensa al terremoto, ai morti sepolti sotto le proprie case. Lo pensa perché non sa niente di Carmela e non sa che tutto è crollato per colpa sua.
Abitava nel nostro palazzo, al piano di sotto, con la madre e un padre che quando Carmela era molto piccola avevamo visto salire su un’ambulanza e che non era più tornato. Sapevamo che era vivo perché la moglie andava a trovarlo in clinica una volta a settimana, lasciando la figlia a chiunque si offrisse di tenerla, ma di che malattia si trattasse a noi bambini non era dato saperlo. Del resto ci sembrava normale e perfino giusto. Molti di noi già avevano già capito che il mondo degli adulti era molto simile al teatro della parrocchia: dietro le quinte Calabrò era il salumiere che se capitava bestemmiava con trasporto; quando usciva sul palco con la tonaca di don Bosco gli cambiava pure la voce.
In compenso conoscevamo molto bene lo spazio tra le panchine del cortile e il campo giochi, quel morso di terra invaso dalle erbacce dove i ragazzi buttavano le cartelle per fare le porte e giocare a pallone. Passavamo interi pomeriggi sedute sui marciapiedi grigi tra le palazzine: inventavamo storie o vendevamo paccottiglia ai passanti. Qualcuna portava le sue bambole, a qualcun’altra non era permesso e dovevamo darci appuntamento sotto il suo balcone a un’ora precisa per darle la possibilità di mostrarci da lontano l’ultimo acquisto. Qualche volta non andavamo per non darle soddisfazione. Eravamo tranquille, buone, educate tranne quando smettevamo di esserlo. Sempre meglio dei maschi, comunque.
I miei genitori si erano sposati a diciott’anni e io ero arrivata poco dopo, troppo poco agli occhi di chiunque. Li avevano perdonati, però, perché erano innamorati e bellissimi con occhi nocciola e capelli neri e folti come criniere. Col passare degli anni i vicini perdevano il lavoro, avevano figli da allattare o mantenere, cominciavano a tenersi la barba o la pancia, si sformavano in viso e sui fianchi. I miei no.
Mio padre andava al lavoro fischiando. Gli piaceva l’edicola e l’odore dei giornali appena stampati. Quando passavo a trovarlo mi dava la settimana enigmistica da portare subito a casa; era appena arrivata, non ce l’aveva ancora nessuno, diceva e mi faceva pure l’occhiolino, ma io lo sapevo che anche quello era per lei. L’amavamo moltissimo tutti e due, ma era naturale, un sentimento dovuto: nessuna donna delle palazzine era come Caterina.
All’uscita di scuola, le altre madri mi fermavano per chiedermi sorridendo della bella ragazza che mi aspettava al cancello. Era mia sorella grande? La raggiungevo di corsa, ci allontanavamo insieme, mi sentivo il loro sguardo sulla schiena che ci seguiva, serio.
Carmela, invece, la odiava. Aveva solo un anno più di me, ma già sapeva mescolare la perfidia ai gesti quotidiani in piccole dosi per renderli abbastanza amari da sopportare senza che sconfinassero in un’aperta ostilità. Quando Caterina passava per le scale, rimaneva seduta con il libro tra le mani, come se fosse stato impossibile interrompersi per farsi da parte. Se la incontravamo dal fruttivendolo, cercava di incrociare il mio sguardo poi increspava le labbra, baciando il nulla. Accanto a me Caterina scherzava con Michele per farsi mettere più odori nella busta.
C’era in quell’ostilità e in quelle smorfie un’accusa non detta e che neanche capivo. Qualcosa che aveva a che fare coi tacchi di Caterina o l’attenzione che il mondo le riservava.
Ricordo anche pomeriggi di pace, certo, quando giocavamo in cortile unendo i nostri pochi giocattoli. Allora mi sembrava quasi che fossimo amiche. Altre volte mia madre attraversava in fretta il cortile inseguendo qualche incombenza; Carmela aspettava che si allontanasse, poi prendeva la sua unica Barbie, le allargava le gambe, la faceva ondeggiare in una camminata oscena.
– Chi sono? – chiedeva. Le altre ridevano.
Stavamo in due classi diverse, ma pure la scuola mi doveva tradire.
La maestra Anna ci aveva insegnato La canzone del Piave: la conoscevamo tutti a memoria. Carmela si ritrovava una voce bellissima perciò la usava spesso, nei corridoi, in cortile o per le scale, cantando ovunque del Piave o così mi sembrava, finché non ho capito che il motivo era quello ma non le parole.
Michele mormorava calmo e placido al passaggio
di Caterina il 24 maggio
Era stupido. Era irritante. Ed era autunno quindi non c’entrava niente.
Eppure non lo raccontavo a casa perché di Carmela avevo paura. Non paura che mi picchiasse come capitava qualche volta con i ragazzi del rione quando pensavano che avessi due lire. Avevo paura per Caterina. A volte la sognavo che piangeva e mi chiedeva che voleva quella da lei.
Smisi di scendere in cortile. Bastava che mi vedesse sul balcone, però, che subito attaccava con la melodia senza parole e io sapevo che lo faceva perché tanto le parole ce le avrei messe io.
Poi, una sera.
Papà era a Macerata perché il nonno era caduto da una scala. Caterina aveva un che da fare, così, per non lasciarmi sola, mi ha spedito a casa di Carmela. Sua madre ci ha detto di finire i compiti e di fare le brave. Non è mai stato un problema per me.
Mentre cercavo di concentrarmi, lei ha ricominciato. Non mi è più capitato di sentirmi formicolare le mani così tanto, di afferrare qualcuno con la stessa forza. Con Carmela è stato facile: aveva ancora il grembiule addosso e il colletto sporgeva. Le ho sbattuto la testa sul pavimento e lei mi ha stretto i polsi. Ci siamo fissate per un po’, rancorose, ansimanti.
– Tua mamma è una zoccola.
– E chi lo dice?
Sua madre lo diceva.
Siamo salite per le scale di nascosto. Un po’ di sangue le macchiava il mento perché nella lotta s’era morsa un labbro. Non mi dispiaceva. Ci siamo sedute sulla rampa che andava al piano di sopra, dietro al muro, abbiamo aspettato. Dopo poco si è aperta la nostra porta di casa e Michele è uscito come se niente fosse. Gli sono andata dietro sul pianerottolo ma lui non se n’è accorto. Non riuscivo a muovermi e non ci sono riuscita neppure quando la porta si è aperta e Caterina è comparsa e ha fatto un piccolo salto all’indietro. Ci siamo guardate.
Allora ho sentito Carmela, la sua voce trionfante.
– Hai visto?
Poi tutto ha cominciato a crollare.
Se mi chiedono dell’Ottanta dico che non ricordo ed è vero: ero piccola, non ricordo. So solo che per me è stata una domanda a dare il via a tutto.
Hai visto che la tua famiglia va in pezzi?
Ho visto.
Decido adesso, su questa panchina, che a lui dirò di quando la mia paura più grande si è realizzata e ha crepato il palazzo. Gli dirò anche che non capivo allora, ma che adesso, passati i quaranta capisco.
E gli racconterò di mia madre che ci ha tenute strette me e Carmela e ci ha salvato la vita. Gli racconterò quella notte passata in macchina noi due sole, delle scosse del mondo fuori e di quelle senza fine nel mio petto, della mano di lei sulla mia testa, di quando ha detto dormi e tutto ha smesso di crollare e io mi sono addormentata mentre Caterina vegliava sulla nostra casa e la teneva in piedi finché papà non fosse tornato.
Mi ricordo il terremoto di 80. Mi ricordo le foto. Il mio sguardo. l’Italia mi sembrava un paese lontano. Vedevo ragazzi della mia età i capelli con il polvere. Smarriti davanti la casa affondata. Orfani della loro terra.
Olé hurrà làlàlà per il nuovo SUD