La battaglia di Karl Ove Knausgård
[Dopo Emmanuel Carrère, Julian Barnes e Donna Tartt, quest’anno il Premio Malaparte, giunto alla XVIII edizione, è andato a Karl Ove Knausgård, autore di Min Kamp, La mia battaglia, un’opera autobiografica in sei volumi, tre dei quali sono già editi in italiano per Feltrinelli: La morte del padre (2014), Un uomo innamorato (maggio 2015) e L’isola dell’infanzia (ottobre 2015).
Quello che segue è il testo scritto da Giuseppe Merlino, membro della giuria presieduta da Raffaele La Capria, e letto in occasione della premiazione; dato che L’isola dell’infanzia usciva in Italia in quegli stessi giorni, qui di seguito si fa riferimento ai soli primi due volumi dell’opera.
Per gentile concessione dell’autore. ot]
di Giuseppe Merlino
Quel che ora dirò dei libri di K.O. Knausgård – «La morte del Padre» e «Un uomo innamorato» – lo dirò con prudenza e con la tacita riserva che potrei smentirmi e rinnegare il discorso tenuto oggi, se i prossimi volumi della sua grande opera, intitolata «La mia battaglia», dovessero mettere in luce l’inconsistenza delle mie osservazioni.
K.O. Knausgård è norvegese, nato nel fatidico 1968, e da alcuni anni residente in Svezia. Come ha scritto egli stesso, la sua vita è stata determinata da due soli fattori: suo padre, e il fatto che egli non è mai appartenuto a nessun luogo. Una irrequietezza costante; e viene in mente che san Tommaso, elencando i sintomi dell’accidia – ovvero la malinconia dell’intellettuale –, indicava la instabilitas loci, ovvero la non appartenenza, la inquieta mobilità. Vedremo poi se questa accidia speciale riguarderà, o meno, Karl Ove Knausgård.
Dichiaro subito quale è, a mio parere, il tema dominante di questi due primi volumi.
Roland Barthes dedicò nel 1976 il suo primo corso al Collège de France al tema, immenso, del Comment vivre ensemble? (e scelse come traccia costante il monachesimo orientale, con la sua dialettica tra cenobiti ed eremiti). Il suo corso voleva rispondere alla domanda: «a che distanza devo stare dagli altri per instaurare con loro una socievolezza non alienata, e una solitudine che non sia un esilio?». La domanda di Barthes assilla anche Knausgård che ha scritto di considerare “i pasti, l’intimità e la vicinanza come dei mali necessari”. Dunque il grande tema, che tocca anche i temi più circoscritti, è la prossemica, e cioè la scienza che studia le diverse forme della distanza e della vicinanza tra gli umani, e che cerca un dosaggio di lontananza e di prossimità che non raffreddi troppi i rapporti, né li renda soffocanti.
K.O. Knausgård ha un’inclinazione, un desiderio o una necessità di solitudine che lo spinge fuori dalla casa verso una simbolica cella, ovvero una “stanza solo per lui”. La sua cella è la trascrizione spaziale dell’interiorità e non tollera intrusioni (neanche la familiarità dei camerieri dei caffé di Stoccolma!). Questi primi due libri sono insomma il resoconto di un’ansiosa e insoddisfatta ricerca di un’ars vivendi.
Il primo libro, «La morte del Padre», è dominato dapprima dal corpo indecifrabile e imprevedibile del Padre; da questo corpo – e dai suoi poteri, quasi magici, di rendersi impenetrabile, di conoscere le cose accadute al di là del suo sguardo, di comparire senza fare il minimo rumore di passi, di registrare l’invisibile – deriva l’osservazione costante e ansiosa da parte del figlio. Il Padre condivide alcune caratteristiche con Dio, l’onniveggenza e l’onnipresenza e, come lui, agita il cuore del figlio (anxietas cordis) intimorendolo. Timor Patris, come timor Dei.
Questo primo libro è dominato dal corpo morto, e ormai legnoso, del Padre; dai segni escrementizi lasciati dal suo lungo disfacimento, abbandono e tracollo fino all’agonia e alla morte. Il Padre resterà insepolto, in un deposito, per dieci anni, quindi non sarà del tutto morto, e sarà vendicativo come sapevano bene gli Antichi, per i quali il non-sepolto scatenava le Erinni. Accanto al corpo del Padre, come suo riflesso secondario, ma memorabile, c’è il corpo scarnito e non lavato della Nonna, compagna incolpevole della caduta del figlio, testimone unica e silenziosa di quell’evento innominabile.
Il secondo libro, «Un uomo innamorato», tiene insieme molte rubriche.
L’apparizione di Linda e la passione impetuosa che ne scaturì; un’apparizione feconda di felicità: una folgorazione con beatitudine; è il discorso amoroso.
La vita domestica vissuta – a intermittenza – come una tirannia gravosa, e come esercizio ascetico per il miglioramento di se stesso; è la colluttazione etica.
Il cambio di Nazione – dalla Norvegia alla Svezia – che implica un’esperienza nuova di ipermodernità, di ipercorrettezza civica e di iperintellettualizzazione della vita; è il discorso sulle ideologie e i loro decaloghi.
La consuetudine di incontri con l’amico Geir Gulliksen, brillantissima voce saggistica e critico insuperabile delle forme sociali svedesi, formatosi alla migliore cultura antiliberale; è il discorso dell’amicizia.
E il rovello della propria scrittura, dapprima paralizzata e infelice, e poi fluida e abbondante come un fiume fragoroso; è il discorso delle Muse: inaffidabili e poi munifiche.
L’opera di K.O. Knausgård è apertamente autobiografica, laddove Proust, al quale è stato più volte accostato, chiede insistentemente di non giudicare mai il suo romanzo come un’autobiografia mascherata, e si affretta a scomparire dietro un Eroe ingenuo, un accudito da un Narratore perspicace.
Knausgård dichiara il suo intento autobiografico, senza alcun cedimento all’autofiction, così diffusa oggi, e cioè, a una autobiografia semifittizia. Knausgård, autobiografo, non scrive le Confessioni, come fece sant’Agostino, perché la sua non è una lunga lettera a Dio; non scrive un autoritratto, umanistico ed erudito, come Montaigne; né scrive un Mémoire al modo seicentesco perché non si cura della propria immagine presso i posteri; né scrive un’autobiografia che lo proponga come modello esemplare a un’Europa malata di troppa civiltà come fu il meraviglioso, settecentesco e spudorato libro di Jean-Jacques Rousseau.
E che cosa è, allora, questo lungo libro di K.O. Knausgård? E’ una battagliera Ricerca sulla propria esistenza, che, procedendo, imbarca ogni genere di materiali, di mezzi e di forme; che è narrativa, digressiva, retrospettiva e saggistica. Knausgård, un vero protestante, come gli dice il suo amico Gulliksen, tiene fede al duro patto dell’autobiografo con il lettore: ti dirò tutto di me.
La sua è una Ricerca della parte di verità che si annida in alcune parole che lo riguardano molto da vicino: paternità (vissuta da figlio e da padre), coniugalità, socialità, letteratura, finzione, morale, e altre ancora. K.O. Knausgård, come Proust, è un cercatore di essenze, ma che differenza tra le essenze dell’uno e quelle dell’altro! Proust cerca le grandiose essenze del Tempo e del Bello, intraviste nel dormiveglia, fugacemente emerse dall’oblio, e infine offerte nei momenti di estasi, cortocircuiti di sensazioni e memoria. La grande dimostrazione di questa Recherche finita bene si trova nel Tempo Ritrovato dove si proclama l’avvio dell’opera che abbiamo appena finito di leggere. Avvio fragile perché incombe la Morte.
Karl Ove Knausgård, come un filosofo medievale, cerca i realia, le realtà corporee e materiali, i volti, i gesti, i climi, i paesaggi, le evidenze millenarie, le realtà indiscutibili eppure svanite ora nel predominio delle immagini e nel primato moderno dello “spirito”: non più corpi, ma solo idee sui corpi. Egli cerca rocce nel mondo che è diventato liquido.
Le duecentocinquanta pagine del primo volume dedicate alla morte del Padre sono un formidabile esempio di questa sua ricerca. Il lordume sparso in tutta la casa dove il Padre è morto gonfio di alcol e di solitudine, la putredine, il fetore, l’alterazione mentale della Nonna, tutto è raccontato in termini visivi, tattili, olfattivi, corporei, materiali: anche lo strano dolore che prova Karl Ove si materializza in lacrime irreprensibili e copiose, senza discorsi.
E materiale sarà anche il racconto della ostinata purificazione della casa, grazie ai detersivi nominati di continuo e usati in abbondanza. I detersivi puliscono e riparano lo sfacelo, ma sono anche gli agenti insidiosi della contemporaneità: spalmano sul nostro mondo un identico olezzo, gradevole e falso; uniformano e confondono.
Ho detto del genere autobiografico della grande opera di Knausgård; ora direi una parola sul genere diario (nato del resto negli ambienti del pietismo nordico), che la riguarda e che piace all’autore. Del Diario, Knausgård abolisce la regola dell’annotazione quotidiana, ma accetta pienamente l’altra: la coesistenza di episodi e descrizioni minime, irrilevanti e impercettibili, con fatti memorabili e avvenimenti gravidi di conseguenze. Il risultato è un flusso, non una composizione gerarchica. Come il diarista, egli è un osservatore tenace del quotidiano e della ripetizione; un annotatore che verbalizza il vissuto e il pensato, che è cronista e analista. Come il diarista egli pratica la digressione, ma in maniera ampia e connessa col testo, e non stenografica come richiede il diario la cui misura è la pagina. La forma diario funziona anche da pro-memoria, aiuta il ricordo che in Knausgård è fluttuante e soggetto a profonde e vaste dimenticanze. Il diario è anche un’umile prova della esistenza di chi lo scrive, e forse perciò Knausgård si obbliga a osservare l’antico precetto del nulla dies sine linea, accompagnato da un cogito che suonerebbe così: scribo ergo sum.
Molte cose ancora mi piacerebbe poter dire sull’imbarazzo sociale di Knausgård, sulla sua imbranataggine maschile; sulla strategia della compiacenza da lui scelta, ovvero l’assunzione della mitigata menzogna, il mendacium officiosum come la chiamavano i moralisti, scusandola perché favoriva le relazioni sociali; sull’orrore provato per la propria femminilizzazione di padre casalingo, mentre in lui “si agita un furibondo maschio dell’Ottocento”; sull’innocenza che gli attribuisce l’amico Gulliksen; sui quadri da lui preferiti, che sono scandagli di strati dell’esistenza: Il Baro di Caravaggio, l’ultimo autoritratto di Rembrandt e un paesaggio di nuvole di Turner; e così via.
Ma non posso dilungarmi oltre e concludo con un’ultima, rapida osservazione. Definirei, provvisoriamente, l’opera di Knausgård come l’opera di un anti-moderno. Chi è l’anti-moderno, oggi? e restringo la parola alla vita intellettuale. E’ colui che sa che un mondo, una cultura o un’arte sono finiti, ma li ama ancora e li frequenta. Come disse Barthes di se stesso, essi sono la retroguardia dell’avanguardia.
L’anti-moderno stenta a uscire dal lutto per il passato e vive, in una tonalità malinconica che lo rende lucido e libero rispetto al moderno. Gli anti-moderni sono dei moderni sagaci e disillusi. L’esempio più lampante è Baudelaire che inventa la prima idea di moderno e si distoglie da essa.
A me sembra che Knausgård racconta e vive le sue tribolazioni morali dentro questa condizione intellettuale ed emotiva, e ha scritto perciò un’opera singolare, dissidente, avvincente e lungimirante.
“Chi è l’anti-moderno, oggi? e restringo la parola alla vita intellettuale. È colui che sa che un mondo, una cultura o un’arte sono finiti, ma li ama ancora e li frequenta. Come disse Barthes di se stesso, essi sono la retroguardia dell’avanguardia.
L’anti-moderno stenta a uscire dal lutto per il passato e vive, in una tonalità malinconica che lo rende lucido e libero rispetto al moderno. Gli anti-moderni sono dei moderni sagaci e disillusi. L’esempio più lampante è Baudelaire che inventa la prima idea di moderno e si distoglie da essa.”