La «Garduña» e le mafie. Ogni origine ha un mito
di Antonella Falco
La Garduña è una leggendaria società segreta di matrice criminale che avrebbe svolto la sua attività in Spagna e nelle colonie spagnole del Sudamerica in un arco di tempo compreso fra la metà del XV e il XIX secolo. Proprio alla Garduña è dedicato un interessante saggio di Marta Maddalon e John Trumper dal titolo La costruzione del racconto: la “vera” invenzione della Garduña, uscito sul numero 69 de La ricerca folclorica.
John Trumper, studioso di glottologia e linguistica generale, ha pubblicato numerosi saggi di fonetica e fonologia, dialettologia romanza e italiana, sociolinguistica e linguistica applicata. Si è inoltre occupato di etnolinguistica e linguistica storica, di fonetica giudiziaria e di gerghi di mestiere. Marta Maddalon è studiosa di linguistica e sociolinguistica. I suoi interessi di ricerca riguardanti la sociolinguistica, l’etnolinguistica e lo studio della lingua e dei suoi dialetti l’hanno portata a pubblicare testi sull’analisi degli usi linguistici nell’Italia contemporanea e saggi sul fenomeno della rivendicazione identitaria mediata dalla lingua come nel recente Ventimila leghe. Immersione negli usi linguistici dei movimenti politici dell’Italia contemporanea (Aracne, 2013). Maddalon e Trumper non sono nuovi agli studi sulla lingua delle organizzazioni mafiose, infatti nel 2014, insieme al magistrato Nicola Gratteri e allo storico delle organizzazioni criminali (nonché uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta a livello internazionale) Antonio Nicaso, hanno dato alle stampe il saggio Male lingue. Vecchi e nuovi codici delle mafie (Pellegrini Editore).
I due autori partono dalla constatazione che la storia della Garduña è presente «nelle leggende e nei canti popolari della Calabria» – constatazione suffragata da alcuni libri sia italiani che stranieri, anche molto recenti, quale ad esempio il volume Made Men di Antonio Nicaso e Marcel Danesi. Anche nel volume di Enzo Ciconte ‘Ndrangheta dall’unità ad oggi (del 1992, dunque meno recente dell’altro, uscito nel 2014) si fa riferimento ad una «nota associazione fondata a Toledo nel 1412, la Garduna» e ai cavalieri facenti parte di tale associazione, i quali «dalle loro terre, quelle della Catalogna, portarono nel Mezzogiorno d’Italia alcuni metodi in uso in quella consorteria. Si racconta che lavorarono per 29 anni, sottoterra, di nascosto da tutti, per approntare le regole sociali della nuova associazione che avevano in animo di costituire. La sede da loro prescelta fu l’isola della Favignana. Da lì, dopo un lavoro trentennale, decisero di dividere in tre tronconi l’associazione che, da quel momento, si insediò stabilmente nelle regioni meridionali, e si denominò mafia in Sicilia, camorra nel napoletano e ‘ndrangheta in Calabria. È un’antica leggenda, di cui non esistono molte tracce scritte, che si è tramandata oralmente…».
Si tratta per lo più di testi che descrivono dettagliatamente l’organizzazione della società (i livelli in cui si articolerebbe e i vari ruoli e denominazioni presenti al suo interno) e che oscillano tra la tentazione di dare consistenza realistica alla Garduña e l’ammissione del suo essere sostanzialmente una invenzione letteraria assunta però come mito di fondazione dalla mafia calabrese. Trattare il tema della Garduña e dimostrare la sua identità prettamente letteraria ha ovviamente comportato per gli autori del saggio uno studio attento della storia e della letteratura spagnola dal XV al XIX secolo.
In tutte le narrazioni sulla camorra fiorite dall’Ottocento in poi si fa riferimento molto spesso a un testo intitolato Misteri dell’Inquisizione ed altre società segrete di Spagna, per V. de Féréal, con note storiche ed una introduzione di Manuel de Cuendias e con estratti relativi a quest’opera di Edgardo Quinet. Prima versione italiana, Parigi, a spese dell’editore 1847. Sarebbe questa la traduzione italiana di un testo francese del 1845 poi tradotto anche in spagnolo. Questo testo sarebbe da considerarsi una «narrazione romanzesca», cosa tra l’altro espressamente dichiarata dagli autori, che a loro volta potrebbero celarsi dietro degli pseudonimi. Fra questi potrebbe trovarsi una nobildonna tedesca nota con il nome di Madame de Suberwick, la quale per scrivere il suo libro avrebbe viaggiato in Spagna travestita da uomo. Sempre a Madame de Suberwick sarebbe riconducibile un altro testo dal titolo tanto inquietante quanto satirico di Conseils de Satan aux Jésuites, la cui autrice è stavolta denominata Madame de Beelzebuth. Ma secondo gli studiosi spagnoli l’unico personaggio la cui reale esistenza sia storicamente provata è Cuendias, il quale avrebbe anche scritto un progetto di Costituzione progressista conservata nella Biblioteca Nazionale di Madrid. Sempre secondo gli studiosi cui Trumper e Maddalon fanno riferimento si tratterebbe comunque di personaggi – forse di un collettivo – accomunati da un atteggiamento strenuamente anticlericale.
«Quello che è ancora più certo» – scrivono Trumper e Maddalon – «è che rapporti diretti di derivazione, tra società segrete spagnole, vere o letterarie, e organizzazioni criminali storiche italiane non ve ne sono, affermazione che non nega o sottovaluta l’aspetto storico degli influssi dovuti al periodo del Viceregno nel Regno delle Due Sicilie. Vi è invece, come commentano da molto tempo gli storici che si sono occupati della storia dell’Inquisizione, la creazione di un Racconto intorno a questa istituzione, che va ben al di là della sua reale esistenza e del suo modo di operare. Ciò fece sì che nel XVI secolo, a fronte di una rivoluzione di tipo confessionale che viene assumendo una dimensione politica, l’Inquisizione, o meglio la sua immagine letteraria, divenne il simbolo del nemico della libertà politica, a rappresentare cioè i pericoli dell’innaturale alleanza tra il Trono e l’Altare».
L’Inquisizione viene così a incarnare un’entità reazionaria che si oppone al progresso e che «rappresenta l’eccessivo potere temporale della religione». Nel corso del XIX secolo essa diventa protagonista di numerose narrazioni romanzesche il cui scopo politico risulta ben evidente. Tale fenomeno interessa varie nazioni europee, tutte «accomunate da un contrasto politico che coinvolge spinte clericali e anticlericali».
La narrazione di un «perverso piano inquisitoriale» finisce per confluire anche nei codici ‘ndranghetisti: è quanto avviene nel cosiddetto Codice di Pellaro, un manoscritto sequestrato appunto nel territorio di Pellaro in data 22 marzo 1934 e intitolato Origine dei tre cavalieri di Spagna. In esso sono contenute le norme relative alla fondazione della Società di Malavita e quelle relative alla gerarchia che regola l’organizzazione degli affiliati. La parte iniziale di tale codice sembra essere molto simile a un romanzo di cappa e spada o di appendice. Ad ogni modo sembra fuori di dubbio che chi lo ha scritto abbia letto i Misteri. In questo tipo di racconti, inoltre, si evince sia in Spagna che in Francia la complessa organizzazione gerarchica delle associazioni criminali menzionate, di cui Maddalon e Trumper forniscono una dettagliata terminologia. Bisogna inoltre sottolineare come «le associazioni criminali protagoniste di questo filone letterario derivano, come nel caso spagnolo, da vicende reali».
Sebbene sia qualcosa di diverso, anche il banditismo, specie quello sociale, fornisce materiale per trasposizioni letterarie: «banditi e briganti sono molto radicati nella cultura popolare e celebrati in un filone musicale, talvolta di buon livello, che vede anche trasposizioni contemporanee».
Tra i rimandi letterari non si può tacere di quello relativo a Cervantes, chiamato in causa dagli autori (o dall’autore) dei Misteri, infatti «per dare spessore storico alla descrizione della Garduña, si ricorda che è precisamente in un delizioso racconto dell’autore del Don Chischiotte che si incontra Manipodio, il capo della società dei ladri di Siviglia».
Pertanto, i due autori del saggio si dicono convinti che «alla luce di questo rimando, la fonte di tale filone interpretativo per l’origine della camorra e per il Racconto dei Codici possa essere definitivamente identificata».
Tra gli autori ottocenteschi che sostengono la filiazione della criminalità del Meridione italiano dalle forme spagnole, Maddalon e Trumper citano Marc Monnier, Emanuele Mirabella e Abele De Blasio a cui aggiungono l’anonimo autore di un testo intitolato Natura e origine della misteriosa setta della camorra (nelle sue diverse sezioni e paranze, linguaggio convenzionale di essa usi e leggi). Uno dei capitoli è proprio incentrato sulla lingua e si intitola Lingua furfantina dei camorristi. È comunque interessante notare come tutti gli studi dell’epoca sull’argomento diano grande risalto agli aspetti linguistici. Degli altri autori citati il più noto risulta essere Monnier il quale è menzionato in molti testi sulle associazioni criminali meridionali, mentre, sempre basandoci sui testi, risulta completamente sconosciuto l’altro autore, Mirabella, il quale però «scrive l’opera più completa sul gergo criminale dei prigionieri e dei condannati al soggiorno obbligato». Mirabella inoltre ebbe modo di vivere per diversi anni a contatto dei prigionieri di Favignana in quanto medico della colonia penale.
Altro testo di una certa importanza risulta essere Usi e costumi dei camorristi di De Blasio, contenente «esempi di codici e dell’assetto dell’organizzazione camorristica» sia dentro che fuori dalle carceri, assetti che sono tra l’altro «perfettamente rispondenti a quelli ‘ndranghetisti».
Per quanto riguarda una filiazione diretta dalla Spagna, Monnier pur non trovando prove documentali sostiene che le «estorsioni» dei criminali meridionali erano già presenti fin dal tempo della dominazione spagnola. Sia pure in mancanza di «prove dirimenti» questi testi, come scrive Nappi nel suo saggio Il mito delle origini spagnole della camorra tra letteratura e storia, «accogliendo talvolta qualche variazione leggendaria sul tema delle origini ispaniche della camorra, chiameranno quasi sempre in causa la suddetta compagnia segreta variandone la dizione in Guarduña, Guarduna, Garduña o infine nel corretto Garduña».
Non ci sono dubbi circa il fatto che Monnier conosca i Misteri, libro che «fornisce lo spunto per i riferimenti, divenuti obbligatori, a Cervantes, e all’ormai inflazionata novella Rinconete y Cortadillo e a vari episodi del Don Chisciotte».
Anche De Blasio pur sostenendo di non occuparsi dell’etimologia della parola camorra fa notare come essa non sia che la Garduna «che fu introdotta in queste nostre provincie nell’epoca in cui il Regno di Napoli e Sicilia rimase soggetto […] allo scettro di Spagna e governato da Vicerè, che ridussero il popolo povero e servo».
Maddalon e Trumper ricordano come molti autori, antichi e moderni, citando Cervantes avvalorino la tesi secondo cui il noto scrittore spagnolo abbia, nel suo romanzo più famoso, descritto in modo quasi storico-antropologico una serie di comportamenti e di associazioni che dimostrerebbero l’esistenza di “sette” criminali, cosa appunto sostenuta nei Misteri. A proposito dell’episodio di Sancho governatore, ad esempio, si parla del “barato”, ossia l’usanza di pretendere il pizzo sul gioco. Sul termine “barato” si concentra il commento linguistico di Maddalon e Trumper presente nella seconda parte del saggio che stiamo esaminando. Prima di soffermarci su tale trattazione etnolinguistica è bene però ricordare, come fanno gli stessi autori, una altro passo di Cervantes utile ai fini dell’argomento affrontato. Si tratta di un episodio che si colloca nel XV capitolo ed è incentrato sull’incontro con il bandito Roque Guinart. Di costui parla in un suo commento Don Juan Antonio Pellicer, accademico della Reale Accademia di Storia, il quale coglie l’occasione «per parlare della presenza di bande di briganti che infestavano realmente la Sierra della Cabilla, in particolare una, denominata Beatos de Cabilla, i cui membri erano così chiamati in virtù del fatto che si limitavano a esigere solo una parte degli averi delle loro vittime, circoscrivendo quindi il danno e meritandosi per questo l’epiteto di “Beati”». È bene far notare che un certo Perot Rocaguinarda è esistito realmente, e aveva fama di bandito gentiluomo: su tale modello Cervantes avrebbe delineato il carattere del personaggio presente nel suo romanzo. Questa categoria di banditi che mescolavano crimini e azioni caritatevoli, religione ed empietà, era diffusa, a detta degli storici, in diversi paesi.
Agli occhi dei primi meridionalisti, quali Villari e Tranfaglia, la camorra – come anche la ‘ndrangheta e la mafia – assumerebbe il ruolo, contemporaneamente, di protettore e oppressore di una plebe povera e abbandonata a se stessa dal governo borbonico. Oltre a svolgere un ruolo “protettivo”, la camorra si farebbe anche «rappresentante dei loro interessi e della loro cultura», il che darebbe adito alla figura del bandito “buono” che incarnerebbe una forma di «giustizia alternativa». Secondo John Dickie, invece, la ‘ndrangheta sarebbe da intendere come una sorta di «filiale» della camorra di cui riprenderebbe il Racconto e la mitopoiesi. La sua origine sarebbe in tal caso spostata in un periodo più tardo, quello post-unitario e se ne rintraccerebbero con difficoltà «i precedenti storici e linguistici».
Maddalon e Trumper citano tra gli altri un saggio di Nicola Sales, pubblicato sulla rivista Limes nel novembre del 2014, un saggio che ha avuto ampia risonanza in quanto ha visto la partecipazione di Roberto Saviano. Ecco come Sales sintetizza la questione: «Dunque, tutte e tre le organizzazioni criminali nascono nello stesso periodo storico, all’inizio dell’Ottocento, a ridosso della fine del feudalesimo (nel 1860 a Napoli e nelle province continentali, nel 1812 in Sicilia), a imitazione delle associazioni politiche segrete in cui gli oppositori al regime assolutistico borbonico si erano organizzati. […] Le associazioni criminali, che poi chiameremo mafie, si organizzano sul modello politico delle sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi».
Maddalon e Trumper, pur annotando le perplessità circa l’uso della parola “feudalesimo” nell’accezione utilizzata da Sales e sull’analisi politica da questi compiuta, si soffermano principalmente sull’attribuzione «di un ruolo primario all’influenza di sette segrete dei ceti aristocratici e borghesi», sostenendo che «la discussione sulla segretezza, in cui la lingua gioca una parte preponderante, non disgiunta dalla definizione di “setta”, spesso usata a sproposito, ha il demerito di allontanare da una corretta definizione dei fenomeni coinvolti, non ultimo quella del gergo».
Per quanto concerne i motivi per cui potrebbero trovarsi dei riscontri tra il Racconto dei codici ‘ndranghetisti (i cui primi esemplari risalgono, sia culturalmente che linguisticamente, alla permanenza nelle carceri oppure al soggiorno coatto) e gli antecedenti letterari, Maddalon e Trumper ricordano che sia i romanzi d’appendice, che quelli di cappa e spada, nonché gli strani testi di cui i due studiosi hanno dato conto nelle pagine iniziali del loro saggio, avevano una larga diffusione presso i ceti popolari e anche nelle carceri. Inoltre, i due linguisti fanno notare come sia prassi comune di molte società, non necessariamente vicine o collegate, trasfondere in ambito letterario, epico e/o musicale, le figure e le gesta dei banditi. Capita anzi, come nota Eric Hobsbawm nel suo Bandits, che le classi subalterne li eleggano a propri eroi. Il fatto poi che questi banditi riescano a coniugare la violenza con le spinte ribellistiche e l’atteggiamento solidale e soccorrevole nei confronti dei più deboli, concorrono a spiegare la creazione di una siffatta figura letteraria. Questi banditi inoltre facevano un largo uso di simboli religiosi ed erano molto superstiziosi. Tali comportamenti risultano diffusi su ampia scala, vale a dire si ritrovano in tutte le descrizioni della figura del bandito in qualsiasi Paese europeo, questo però non porta alla conclusione di un «rapporto diretto di derivazione nel caso della criminalità organizzata italiana» ma solo al fatto che esistono comportamenti pressoché universali di cui l’antropologia culturale fornisce ampio conto. Naturalmente il mito creatosi attorno ai briganti e ai banditi romantici serve a rafforzare l’aura di protettori della povera gente e difensori degli oppressi al punto da renderli protagonisti di racconti e di canti popolari. Questi fenomeni storicamente connotati si sono radicati nell’ambito della cultura popolare e poi sono passati nella letteratura “colta” già ai tempi di Cervantes. Quando si parla codici ‘ndranghetisti bisogna aver chiaro che essi sono una molteplicità di cose e vanno pertanto studiati con notevole rigore. Essi sono infatti, tra le altre cose, «una creazione letteraria, che attinge da fonti popolari ben radicate; sono l’invenzione di un Mito di fondazione, sono un modello per sancire un’appartenenza». Ma non sono solo questo. È bene ricordare che si tratta di «un’invenzione relativamente recente». Maddalon e Trumper riconoscono pertanto che «non è stato facile ricostruire la serie di incastri, di nomi e di nomi in codice (pseudonimi), degli scherzi e delle (mezze) verità; è stato come seguire le trame dei romanzi d’appendice, in cui ad ogni scoperta seguiva la sua negazione, ogni agnizione introduceva nuove scoperte, e così via puntata dopo puntata».
Nella seconda parte del loro saggio Maddalon e Trumper si soffermano innanzitutto sul fatto che indicare una data di nascita precisa, il 1427, per la Garduña – dalla quale poi sarebbero derivate la camorra napoletana e la ‘ndrangheta e i suoi codici – è cosa che lascia assai perplessi. Solitamente quando si parla della nascita di un fenomeno sociale si indica il periodo storico e non una data precisa, indicare quest’ultima implicherebbe infatti «un atto fondativo formale e registrato». Già questo avrebbe dovuto mettere in guardia i commentatori e portarli a diffidare del carattere “storico” del racconto, da intendersi piuttosto in maniera simbolica. Lo stesso discorso vale per la “Bella Società Riformata” – dove “riformata” significherebbe “confederata” – la quale, in base ad alcune fonti, sarebbe nata ufficialmente nel 1820. Luogo di nascita di questa «setta» sarebbe stato la chiesa napoletana di Santa Caterina a Formiello, dove gli esponenti della camorra dei dodici quartieri di Napoli stabilirono nell’ambito di una solenne cerimonia lo statuto della nuova associazione, stabilendo anche che il «capintesta» dovesse essere nativo del quartiere di Porta Capuana, cosa questa fatta ad imitazione delle usanze aristocratiche che per secoli avevano riservato la dignità di Presidente degli Eletti del Popolo (carica soppressa nell’aprile del 1800) al cosiddetto «Sedil Capuano». La Bella Società Riformata sarebbe stata sciolta il 25 maggio 1915, all’indomani dello scoppio della prima guerra mondiale, per volontà del capo camorrista Gaetano Del Giudice. Fu così che durante tutto il periodo fascista non si sentì più parlare di camorra: si continuò a delinquere ma senza avere alle spalle un’organizzazione.
Secondo Maddalon e Trumper l’idea di una associazione criminale organizzata come una setta o una società vera e propria, munita pertanto di statuto e cariche, risulta assai poco verosimile. Anche in questo caso viene da pensare a un Racconto creato a posteriori e poi tramandato.
Nelle opere letterarie e nelle cronache si trova notizia anche di un’altra organizzazione criminale nota come Germanìa: secondo Caro Baroja sarebbe esistita sia una Germanìa carceraria, «che era non solo un gergo ma anche un sistema», sia una Germanìa esterna alle carceri i cui metodi sarebbero stati gli stessi di quelli utilizzati per fondare la Garduña. Si trova un riferimento alla Germanìa anche nel Rinconete y Cortadillo di Cervantes.
Per quanto concerne l’ambito italiano i due studiosi precisano che il mondo carcerario pur non costituendo l’unica origine delle organizzazioni criminali, fornisce comunque ad esse alcune regole e caratteristiche, nonché una certa organizzazione e una certa simbologia.
Da un punto di vista più strettamente linguistico “Garduña” è termine che ricorre anche in un toponimo: Sierra de Garduña. Nel senso attinente all’organizzazione criminale, la parola viene citata e glossata originariamente proprio dagli autori che ne parlano nei loro testi. Garduña è termine connesso con la parola “garda” e in ultima istanza, attraverso vari passaggi, il suo significato è riconducibile a termini quali “ladra” e “meretrice”. Il termine non sembra essere presente al di fuori dei già citati Misteri e nelle riprese degli autori italiani. Tuttavia esiste un’opera letteraria non tradotta in italiano e pertanto poco nota, che si intitola La Garduña de Sevilla y anzuelo de las bolsas ed è stata scritta da Alonso De Castillo Solórzano nel 1642. L’espressione “anzuelo de las bolsas” sarebbe da tradurre come “gancio delle borse” e sarebbe l’attrezzo usato da una borsaiola, infatti, come si è ricordato poc’anzi, “garduña” significherebbe “ladra”. Tuttavia la novella – ascrivibile al genere, assai praticato in ambito narrativo, della fanciulla che con abilità e astuzia riesce a volgere al meglio la propria sfortuna – non avrebbe nulla a che fare con la camorra.
Un altro termine sul quale si soffermano Trumper e Maddalon è “barattolo”. A questo proposito i due studiosi precisano che mentre «il lessico dei dialetti siciliani è permeato di ispanismi […] nel caso della Calabria, al contrario, i casi sono decisamente pochi, dai nostri studi più recenti non più di una cinquantina». Per quanto riguarda l’ambito napoletano sono annoverate 85-90 basi ispaniche assolutamente certe. Dunque « mentre il siciliano è ancora permeato di ispanismi» napoletano e calabrese lo sono assai meno. Il termine “barattolo” indicherebbe la cassa comune della malavita e corrisponderebbe al termine ‘ndranghetista “baciletta”. «Il barattolo è organizzato dal “contarulo”» il quale aveva il compito di tenere il registro e segnare l’ammontare del barattolo. Secondo i due studiosi piuttosto che concentrarsi sul concetto di “frode” e di “maltolto” sarebbe preferibile concentrarsi sul “barattolo” inteso come “contenitore”. Il termine ha la sua prima attestazione in siciliano nel 1750, in napoletano nel 1840, ma è presente nel toscano già dalla fine del ‘500. In Calabria comparirebbe nel 1895, sebbene la primissima attestazione, secondo il Glossario Latino Italiano di Pietro Sella risalirebbe al 1449 e in generale sarebbe «riconducibile al Centro-Sud Italia». Nell’Ottocento gli studiosi siciliani ritenevano il termine come un arabismo giunto a noi attraverso lo spagnolo rigettando l’origine nord-italiana proposta da Battisti e Devoto.
Altro termine su cui si soffermano Maddalon e Trumper è “barratteria”. In molti passi della sua opera Monnier ipotizzava che la barratteria napoletana fosse di origine spagnola. Mortillaro e De Ritis mettono in relazione il termine con il racconto dell’Isola di Baratteria DI Sancho Pança in Cervantes, passo che anche Monnier cita e che è commentato da Nappi. Quella che viene ipotizzata è una deriva semantica che da “traffico commerciale” e ”cambio” conduce a “frode”. In Calabria il verbo “barattare” risulta attestato dal 1466 ma non il derivato sostantivo “barattaria”. In italiano il DEI attesta “baratteria” nel Trecento nell’uso dantesco di “frode da barattiere”, mentre la Tabula Amalfitana lo attesta nei secoli ‘300-‘400 nel significato di «frode a danno dei proprietari di nave o degli armatori, e nel Settecento la si ritrova nel senso di ‘rivendita’ o ‘rivenderia’ di cose scambiate con o senza frode a più basso prezzo». In Francia la voce “baraterie” risulta attestata già nel primo Trecento ma sembra che la primogenitura del termine spetti alla Provenza. L’accezione negativa di questa parole potrebbe, nel Meridione d’Italia e segnatamente in Calabria e Sicilia, dipendere da «un’influenza formale e semantica del bizantino». A proposito di questo termine Maddalon e Trumper giungono quindi alla seguente conclusione: «Più che un’origine spagnola, pensiamo, dunque, a un antico provenzalismo con sviluppi semantici particolari avvenuti nell’Italia meridionale».
L’ultimo termine su cui si sofferma l’indagine dei due studiosi è “frieno” da loro definito come «uno dei misteri ancora non completamente svelati nel lessico criminale». «La forma, ancor più del significato e dell’origine, resta problematica; il dittongo – ie – non corrisponde a nessun esito usuale o previsto. La voce non ricorre in Monnier ma è attestata almeno otto volte nell’opera di De Blasio, con il significato di ‘regola’ (singola) o ‘regolamento’; ‘statuto’ (insieme di regole) della società criminale organizzata, denominata poi Camorra». I dizionari siciliani e calabresi dell’Ottocento danno al termine “camorra” il significato di “cavezza”, “briglia” in riferimento agli equini oppure quello di “morso” e “freno del carro”, mentre i dizionari dialettali napoletani sia del Settecento che dell’Ottocento sembrano non avere questo lemma e registrano solo un generico “frino” per “freno”. Secondo Trumper e Maddalon la “camarra” attestata nell’estremo meridione d’Italia sarebbe da confrontare con il termine castigliano “gamarra” che significa “sottopancia di equino”, “cavezza”. Il “freno” inteso come singola regola o come regolamento e statuto sarebbe attestato solo in fonti circoscritte all’Ottocento e riguardanti Napoli e la camorra, «mentre nel Medio Evo vi sono fonti provenzali e catalane che danno estensioni semantiche di simile natura: ‘freno naturale’, ‘il regolamentarsi’ […] Supporre una qualunque origine tanto remota e varia è piuttosto inutile, per cui, il mistero permane».
Per quanto concerne la “Germanìa”, essa è probabilmente l’unica organizzazione spagnola, sia carceraria che esterna, ad aver avuto un’esistenza reale e non solo letteraria. Essa è da intendersi come «un fenomeno autenticamente spagnolo, che ha origine tra Quattro e Cinquecento». Dal punto di vista terminologico potrebbe trattarsi di un catalanismo con il significato di “confraternita” risalente al tardo Quattrocento e indicante gruppi rivoluzionari di Nobili Catalani di Valenzia, tuttavia, concludono i due autori del saggio «Questo nome non ha mai avuto diffusione fuori della penisola iberica e dei paesi di lingua spagnola».