Due calci al pallone
(il più breve, e a modo suo malinconico, fra gli Incontri ravvicinati di tutti i tipi raccontati fin’ora. G.B.)
di Alberto Tonti
Quando entro da Mauro il Bolognese sono già tutti a tavola da una buona mezz’ora. Le proteste per il ritardo si sprecano, mi giustifico raccontando che la riunione a Torino è durata più del previsto, che sull’autostrada c’era traffico, che ci ho messo venti minuti a trovare parcheggio, ma nessuno ci crede. Occupo la sedia vuota e ordino tortellini al ragù, una coca cola e, in attesa del primo, un po’ di mortadella a tocchetti.
Laura mi presenta un paio di sue amiche senza ricordarsi che una già la conosco: molto affascinante ma anche molto sprucida ( se volessi usare un termine del lessico personale) scostante per farmi comprendere meglio. Purtroppo il posto libero che ho occupato è quello accanto a lei e la cosa mi mette di cattivo umore.
“Beh, almeno racconta cosa ci facevi a Torino.”
E’ lei che, sorridendo amabilmente, mi rivolge per prima la parola. Mi meraviglio per due motivi: il fatto che abbia aperto bocca e che, rispetto al nostro unico incontro, il suo atteggiamento sia esattamente l’opposto.
Quando non mastico, fra un boccone di pane e uno di mortadella, spiego in sintesi cosa ci faccio a Torino e tento di cambiar discorso, ma lei incalza e, sempre con un delizioso sorriso, mi invita ad approfondire perché dice: “mi interessa.”
Tiro un lungo sgarbato sospiro e racconto tutto nei minimi particolari e, alla fine, mentre loro sono già alla frutta, mi avvento sui tortellini. I discorsi a tavola si intrecciano e scopro lentamente che la signorina non è affatto indisponente e, soprattutto, mi guarda come raramente qualcuna mi ha guardato.
“Che bello l’orologio che hai al polso, cos’è? Posso vederlo?” mi dice sfiorandomi la mano.
“E’ un Citizen, tutta plastica, ma ha un design nuovo ed è subacqueo” le dico mentre slaccio il cinturino per porgerglielo.
“Molto carino” dice mentre lo immerge nel suo bicchier d’acqua. “Vediamo se è veramente waterproof!”
La reazione spontanea sarebbe quella di dirle “che cazzo fai!” ma, siccome mi fido ciecamente della tecnologia giapponese, abbozzo un mezzo sorriso e, quando lo tira fuori dall’acqua, lo asciuga per bene col tovagliolo e me lo rimette al polso, ringraziandola le do un bacetto sulla guancia. Diventa rossa in viso e solo allora capisco che non è sprucida, è solo molto timida e, va detto, mi piace un sacco.
Per la verità da qualche settimana mi sono invaghito di una stupenda giornalista, che è ancora indecisa se mettersi con un famoso scrittore bruttino o con uno sconosciuto architetto molto meno brutto, e non mi sembra il caso di mettermi a fare lo scemo proprio adesso con un’altra, ma la serata dopo cena scivola via in maniera travolgente e si conclude a casa sua dove mi ritrovo la mattina seguente senza neppure lo spazzolino da denti.
Mentre la stupenda giornalista opta decisamente per lo scrittore, accanto alla mia nuova ragazza nel corso del tempo riesco ad allargare il giro delle mie amicizie e a conoscere persone molto interessanti, con le quali ancora oggi sono in stretto e affettuoso contatto. Il nostro rapporto prosegue a lungo fra alti e bassi, più bassi che alti a dir la verità. In compenso va tutto per il meglio con le nuove conoscenze, a cominciare dai suoi fratelli coi quali decidiamo di metter su una squadra di calcio e di sfidarne altre nell’ambito strettamente amatoriale. Con loro, più che con lei, passo la maggior parte del tempo a parlare di politica e, soprattutto, di Inter, nostra passione predominante.
Gabriele Giulini, il più “anziano”, decide che, in onore del nostro esposto filo-comunismo, Stella Rossa sarà il nome dei magnifici undici e allora io propongo che il motto debba per forza essere: Falciate e Martellate. Motto che suscita entusiasmo e che convince tutti ad acquistare magliette, pantaloncini e calzettoni rosso sangue.
All’inizio ci si allena a Trenno, a due passi da San Siro. Ci ritroviamo lì la domenica mattina non più tardi delle otto. Anzi a turno ognuno di noi si presenta sul posto, nebbia e non nebbia, gelo e non gelo, verso le sette per “occupare” uno dei migliori campetti a disposizione. Ogni volta che tocca a me l’alzataccia mi domando chi me lo fa fare, ma la passione è tanta e alla fine mi convinco che ne vale proprio la pena. Tra l’altro, oltre che giocare fra noi, incontriamo altri pazzi che si allenano in vista di confrontarsi su un vero campo regolamentare. Insomma il giro, in breve, si allarga a macchia d’olio.
Della nostra straordinaria compagine fanno parte giocatori che vanno dai quindici ai trent’anni e passa. Fra gli altri: i tre fratelli Giulini, Daniele Abbado e addirittura Claudio Abbado, grazie al quale entra in squadra anche un fantastico violinista della Scala, Simion Vasinca.
Mentre Daniele è la nostra punta di diamante, suo padre, quelle poche volte che gli impegni scaligeri glielo permettono, passa la maggior parte del tempo in panchina.
Le occasionali partite che riusciamo ad organizzare ci vedono protagonisti di ottime prestazioni. In porta il titolare è Piero Candelora che, non è proprio Ghezzi, ma se la cava niente male. In difesa tre mastini duri e puri: Camillo Cantaluppi, Giorgio Soana e Carlo Guglielmi (il più cattivo dei tre). A centro campo spiccano Gabriele Giulini, Lazzaro Raboni e Franco Ferrarini. In attacco Paolo Giulini, Simion Vasinca, il fenomenale Daniele Abbado e il sottoscritto. Al grido di “Falciate e Martellate” facciamo sicuramente paura agli avversari e, ad onor del vero, giochiamo come dei forsennati, dotati più di cuore che di tecnica. Dopo aver inanellato una serie di vittorie cominciamo ad avere anche un certo seguito, al punto da accumulare persino sei o sette spettatori fissi, fra amici e fidanzate.
Nel frattempo la vita di tutti i giorni scorre piacevolmente. Durante la settimana di giorno il lavoro non manca, di sera le occasioni cosiddette mondane si sprecano. Nel week-end si va tutti ad Oltrona, a casa Cantaluppi che ci accoglie sempre in maniera straordinaria ed è lì, finalmente, che Claudio riesce a tirare due calci in libertà, anche perché il luogo è sprovvisto di panchine.
Altri campi che lo vedono protagonista indiscusso sono quelli in Engadina dove, soprattutto in estate, organizziamo partitelle nei prati davanti le belle case dei vari amici che ci ospitano.
La voce che la Stella Rossa è diventata la squadra da battere arriva anche all’orecchio di Mauro il Bolognese che, appena mi siedo a uno de suoi tavoli, mi lancia la sfida per la prima domenica del mese.
“Mi hanno detto che siete forti ma noi non siamo da meno. Staremo a vedere”. Sembra quasi una minaccia e forse lo è.
L’appuntamento è per le sette di sera sul campo dell’Associazione Sportiva Barona. Fa un freddo boia e, prima di entrare negli spogliatoi, la nebbia è già bella fitta. Causa alcune defezioni, al gelo della stanza riservata alla squadra-ospite, siamo solo in dodici. Di nascosto faccio segno a Daniele di far entrare suo padre al posto mio, scuote la testa e mi fa capire che non ci pensa nemmeno. Ora, anche se non è proprio quel che si dice un campione, a guardarlo seduto in attesa di poter entrare in campo mi si stringe il cuore ogni volta. Lui, uno dei più grandi direttori d’orchestra apparsi su questa terra, abituato a dirigere a bacchetta (è proprio il caso di dirlo) una caterva di eccezionali professionisti a livello internazionale, non può e non deve restare in disparte. Ma suo figlio è inamovibile: “gioca solo se si fa male qualcuno!”.
Così entriamo in campo mezzi assiderati e ci rendiamo conto che ormai la visuale si aggira sui trenta-quaranta metri al massimo. Sugli spalti i nostri pochi e soliti spettatori eroici, intabarrati come esquimesi, urlano e battono le mani più per riscaldarsi che per altro. Il Maestro si siede in panchina in attesa fiduciosa di essere chiamato prima o poi a combattere la sua battaglia. Già dai primi scambi ci rendiamo conto che gli avversari sono delle belve, così come è abbastanza evidente che l’arbitro parteggia spudoratamente per loro. Si gioca più che altro a metà campo, raramente i portieri toccano palla. Minuto dopo minuto la partita si trasforma in una accanita lotta greco-romana, i calcioni si sprecano, le gomitate pure e, complice la nebbia, i colpi bassi si susseguono fra urla di dolore e veementi proteste. Verso la fine del primo tempo non so come riesco a passare una palla d’oro a Daniele che s’infila fra due difensori e si ritrova da solo di fronte alla porta, tira e mette in rete ma, nel frattempo, quel cornuto che dirige la gara fischia il fuori gioco. Apriti cielo! Si scatena una rissa furibonda. Mauro il Bolognese ed io tentiamo di dividerli ma riusciamo solo a beccarci sberle e spintoni. A quel punto Claudio, pacifista di natura, scatta in piedi per far cessare la rissa ma viene bloccato e dissuaso da un paio dei nostri: oltre ad essere rimasto in panchina ci mancherebbe altro che si facesse male per colpa nostra. Capitan Giulini ordina il ritiro della squadra così, fra insulti e gestacci irrepetibili, prima di morire congelati ci avviamo verso gli spogliatoi. I nostri sugli spalti ci applaudono ma non hanno capito che alla fine ci siamo arresi. Nella stanza gelida ci rivestiamo in fretta, tranne il Maestro che non ha fatto in tempo neppure a toccare una palla.
Da quella maledetta serata la squadra ha iniziato a sfaldarsi fino allo scioglimento ufficiale non senza lasciare in tutti noi grande amarezza e infiniti rimpianti.
Alle 8.30 del 20 gennaio del 2014, la mezz’ala meno utilizzata della Stella Rossa lascia questa terra per andare da un’altra parte a dirigere, come solo lui era in grado di fare, la sua straordinaria orchestra e, nel tempo libero, tirare due calci al pallone, in pace.