Seia nove: Charles Webb
di Seia Montanelli
Se la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, quella che porta all’olimpo della letteratura è costruita sulle lapidi di quanti sono stati dimenticati – anche se buoni scrittori, belle mani e teste di narratori, sensibili artigiani della penna -; tutti uniti da un destino che li ha relegati nell’oblio, per sfortuna, per mancanza di tempismo, o perché considerati degli outsider, e dunque sospinti ai margini di un sistema selettivo e vorticoso che celebra chi si adegua e dimentica chi non vuole fare parte del circo(lo).
Ogni tanto qualcuno però riscopre qualche nome o ripubblica un libro da decenni introvabile restituendo a Cesare quel che è di Cesare. Capita così che Nicola Manuppelli, editor e traduttore di Mattioli1885 rammenti al pubblico italiano un autore che, quando era ancora al college, ha scritto un romanzo destinato a conquistare Hollywood e a sconvolgere un’intera generazione con il film che ne è stato tratto. Scommetto che il suo nome, Charles Webb, non dirà molto a parecchi di voi, ma se dico “Il laureato” allora la nebbia comincia a diradarsi per forza. Il famoso film con Dustin Hoffman che ha sdoganato la passione per le Milf di milioni di giovani uomini in tutto il mondo e ha segnato una generazione, è tratto in realtà da “The graduate” di Charles Webb, che non è nemmeno stato citato nei credits della pellicola, nonostante la sceneggiatura si basi per più dell’80% sul romanzo.
In realtà non è colpa vostra se il nome di Webb vi dice ben poco, è quasi dimenticato anche in America, nonostante abbia scritto ben otto romanzi, l’ultimo dei quali – “Home school” – è una sorta di sequel del suo libro più famoso. Non solo: “Il laureato” a parte, dal romanzo “New Cardiff” viene il soggetto di un altro film, “Hope Springs” con Colin Firth.
Nel caso di questo particolare outsider però ogni pensiero di tristezza per la sorte che gli è toccata è però fuori luogo perché Charles Webb è il più anticonvenzionale degli scrittori (ma sarebbe stato fuori dagli schemi anche come avvocato, o medico o imbianchino). Del successo o dei soldi non ha mai voluto saperne, e ci ha messo del suo per essere considerato fuori dal sistema editoriale. La verità è che è un artista vero, uno di quelli per cui la stessa vita è un’opera d’arte: coi primi soldi guadagnati, un bel po’ peraltro, ha comprato una casa che però ha regalato molto presto, insieme ai mobili e altri beni, perché possedere delle cose lo faceva sentire oppresso e perché «le cose migliori nella vita sono gratis».
Webb, che ora è un arzillo settantasettenne che vive di espedienti nel sud del’Inghilterra e scrive ancora qualche opera teatrale, ha costruito “Il laureato” quasi interamente su memorabili dialoghi, (alcune delle battute scambiate dai protagonisti sono rimaste nella storia): ma essendo l’autore un geniaccio con molta sregolatezza che si annoiava a ripercorrere sempre la stessa strada, succede che nel ‘78 scrive un libro del tutto privo di dialoghi, “Booze”, tradotto in italiano come “Il grande slam”.
È la storia di Calvin Barnes, un artista di provincia, senza alcuna pretesa se non quella di continuare a dipingere: «non devo raggiungere la fama o il riconoscimento o il successo in senso commerciale, ma quello che è importante per me è continuare a farlo, continuare a dipingere e mantenere viva quella sensazione che ho quanto metto i colori sulla tela e faccio sembrare le cose che dipingo il più possibile simile a come le vedo. Nient’altro importa», spiega lo stesso Calvin nel romanzo.
In realtà la sua vita non è scandita solo dai quadri pieni di arance che dipinge, ma anche dai cicli del “grande slam”, come lui chiama le sbronze periodiche in cui si perde per tempi indefiniti e che all’inizio non riesce a riconoscere come alcolismo, considerandole invece un momento catartico in cui liberarsi dalle tensioni cui è sottoposto, soprattutto quelle sessuali, ma che nel corso del romanzo finisce con l’individuare come fasi epifaniche di una vera e propria dipendenza da cui cercherà di salvarsi.
Intorno a Charles si muove uno sparuto gruppo di personaggi singolari: una coppia di galleristi, Faith e Garreth, che tentano di convincerlo di essere un grande artista e gli offrono la possibilità di esibire le sue opere in una mostra (Garreth, sparisce il giorno prima del vernissage e Faith si mette in testa di “civilizzare Calvin e salvarlo dall’alcolismo”); Angus (una sorta di guida spirituale) e due donne con cui ha dei rapporti complicati, Donna e Yolanda, la prima sopraffatta dai problemi e sempre in bilico tra il suicidio e la sopravvivenza, la seconda un po’ sbandata, succube di Faith all’inizio, e che finirà con il diventare la compagna di Colin.
“Il grande slam” è un romanzo complicato per molti versi: lettura densa in quanto priva di dialoghi, è un ininterrotto discorso indiretto, in prima persona (salvo per la suddivisione in tre capitoli intitolati alle tre protagoniste della storia, che danno un po’ di respiro al lettore che altrimenti si troverebbe davanti un lungo muro di parole.) Calvin racconta e interpreta: tutto passa dai suoi occhi e dalle sue parole, sembra un moderno stream of consciousness e rischia di sembrare gravoso, soprattutto se paragonato all’agilità de “Il laureato”, coi suoi dialoghi vivaci e continui. Lo stesso Webb in un’intervista sostiene di aver scritto “Booze” di fretta e male e di aver preteso che non comparisse sulla copertina la scritta che lo identificava come un’altra opera dell’autore de “Il Laureato”. Ma era troppo severo con se stesso: se vi prendete il tempo di leggere “Il grande slam”, con l’intenzione di farlo davvero, di soffermarvi sulle parole e di guardare il mondo con gli occhi di Calvin, allora vi troverete di fronte a un romanzo notevole, pieno di ironia intelligente e a volte un po’ malinconica, in cui da una parte c’è il racconto della presa di coscienza da parte del protagonista del proprio alcolismo e del modo in cui la vita e le persone che ha incontrato lo abbian salvato; dall’altra, come in ogni opera di Webb a partire dal suo esordio fulminante, c’è un profondo senso di smarrimento di fronte a un mondo fasullo, artificiale, insincero. E ancora, dopo l’esperienza del primo libro, è chiaro il riferimento autobiografico nella vicenda di un artista di provincia improvvisamente scaraventato nel mondo dell’arte “che conta”.
Charles Webb resta tra le voci più originali di una generazione di scrittori che hanno raccontato alcuni degli anni più vivaci della storia dell’uomo, ed è sicuramente il più controcorrente: la sua vita (dal rifiuto del matrimonio degli agi materiali, sino all’educazione casalinga dei figli) come la sua opera (abitata da personaggi spesso perdenti ma terribilmente umani) sono una costante ribellione, un lungo grido di disprezzo per ciò che non è libero, autentico e sincero.
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Mi sembra un ottimo soggetto per i fratelli Coen! (y)