I misteri della sicurezza: allucinazioni lombrosiane, frenesie securitarie e fantasmi di nuove imprese libiche.

di Alessio Berré

 

Your-Safety-BusinessPuò capitare che un oggetto di studio, al quale ci siamo avvicinati in nome della più sana curiosità nonché del più serio e rigoroso interesse scientifico, si trasformi nel corso del tempo in qualcosa di molto simile a un’ossessione, se non, addirittura, in una vera e propria perversione. Io, ad esempio, non riesco più a fare a meno dei romanzi brutti, meglio se ottocenteschi. Datemi un feuilleton tra i più dimenticati; disseppellite dalle appendici dei quotidiani le sue pagine ammuffite – e per altro vergate con uno stile narrativo altrettanto indigeribile – e avrete fatto di me un uomo felice. Se poi al romanzo si accompagnasse, per caso, una di quelle bislacche e velenose teorie scientifiche che spuntavano come funghi, nel fitto e intricato sottobosco medico-antropologico del secondo Ottocento europeo, allora l’orrenda pietanza produrrebbe, nei confronti dei miei sensi alterati e pervertiti, un’attrazione assolutamente irresistibile.

Romanzi giudiziari, perizie psichiatriche e teorie criminologiche le più strenuamente votate all’ideologia della difesa e del controllo sociale: ecco gli ingredienti principali della mia quotidiana alimentazione degli ultimi anni. Tre, per la precisione, e non uno di più, giacché pare che le tesi dottorali abbiano ormai una data di scadenza improrogabile entro la quale devono necessariamente essere concluse. Di positivo c’è senz’altro che lo studente aspirante studioso evita così di rigirarsi per troppi anni nella stessa minestra, rischiando a volte di affogarvi. Per contro, come si sa, mangiar tanto e troppo in fretta non è il modo migliore per dormire sonni tranquilli. Figurarsi poi quanto possa esser facile da digerire un’abbuffata di scritti lombrosiani e romanzi d’appendice sui delinquenti dell’Italia postunitaria. Tanto che ora, a indigestione avvenuta, è giunta la ben nota fase allucinatoria, la quale si sta però presentando con un’intensità che comincia a dire il vero a preoccuparmi. Capita infatti che sfogliando un giornale – uno del 2016, s’intende – in quei momenti in cui lo sguardo si perde negli spazi bianchi tra le righe, la vista mi si appanni e d’un tratto, come per magia, mi par di vedere le pagine ingiallirsi e ricoprirsi al contempo della stessa muffa e delle stesse invettive securitarie e belliciste tipiche di quei quotidiani ottocenteschi di cui non posso più fare a meno, e che forse proprio per questo immagino rimaterializzarsi nel mondo di oggi.

Eppure, dicevo, tutto era cominciato con la massima lucidità e in nome di una convinzione ben precisa: quella, cioè, che studiare la cultura letteraria e scientifica dell’Ottocento fosse cosa importante e utile, in modo particolare, a rintracciare quei discorsi discriminatori e razzisti che allora venivano stampati nero su bianco, con la massima franchezza e disinvoltura, nei prodotti culturali dell’epoca, soprattutto in quelli cosiddetti “di consumo”. L’idea era tutt’altro che infondata e le prime conferme non tardarono ad arrivare.

Prendiamo ad esempio I misteri di Parigi, ossia il romanzo popolare per eccellenza, scritto da un Eugène Sue fresco di conversione al “socialismo”; apriamolo alla prima delle sue numerose pagine, ed ecco cosa troviamo:

Tutti hanno letto le pagine stupende nelle quali Cooper, il Walter Scott americano, ha descritto i feroci costumi dei selvaggi, la loro lingua pittoresca, poetica, le mille astuzie con le quali sfuggono ai loro nemici o li inseguono. […] Noi cercheremo di far passare davanti agli occhi del lettore alcuni episodi della vita di altri barbari, lontani dalla civiltà come lo sono i popoli selvaggi descrittici così bene da Cooper. I barbari che intendiamo sono proprio in mezzo a noi; possiamo trovarci gomito a gomito con loro, avventurandoci nei covi in cui vivono, in cui si raccolgono per concertare il delitto, la rapina, per spartire infine il bottino dei loro misfatti. Questi uomini hanno costumi propri, donne proprie, una lingua propria, una lingua misteriosa, piena di immagini funeste, di metafore gocciolanti sangue. Come i selvaggi, infine, questa gente suole chiamarsi con soprannomi mutuati dalla propria energia, dalla propria crudeltà, da certe doti o da certe deformità fisiche [1].

Uno dei romanzi dell’Ottocento più letti, tradotti e riscritti a livello mondiale [2] si apre dunque con l’esplicita e agile sovrapposizione tra il “selvaggio” delle colonie e i “barbari” dei bassifondi metropolitani. Per il pubblico dell’epoca fu amore a prima vista e l’ossessione verso le classi pericolose “fe’ piovere misteri” in ogni città, Italia compresa. Se ne lamentava Francesco Mastriani nella prefazione ai suoi Misteri di Napoli. Studi storico-sociali [3], romanzo che a sua volta rilanciò l’ossessione per i delinquenti dei bassifondi nell’Italia postunitaria. Guardate ad esempio come si apre ‘L cit d’Vanchija, un romanzo del 1878 oggi dimenticatissimo, scritto da un avvocato e romanziere dalla cui penna uscirono, un paio d’anni dopo, anche I misteri e Il ventre di Torino:

Il Moschino sorgeva in quella parte della nostra città ove oggi sonvi i murazzi lungo Po e servono di retroscena al lungo viale di San Maurizio, il quale divide la città dal borgo di Vanchiglia. […] Là stavano a confine, il delitto, la miseria, la prostituzione. Alle più scandalose turpitudini in questa morta gora del vizio succedevano i crimini più nefandi, i reati di sangue più orribili. […] Nemmeno le guardie di P.S. osavano slanciarsi innanzi e dar di cozzo nelle fitte schiere dei malfattori. […] Erano uomini delinquenti dalla culla e che vivevano a famiglia col catechismo della Cocca per evangèlio. Non mancavano le Frini da pochi soldi, nate per vendere se stesse e facilitare così con un sorriso contratto la vendita altrui. Siamo qui nel teatro del gran dramma sociale; ne vedremo la genesi, lo svolgimento e seguiremo passo passo i personaggi fino alla catastrofe[4].

Prima precisazione: non che quella dell’armata-del-crimine-all’assalto-della-società-dei-galantuomini fosse un’ossessione solo letteraria. Anzi. Talmente diffusa e minacciosa parve, all’epoca, l’emergenza della criminalità come fenomeno sociale, che nacque una scienza espressamente dedicata alla questione. Una scienza, cioè, che non solo fosse in grado di descrivere a fondo L’uomo delinquente studiato in rapporto all’antropologia, alla medicina legale ed alle discipline carcerarie – come titola il celebre volume lombrosiano pubblicato per la prima volta nel 1876 – ma che potesse utilmente esprimersi anche Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo, come Lombroso in persona rivendicò fieramente:

A chi mi chiedesse perché io, senz’essere uomo politico o giurista, abbia ardito porre mano ad un’opera di questa natura, risponderò solo: Che si guardi d’intorno. – Innanzi alla marea del delitto che monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci, senza che alcuno pensi ad opporvi le dighe, a me parve che un uomo onesto, il quale aveva per molti anni studiato il delitto come psichiatra, se non come statista, non doveva tacere[5].

E condividendo in tutto o in parte la stessa ossessione, Lombroso e i romanzieri del periodo postunitario finirono per attrarsi vicendevolmente, fino a far scoccare, com’è stato detto, un vero e proprio “amore corrisposto”[6]. Sicché, da una parte, i vari Dossi, Scarfoglio e Capuana lessero con attenzione gli studi lombrosiani; e dall’altra parte, i vari Lombroso, Ferri e Sighele osservarono non meno meticolosamente la letteratura del tempo, fin quasi a trasformarsi in critici letterari o, addirittura, in narratori. Scipio Sighele e il collega Alfredo Niceforo, ad esempio, firmarono un volume divulgativo – La mala vita a Roma – esplicitamente ispirato ai fratelli Goncourt, concentrandosi su una zona ben precisa della capitale:

Quella zona di Roma, occupata quasi tutta dal rione di San Lorenzo, è l’ambiente ove brulicano le classi pericolose della società, ove si commettono quei fatti criminosi che terminano quasi tutti nella stessa maniera: l’impunità dei rei. Di là partono e si diffondono per la città intera i misteriosi soldati del delitto [7].

Seconda precisazione: non che Lombroso e colleghi si fossero inventati tutto da soli. Anzi. Era dall’inizio del secolo che si andavano formalizzando una serie di provvedimenti e pratiche punitive che “sembravano ruotare, più che sul crimine, sulla persona del criminale”[8]. Tale operazione, inoltre, sembrò caratterizzare per intero il vecchio continente, e se ciò avvenne non fu certo per l’improvvisa diffusione di un’epidemia allucinatoria simile a quella di cui soffre ora il sottoscritto, bensì in nome di un lucidissimo intento politico. Come scrisse un grande storico della legislazione penale, “nella seconda metà dell’Ottocento, oltre a quello del comunismo, un altro spettro si aggira per l’Europa: quello dei recidivi, ‘biechi militi dell’armée du crime’, una moltitudine di incorreggibili delinquenti incalliti”[9], attorno a cui si concentrarono gli interessi dei più disparati campi disciplinari[10].

Certo fu anche grazie alle teorie lombrosiane – sorte, però, in un terreno già abbastanza preparato ad accoglierle, al netto delle polemiche che esse seppero suscitare – che il delinquente divenne una sorta di collettore di tutti i nemici della società: oziosi e vagabondi, anarchici, regicidi, epilettici, prostitute, assassini e grassatori, contadini meridionali scambiati per briganti (ossia il famoso Giuseppe Villella) e briganti veri e propri, …tutte queste tipologie dell’anormalità – costantemente appaiate alle presunte caratteristiche delle popolazioni selvagge e primitive – furono teoricamente inglobate all’interno dell’Uomo delinquente di Lombroso e concretamente catalogate dallo stesso scienziato nel suo Museo di antropologia criminale. Quello stesso museo che ha ufficialmente riaperto i battenti pochi anni orsono e in merito al quale, mio malgrado, ho avuto modo di sperimentare la prima delle mie allucinazioni.

 

Scopertomi ignaro dell’avvenuta riapertura e desideroso di conoscerne la storia, mi capitò qualche tempo fa di lanciarmi nella navigazione online alla ricerca di informazioni sul Museo Lombroso, ammucchiando freneticamente una dopo l’altra, come mio solito, una nutrita serie di nuove finestre del browser: pagine della più diversa estrazione ma potenzialmente utili a una prima infarinatura, stando, almeno, alle poche righe di contenuto visualizzabili nel motore di ricerca. Colpa dell’eccesivo numero di pagine aperte, o piuttosto dell’eccessivo peso di una di queste, fatto sta che a un certo punto mi ritrovai perso a fissare una barra di caricamento che stentava a proseguire il suo percorso. Quand’ecco, dopo un breve appannamento visivo, mi parve di vedere una nutrita schiera di militanti neoborbonici – nel XXI secolo! – marciare su Torino per manifestare[11] contro il Museo Lombroso, reo di esporre il cranio di Villella, eretto a simbolo della resistenza meridionale. Proprio come in un sogno in cui si mescolano eventi e periodi storici i più disparati, vidi inoltre Beppe Grillo sostenere a spada tratta, sulle colonne del suo blog, l’iniziativa dei nostalgici del Regno delle due Sicilie e inneggiare all’immediata chiusura del museo[12]. Dulcis in fundo, improvviso e minaccioso, s’espanse sullo schermo un banner grigio-scuro in cui campeggiavano un enorme scaffale ottocentesco stracolmo di teschi umani e un contatore a quattro cifre bianche su sfondo nero accompagnato dalla scritta: “Dissòciati da questo crimine razzista. Firma online la petizione affinché le teorie criminologiche di Cesare Lombroso vengano rimosse ufficialmente dai libri di testo e le commemorazioni odonomastiche e museali a nome ‘Cesare Lombroso’ vengano soppresse al più presto. Comitato tecnico scientifico nolombroso.org”[13]. Cliccato il banner, un vecchio teschio visibilmente ammaccato esclamava imperativo: “Io non posso più firmare! Fallo tu per me!”[14]

Avrete senz’altro capito, come compresi io stesso sin da subito, che tutto ciò non poteva che essere il frutto di un annebbiamento mentale, sicché, confidando nell’eccezionalità del fenomeno – e soprattutto nella sua transitorietà – valutai che un bel sonno ristoratore dovesse naturalmente riportare la calma e la lucidità perdute. Mai scelta fu più inopportuna! Giacché, coricandolo, un cervello stimolato sino all’ora tarda dalla ricerca d’informazioni – tanto più se digitali – aumenta più che non diminuisca le proprie visioni, le quali, sadico, il dormiveglia sa inoltre abilmente impastare con altre ansie, non necessariamente consce né tantomeno logicamente collegate agli ultimi pensieri della serata. Tanto che, dopo alcuni minuti ciondolanti tra il sogno e la veglia, apparve ai miei occhi una donna velata e avvolta da un candido manto svolazzante, verso il quale mi sorpresi ad allungar la mano, come a volerne tastare la consistenza materiale: cartoncino morbido e flessibile. Un attimo dopo, infatti, quella stessa figura era divenuta l’immagine di copertina di un libro – La vergine delle ossa. Cesare Lombroso indaga [15] – che mi ritrovavo a leggere spaparanzato sul divano, come se tutto fosse normale, seguendo le avventure di un Lombroso-detective alle prese con un misterioso omicida seriale nella Torino di fine Ottocento. A ogni minimo movimento, spiegazzata e incastrata tra il gomito mio e il bracciolo del divano, scricchiolava un’edizione di «Repubblica» dell’agosto 2010, in cui il giornalista domandava all’autore del romanzo in questione:

Lombroso è tornato al centro di polemiche revisioniste e antirisorgimentali. C’è chi vorrebbe chiuderne il museo e dannarne la memoria. Non è che con questo romanzo si farà qualche nemico? “Sicuramente. Ho voluto eliminare la banalità del positivista a due dimensioni che ti condanna in base alle misure del cranio. Su alcune cose però è estremamente moderno. […] l’apertura mentale e la grande umanità sono la sua grandezza, che resta fuori discussione. Era realmente un uomo che cercava di migliorare la qualità della vita della gente” [16].

Il televisore acceso e abbandonato su Rete4 trasmetteva “Quarto grado”, dove il criminologo Massimo Picozzi si soffermava sull’ultimo efferato delitto assurto agli onori della cronaca nazionale, e nella penombra della stanza la luce dell’apparecchio illuminava tremolante la rigida copertina di un altro libro adagiato sul tavolo: “Andrea Vitali / Massimo Picozzi / La ruga del cretino / Un famoso criminologo, una medium, una giovane contadina un po’ strana, e un assassino misterioso, come Jack lo squartatore / Romanzo / Garzanti”[17]. E nella fascetta giallo-acceso: “Oltre tre milioni di lettori. Un nuovo grande successo”. Colpito dalla coincidenza, feci per alzarmi a recuperare il volume quando mi accorsi che un teschio rosso sangue – anch’esso su copertina rigida – spuntava minaccioso dai cuscini del divano, incorniciato dalle seguenti parole: “L’UCCISORE / La prima indagine di Cesare Lombroso, detective. / GINO SALADINI / Rizzoli”[18]. Capite bene che c’erano tutti gli ingredienti necessari perché le mie papille gustative fremessero dalla voglia di divorare la leccornia che mi ero ritrovato proprio sotto il naso, sicché afferrai il volume, lo aprii a caso e cominciai a leggere avidamente:

“È la mia smania di capire, la mia ricerca infinita, la sola energia che intuisco pura dentro di me. La sete di sapere. Per chi crede è un peccato di superbia. Ma io sono consapevole di essere un uomo superbo, Federico. E tu?” Reinier sorrise a Lombroso. In quel momento gli fu chiaro che per arrivare a capire chi era doveva costeggiare il bordo di un precipizio. Non doveva aver paura di sporgersi troppo nell’oscurità. Un uomo famoso nel mondo come Lombroso non aveva esitato ad affrontare il ridicolo per le sue convinzioni. Per cercare di comprendere i fatti che si verificavano sotto i suoi occhi. Se c’era qualcuno che affermava di parlare con i morti, uno scienziato aveva l’obbligo di studiare quei fenomeni. Anche quei fenomeni, sì, aveva ragione il professore. A costo di essere irrisi[19].

Il cuore aumentò frettolosamente l’intensità dei suoi battiti al cospetto dell’eccezionale scoperta. Infastidito quanto morbosamente attratto dalla lettura mi lanciai all’immediata ricerca del finale del romanzo, sennonché, tremolante, il pollice destro fece inavvertitamente scattare l’ultima pagina. Una mezza smorfia di disappunto ebbe a mala pena il tempo di contrarre palpebre e sopracciglia, che esse dovettero subito distendersi stupite alla vista delle seguenti parole: “RINGRAZIAMENTI / Ringrazio Cesare Lombroso, l’archetipo del criminologo”.

 

 

incuboDue ampie e generose sorsate d’acqua di rubinetto rinfrescarono la mia gola arsa. Ne trasse giovamento – ma poco – anche il volto riflesso allo specchio, pallido e sudato come lo richiede l’improvviso risveglio da ogni incubo che si rispetti. E di un incubo vero e proprio non poteva che trattarsi, soprattutto agli occhi di chi passava già la quasi totalità del suo tempo di veglia a farsi perseguitare dalla figura del famigerato scienziato. Come si poteva mai immaginare – nel 2015! – una sorta di riedizione dell’ottocentesco “amore corrisposto” tra Lombroso e la narrativa? Come credere che scrittori e/o criminologi potessero ora aprire le porte del romanzo a un tale personaggio, per trasformarlo in una sorta di buffo, innocuo e bonario detective? Se non, addirittura, nell’emblema dello scienziato, che sfida l’ignoto e il ridicolo per la sua sete di conoscenza? Diedi un’altra copiosa sorsata d’acqua e, riagguantando un istante di lucidità, la mia mente corse a un’altra, rossa copertina di libro in cui stavolta non si stagliava nessun teschio, bensì la serena e sorridente zucca pelata di Michel Foucault, che nel suo corso sugli Anormali, dopo aver citato la perizia di Lombroso al militare calabrese Salvatore Misdea, concludeva perentorio:

Il razzismo che nasce dalla psichiatria di quest’epoca è il razzismo contro l’anormale, il razzismo contro gli individui che, in quanto portatori di uno stato, di uno stigma, di un difetto qualsiasi, possono trasmettere alla loro discendenza, nel modo più incerto, le conseguenze imprevedibili del male, o piuttosto del non-normale, che recano in sé. Si tratta dunque di un razzismo che avrà come funzione non tanto la prevenzione o la difesa di un gruppo contro un altro, quanto l’individuazione, all’interno stesso del gruppo, di tutti coloro che potranno essere effettivamente portatori di pericolo. È un razzismo interno, un razzismo che permette di filtrare tutti gli individui dentro una determinata società[20].

Eh sì – dissi al me stesso ritratto allo specchio – serviva davvero tanta, forse troppa fantasia per immaginare che un romanziere possa oggi anche solo lontanamente pensare di riabilitare una figura di questo tipo. Tanto più che in Italia questo razzismo psichiatrico seppe davvero saldarsi a un’altra forma di razzismo interno. Non manca chi l’abbia denunciato con lucidità – senza peraltro ricorrere ad alcun tipo di nostalgia borbonica – sottolineando come “lo stereotipo dei calabresi epilettici, folli, delinquenti” fosse stato ampiamente recepito da buona parte della psichiatria e dalla magistratura italiana dell’epoca. Non per nulla il “caso del celebre brigante calabrese Musolino” suscitò “uno scontro tra diverse tendenze della psichiatria italiana”, in cui comunque “il Musolino di Lombroso rappresenta l’arretratezza atavistica della regione”[21].

A dirla tutta – sembrò rimproverarmi il mio sosia riflesso (ma ero ancora abbastanza lucido, perché ripercorrevo ragionamenti già svolti e fissati per iscritto nella mia tesi di dottorato) – tali sviluppi della psichiatria italiana vanno inseriti all’interno di un più ampio dispositivo di controllo sociale, sorto ben prima delle teorie lombrosiane, che a suon di leggi eccezionali e misure di sicurezza seppe svilupparsi con, ma anche senza l’aiuto di queste teorie, e a volte addirittura contro di esse! Dalla legge Pica del 1863, che istituì il domicilio coatto per colpire briganti e camorristi meridionali “ma anche gli oziosi, i vagabondi e più in generale quelle persone che dal codice penale sono indicate come sospette”[22]; alle leggi crispine del 1894, che ne estesero l’applicazione agli anarchici, ma anche ai socialisti, cui Lombroso e Ferri si erano nel frattempo avvicinati. Per cui non è che si possa proprio tagliare con l’accetta… Alt! – dissi perentorio, quasi ad alta voce – Ricorda: ogni volta che la situazione s’ingarbuglia e rischi di perder l’orientamento, prendi fiato e cita Sbriccoli.

Il regno d’Italia nasce sotto il segno di una mortale emergenza. L’insurrezione di una parte delle popolazioni meridionali mette in pericolo da subito, ed in modo assai serio, l’unità dello Stato appena realizzata […] In ragione di quella emergenza, si dette vita ad una legislazione eccezionale, dalla quale pullularono, su di un terreno peraltro già preparato ad accoglierle, prassi e principi che si installarono permanentemente nell’ordinamento penale, con il fine di prevenire l’ordinario e di fronteggiare l’emergente […] (come si comprende, non c’è differenza, per questi effetti, tra un pericolo reale e un pericolo creduto).

[…] Quale stabile complemento legato alla legislazione di emergenza, anch’esso per così dire incistato à jamais nell’ordinamento punitivo del regno in occasione dell’insurrezione meridionale (e poi ereditato dalla Repubblica), va aggiunto quello che potrebbe essere chiamato il paradosso del fallimento della legislazione d’emergenza, in forza del quale le leggi eccezionali, di regola introdotte in via provvisoria, vengono di regola prorogate o rinnovate per la sorprendente ragione che il problema per il quale erano state pensate è rimasto irrisolto[23].

Assai rinfrancato dalla meravigliosa chiarezza di queste parole, impresse in modo ormai indelebile nella mia memoria, decisi di riavviarmi dal bagno alla camera da letto nell’illusoria convinzione di aver riguadagnato la calma e la ragionevolezza necessarie a ritentare l’assopimento con buone speranze di successo. Infilatomi sotto le coperte pensai che in effetti, a difesa della non totale compromissione del mio stato mentale complessivo, si poteva citare il fatto che oltre ai brutti romanzi ottocenteschi – a proposito, leggetevi il Romanzo di Misdea di Edoardo Scarfoglio: romanzo d’appendice terribile e dimenticatissimo (perfino dal suo autore) recentemente ritrovato[24], deve aver avuto un ruolo considerevole nello sviluppo della mia dipendenza – esiste anche un altro genere di scritti capaci di attrarre con ancora più forza il mio appetito: i bei saggi storiografici. E questo di Sbriccoli sui Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano lo è senza dubbio alcuno, tanto che fornisce, come solo i migliori esemplari del genere, una chiave interpretativa che sembra continuamente in grado di strabordare il periodo storico e le coordinate geografiche per le quali è stata pensata – cui pur si addice al massimo grado – per illuminarne anche altre, ben diverse e soprattutto ben più attuali (o almeno così pare ai giovani aspiranti studiosi alla disperata ricerca di una chiave di lettura per forzare il proprio tempo, soprattutto se intenti a rigirarsi nel letto, in confusionale stato di dormiveglia).

Le sue parole sul paradosso del fallimento della legislazione d’emergenza – che a me piace ribattezzare primo mistero della sicurezza – non sono infatti così nette e potenti da disvelare la banale e risibile assurdità di ogni dispositivo di controllo sociale violentemente imposto e reiterato “per la sorprendente ragione che il problema per il quale è stato pensato è rimasto irrisolto”? Dalle misure di sicurezza contro l’ottocentesca “armata del crimine”, a quelle odierne contro la “marea” dell’immigrazione, che per alcuni – lombrosianamente – “monta e monta sempre, e minaccia sommergerci e insieme infamarci, senza che alcuno pensi ad opporvi le dighe”; dagli sgomberi per ripulire i bassifondi della Firenze ottocentesca dai “selvaggi d’Europa”[25], a quelli odierni per riportare il decoro a Calais, giungla d’Europa[26].

Il modo in cui quella classe dirigente reagì, sul piano normativo e su quello delle pratiche di giustizia, impresse indelebilmente nel sistema penale italiano un segno che si sarebbe rivelato praticamente incancellabile: un imprint originario destinato a durare e a colorare di sé la politica penale dello Stato lungo l’intero arco della sua esistenza[27].

E il modo in cui la nostra classe dirigente sta reagendo non sembra diretto a colorare con lo stesso segno la politica dell’Unione Europea lungo l’arco della sua esistenza futura (ammesso che ve ne sarà una)? Dall’état d’urgence impresso indelebilmente nella costituzione del pays des droits de l’homme, avviando così il passaggio “De l’Etat de droit à l’Etat de sécurité[28]; al rispristino dei controlli alle frontiere, eccezionalmente previsti dal trattato di Schengen, ma ormai diffusi e reiterati al punto che rischiano di minare l’esistenza stessa del trattato (o di svelarne, forse, la vera natura).

Va là che c’aveva proprio visto lungo il vecchio Sbriccoli, bofonchiai girandomi nel cuscino, e mi sorpresi a pensare che non avevo mai visto una foto dello studioso, né tantomeno mi era mai capitato di incontrarlo dal vivo. Era alto o basso? Com’era la sua faccia? Con quali espressioni del volto e tono di voce si esprimeva? E soprattutto con quali si esprimerebbe ancora oggi, contro le nostre ennesime leggi eccezionali?

Il loro scacco è la giustificazione della loro conferma. Ed è norma che anche una volta uscite di vigore esse lascino nell’ordinamento pesante traccia di sé, introducendovi principi destinati a durare ed a perpetuare lo strumentario, quando non lo spirito[29].

Sbriccoli allontanò il microfono dalla bocca e il piedistallo urtò leggermente il cartellino bianco posato sulla scrivania, in cui erano riportati il suo nome e cognome. Il gesto fece probabilmente scrocchiare le casse dell’impianto di amplificazione, ma nessuno se ne accorse, poiché di colpo la sala convegni fu sommersa da un applauso scrosciante, cui mi unii con una gioia e un’emozione che gran parte del pubblico dovette notare. Anche perché sedevo dalla stessa parte della scrivania e per giunta a fianco dell’oratore che aveva appena terminato il suo intervento. Un cartellino bianco da cui trasparivano leggermente il mio nome e cognome – ma di dimensioni ridotte rispetto a quello del collega – svettava a sua volta a pochi metri dal mio microfono, dietro il quale avevo appoggiato una sull’altra l’edizione del marzo-aprile 1902 della «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti», e quella del «Corriere della Sera» del 15 febbraio 2016.

Una volta ch’ebbero terminato di battere – e furono forse le ultime a farlo – le mie mani accaldate e colorite dall’energico applauso cominciarono rapidamente a tremare abbassando considerevolmente la loro temperatura. Titubante, la destra si convinse ad afferrare il piedistallo del microfono, mentre la sinistra scansava le due edizioni impilate che intralciavano il tragitto dell’altra, evitando così di produrre un nuovo scrocchio, che il ritrovato silenzio della sala non avrebbe certo contribuito ad attenuare. Afferrai infine con cautela il bicchiere d’acqua gentilmente fornito dagli organizzatori, ne bevvi una generosa sorsata e, dopo un rapido schiarimento di voce, attaccai:

– Per prima cosa volevo ringraziare gli organizzatori di questa interessantissima giornata, alla quale ho accettato di partecipare con grande felicità e, come vedete, anche con una certa emozione. In effetti, non è certo facile prendere parola dopo che, con la saggezza e l’acume che lo contraddistinguono, il professor Sbriccoli ha descritto così bene il paradosso su cui si fondano le leggi eccezionali che tanto hanno segnato e segnano la nostra storia passata e recente. Chiedo dunque, a lui come a voi, di perdonare le imprecisioni nelle quali rischierò probabilmente di incappare, dovute in primo luogo alla mia inesperienza di giovane studioso – o aspirante tale – e in secondo luogo al fatto che, con l’audacia – o forse l’avventatezza – tipica dell’inesperta gioventù, vorrei tentare in questa sede di riallacciarmi alle questioni illuminate dal professore, per attirare la vostra attenzione su quello che mi pare costituisca un ulteriore paradosso, incistato sin dal principio nelle leggi eccezionali dell’Italia appena unificata, e i cui rigurgiti non hanno a tutt’oggi cessato di ripresentarsi. Tale secondo paradosso – o come mi piace dire, secondo mistero della sicurezza – consiste nell’apparentemente illogica eppur direttamente proporzionale compresenza tra le operazioni di guerra condotte contro il nemico interno ai confini nazionali e quelle indirizzate all’esterno degli stessi, se non addirittura in vista di una loro più o meno diretta espansione.

Pare infatti che già nel 1862, “in una serie di trattative col Portogallo, il governo italiano cercò di acquistare possedimenti coloniali (da utilizzare in funzione di colonia penale) in Mozambico, nel Congo o in Angola”[30]. L’idea di liberarsi dei delinquenti spedendoli in una lontana terra “selvaggia”, e di utilizzare al contempo il lavoro dei primi per trasformare la seconda in una colonia della madrepatria, stuzzicò dunque sin da subito i governanti della Nuova Italia. Lo scapigliato Carlo Dossi diede addirittura una forma romanzesca a questa stessa idea, che continuò a circolare per molto tempo ancora in diversi settori dell’opinione pubblica italiana. Il lombrosiano Alessandro Lioy, ad esempio, esponendo nel 1884 alla Società Africana d’Italia, sostenne a gran voce – citando peraltro proprio il romanzo dossiano – l’utilità d’impiantare una Colonia penitenziaria ad Assab:

Spiego meglio la mia idea. Io credo che Assab non debba esser altro che una colonia commerciale, ma che per elevarsi a ciò abbia bisogno del concorso dell’opera dei condannati.  Signori, il ricavare così una colonia commerciale da una colonia penitenziaria, non è strano, né nuovo nella storia. Anzi io credo che l’evoluzione più propria delle colonie sia quella d’iniziarsi col lavoro degli uomini reietti dalla società civile, per poi esse, rese adulte, svilupparsi vieppiù col lavoro libero manifatturiero ed agrario e giungere così fino a vergognare delle proprie origini e proclamarsi popolo virtuoso e civile. È una evoluzione storica che rassomiglia ad una evoluzione naturale: la farfalla che nasce dal bruco. (Bene!)[31]

Dieci anni più tardi, Dossi pubblicava la quinta edizione del suo romanzo sulla Colonia felice, che apparve sulle appendici di un quotidiano milanese esattamente il giorno successivo a quello in cui Francesco Crispi – di cui Dossi era nel frattempo divenuto strettissimo collaboratore – aveva inviato il seguente telegramma al Governatore dell’Eritrea: “Prego telegrafarmi se caserme Assab sarebbero adatte accogliere domiciliati coatti indicandomi nel caso affermativo quanti potrebbero mandarsene e modo provvedere casermaggio e vitto specificando relativo costo”[32]. Anche Enrico Ferri, allievo di Lombroso e ormai già transitato dai radicali e socialisti, non era contrario in linea teorica alla deportazione dei delinquenti “in paesi barbari, dove essi, che nei paesi civili sono semi-selvaggi, rappresenterebbero invece una mezza civiltà e per le stesse loro qualità organiche e psichiche, mentre divengono grassatori od assassini nei paesi civili, diverrebbero discreti capi tribù o militari nei paesi selvaggi, dove si trovano poi gente che non ricorre ai tribunali per rintuzzare le offese”[33]. Sennonché, nel caso specifico della colonia di Assab, valutò opportuno esprimere il suo parere contrario, ben scandito in un discorso alla Camera del luglio 1898:

Voi mandate là i coatti in un clima micidiale; in una forma indiretta li condannate ad una pena di morte che la legge non contempla. Voi li lasciate là alcuni anni; molti ne morranno; altri sopravvivranno, e sopravvivendo torneranno in Italia; e così avrete formato tanti nemici della società, con tale veleno nell’animo e nel cuore, che io soltanto, studioso di queste terribili malattie della delinquenza e della pazzia, posso aver visto nei manicomi più dolorosi[34].

Non è tragicamente beffardo il racconto consegnatoci dagli ultimi centocinquant’anni della nostra Storia? Un secolo fa molti credevano che deportare i nemici della società tra gli abitanti dei “paesi barbari” al di là del Mediterraneo potesse trasformare gli uni e gli altri in cittadini sottomessi alle nostre leggi. Oggi, alcuni cittadini delle nostre società partono volontariamente verso i paesi dominati da barbari e crudeli terroristi al di là del Mediterraneo, per addestrarsi a compiere attacchi nel cuore delle nostre città. E non è tragicamente assurdo che per combattere questo nuovo e spietato nemico interno, si organizzino sempre nuove e più potenti operazioni militari al di là del Mediterraneo, che gli attentatori peraltro dichiarano di vendicare? Soprattutto, non è ancor più paradossale che almeno dal 2001 tali guerre vengano di regola prorogate o rinnovate per la sorprendente ragione che il problema per il quale erano state pensate è rimasto irrisolto? Niente affatto. O così, almeno, verrebbe da pensare guardando alla disarmante trasparenza con la quale ancora oggi, alcune penne dei più autorevoli quotidiani italiani incitano all’intervento militare in terra di Libia.

Un silenzio terribilmente denso e minaccioso era ormai calato sulla sala convegni, riempendola da cima a fondo con la sua ingombrante presenza. Non ci misi molto a capire che la acrobatica rete di collegamenti storici appena tessuta, la quale appariva ai miei occhi giovani e fieri come una limpida forma geometrica regolare e armoniosa, doveva invece presentarsi a quelli ben più esperti dell’uditorio come un mostruoso scarabocchio infantile. Ordinai a me stesso di procedere il più speditamente possibile alla conclusione dell’intervento, non tanto perché fosse già evidentemente troppo tardi per tentare un qualsiasi rimedio, quanto perché l’intensità dei battiti cardiaci stava aumentando al punto che sarebbe presto divenuta insopportabile. Ormai terrorizzato, mi schiarii la gola riarsa senza osare nemmeno indirizzare la mia mano tremante verso il bicchiere d’acqua, e mi sforzai invece di dirigerla verso la copia del «Corriere», comunque preoccupato delle mie capacità prensili certamente compromesse. Anche la vista non doveva versare in uno stato migliore, poiché la pagina del giornale che avevo selezionato mi sembrò inscurire repentinamente le sue tonalità e ricoprirsi ai bordi di svariati strappi, e soprattutto di una fitta coltre di muffa, che mi fece di colpo ricordare di avere ancora l’olfatto. Solo il pensiero dell’imminente e pubblico svenimento mi diede la forza di proseguire, affrettando così la conclusione.

Ad esempio, sul «Corriere della Sera» di pochi giorni fa è apparso un articolo intitolato “Noi in Libia saremo mai pronti?”, in cui un celebre professore intende preparare l’opinione pubblica italiana all’imminente e necessario intervento armato in quelle terre al di là del Mediterraneo che già furono nostre colonie. Egli lamenta il fatto che, dal dopoguerra ad oggi, la nostra nazione sia stata completamente incapace di sviluppare un’adeguata “cultura della sicurezza”, e ne adduceva ad esempio l’eccessivo credito che non solo l’opinione pubblica, ma addirittura la magistratura, conferisce alle ragioni delle “mamme preoccupate e ambientalisti vari che cercano di impedire che il Muos, il sistema militare americano di comunicazioni satellitari, entri in funzione a Niscemi, in Sicilia”, per concludere infine perentorio: “Ciò che accade intorno a noi, dovrebbe convincerci di quanto inconsistenti siano le giaculatorie sulla necessità di una ‘Europa politica’, la quale, come è noto, viene sempre evocata solo quando si parla di euro e di banche. Si dimentica che le unificazioni politiche non si fanno col burro ma con i cannoni. Sono sempre state guerre e minacce geopolitiche a innescarle”. Il tutto, come vedete, – e la citazione mussoliniana[35] sta lì a dimostrarlo – con una tale franchezza e disinvoltura da far impallidire persino Lombroso!

 

RisikoUn vero e proprio frastuono, più che un mormorio, esplose all’interno della sala e il pubblico, sino ad allora pietrificato, cominciò ad agitarsi in gesti scomposti e disordinati. Alcuni iniziarono ad andarsene, intimando allo stesso tempo gli organizzatori di guardarsi bene dall’invitare certa gente ai convegni. La maggior parte, però, sembrava proprio intenzionata a restare per indirizzare direttamente a me medesimo e coi più coloriti aggettivi il proprio disappunto. Per distrarre i miei muscoli dalla raffica di tic che stavano invadendo il mio corpo sull’orlo di una crisi di nervi, afferrai di scatto la copia della «Nuova Antologia», ma nessuno sembrò far caso al mio gesto che in altro frangente sarebbe potuto apparire (involontariamente) minaccioso. Più inviperita degli altri, una nutrita schiera di professori bolognesi si alzò in piedi a ribadire, quasi in coro, che Angelo Panebianco insegnava da molti anni nell’Ateneo di Bologna, che il suo valore scientifico era noto a livello nazionale e internazionale e che la sua capacità e il suo impegno come professore ne facevano un maestro apprezzato dai suoi studenti e del quale tutta la comunità accademica era orgogliosa.

Improvvisamente, la tachicardia che mi stava incessantemente divorando il petto si fermò di colpo e ogni singolo muscolo del mio corpo si distese in un’incontenibile espressione di stupore. “Se i colleghi vedessero quel che sto vedendo io!!!” dissi a me stesso, quasi in uno stato di trance. La copertina del volume di «Nuova Antologia» spalancato tra le mie mani aveva infatti cominciato a farsi sempre più rigida e sottile, sino a raggiungere una consistenza molto simile a quella di una tavoletta di plastica. Le pagine che avevo aperte, da scure, rotte, increspate e fragili che erano a causa della loro veneranda età, si facevano invece sempre più lisce e dure come uno schermo, colorandosi per giunta di un bianco sempre più luminoso nella colonna centrale e di un grigio tenue in quelle laterali, l’una e le altre sovrastate da una banda blu acceso ed intenso, che correva orizzontalmente in prossimità del bordo superiore. Più che un sorriso, un ghigno quasi beffardo si dipinse sulle mie labbra, quando avevo cominciato a capire cosa stava prendendo forma sotto i miei occhi. In cima alla bianca colonna centrale apparve un piccolo riquadro con una foto del profilo di Lombroso, affiancata subito a destra dal suo nome e cognome scritti nello stesso blu della banda. Appena sotto si potevano leggere le seguenti parole.

Cari amici, ho appena scritto un pezzo per la «Nuova Antologia di scienze, lettere ed arti». S’intitola “Il pericolo tripolitano” e ne posto qui sotto un passaggio al quale tengo particolarmente:

“Tutto prova, che in forma insidiosa, ma sempre più tenacemente progrediente, noi andiamo avvicinandoci a nuove difficoltà, simili o peggiori ancora forse di quelle dell’Eritrea – alla conquista di Tripoli. […] Ora è giusto che qualcuno parli ben chiaro, prima che l’impresa meditata alla sordina diventi un fatto compiuto. La verità è che tutta la base, da cui si parte per le imprese coloniali, specialmente nell’Africa, è sbagliata.”[36]

Se siete d’accordo condividete affinché tutti se ne rendano conto!!

SVEGLIA!!!1!!1!!!1

 

 

[1] Eugène Sue, Les mystères de Paris (1842-43), Gallimard, Paris 2009, trad. it. di M. Militello, BUR, Milano 2011, p. 33.

[2] Dominique Kalifa e Marie-Eve Thérenty (a cura di), Les Mystères urbains au XIXe siècle : Circulations, transferts, appropriations, http://www.medias19.org/index.php?id=17039

[3] Francesco Mastriani, I Misteri di Napoli. Studi storico-sociali, Napoli, G. Nobile, 1869, pp. VII-VIII.

[4] Ausonio Liberi [Alessandro Giuseppe Giustina], ‘L cit d’Vanchija. Romanzo giudiziario, Torino, Candeletti, 1878, pp. 8-11.

[5] Cesare Lombroso, Sull’incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo, Torino Bocca, 1879, p. III.

[6] Delia Frigessi, Un amore corrisposto, in Id. Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, pp. 327-352.

[7] Alfredo Niceforo, Scipio Sighele, La mala vita a Roma, Torino, Roux Frassati, 1898, pp. 51-52.

[8] Paolo Marchetti, Le ‘sentinelle del male’. L’invenzione ottocentesca del criminale nemico della società tra naturalismo giuridico e normativismo psichiatrico, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», vol. 38, 2009, p. 1023.

[9] Mario Da Passano, Echi parlamentari di una polemica scientifica (e accademica), «Materiali per una storia della cultura giuridica», a. XXXII, 1 (giugno 2002).

[10] “Questo oggetto di conoscenza scientifica, figura protagonista della scena culturale e di quella sociale, epigono della normalità, metafora vivente dell’ordine e del progresso, è al centro di molteplici interessi, di pratiche e metodologie differenziate. Magistrati e filantropi, giudici e medici, poliziotti e letterati, politici e religiosi, all’interno di una situazione che spesso non conosce differenze, o quasi, di specialismi, intrecciano conoscenze ed intervengono spesso con imperialismi di ruolo”, Renzo Villa, Il deviante e i suoi segni. Lombroso e la nascita dell’antropologia criminale, Milano, Franco Angeli, 1985, p. 8.

[11] https://www.youtube.com/watch?v=7ndtFjJW_zo

[12] http://www.beppegrillo.it/2010/05/i_neoborbonici_contro_lombroso.html

[13] http://www.nolombroso.org/it/

[14] http://www.nolombroso.org/it/petizione/

[15] http://www.castelvecchieditore.com/la-vergine-delle-ossa/

[16] http://torino.repubblica.it/cronaca/2010/08/09/news/lombroso_trasformato_in_detective
_al_manicomio_di_collegno-6165483/

[17] http://www.garzantilibri.it/default.php?page=visu_libro&CPID=3234

[18] http://www.rizzoli.eu/libri/luccisore/

[19] Ivi, p. 234.

[20] Michel Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano 2009, p. 282.

 

[21] Delia Frigessi, Cesare Lombroso, Torino, Einaudi, 2003, p. 375.

[22] Daniela Fozzi, Una «specialità italiana»: le colonie coatte nel Regno d’Italia, in Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, Roma, Carocci, 2004, p. 216.

[23] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, in Luciano Violante (a cura di), Storia d’Italia. 14. Legge Diritto e Giustizia, Torino, Einaudi, 1997, pp. 487- 489.

[24] Edoardo Scarfoglio, Il romanzo di Misdea (1884), Manola Fausti (a cura di), Firenze, Polistampa, 2003.

[25] https://archive.org/stream/firenzesotterra00fabbgoog#page/n25/mode/2up .

[26] https://passeursdhospitalites.wordpress.com/2016/02/29/destruction-du-bidonville-autres-temoignages/; https://www.youtube.com/watch?v=MWFvh4Lr3hs .

[27] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit. p. 489.

[28] http://www.lemonde.fr/idees/article/2015/12/23/de-l-etat-de-droit-a-l-etat-de-securite_4836816_3232.html; http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-01-23/guerra-stato-diritto–212159.shtml?uuid=AC3pO39B&refresh_ce=1

[29] Mario Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano, cit. p. 489.

[30] Paolo Marchetti, L’armata del crimine. Teoria e repressione della recidiva in Italia. Una genealogia, Ancona, Cattedrale, 2008, p. 115.

[31] Alessandro Lioy, Colonia penitenziaria ad Assab. Conferenza alla Società Africana d’Italia, Napoli, Stabilimento tipografico Morano, 1884, p. 6.

[32] Citato in Daniela Adorni, Crispi: un progetto di governo, Firenze, Olschki, 1999, p. 421.

[33] Enrico Ferri, Sociologia criminale, Torino, Bocca, 19004, pp. 885-886.

[34] Citato in, Mario Da Passano (a cura di), Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, cit., p. 286n.

[35] https://staffetta.noblogs.org/post/2016/02/25/e-il-prof-panebianco-cito-mussolini/

[36] Cesare Lombroso, Il pericolo tripolitano, in «Nuova antologia di scienze lettere ed arti», vol. 182, marzo-aprile 1902, pp. 721-722.

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silvia contarini
Silvia Contarini è docente di "littéraure et civilisation de l'Italie contemporaine" all'università Paris Ouest Nanterre la Défense. Dirige la rivista Narrativa.