Tutti i ragni 1 – I ragni e l’infanzia

Il mese scorso è arrivata un brutta notizia, :duepunti edizioni di Andrea Libero Carbone, Giuseppe Schifani e Roberto Speziale chiudeva definitivamente i battenti. In realtà l’editore palermitano aveva già sospeso le pubblicazioni nel dicembre duemilaquattordici, limitandosi a vendere ciò che c’era già in catalogo. Un fatto particolarmente doloroso dato che avveniva sostanzialmente per ragioni distributive, e nonostante la qualità della proposta di :duepunti fosse ampiamente riconosciuta.

Capaci di riproporre Il verbale del nobel Le Clézio tre anni prima del premio, portatori di libri imprescindibili come Europeana di Ourednik, ideatori di una collana di saggistica raffinatissima, tra le loro proposte c’era anche la bella collana Zoo diretta da Vasta e Voltolini, nella quale ho avuto il piacere di uscire – in compagnia di Abbate, Bianchi, Enia, D’Amicis, Falco, Genna, Giorgi, Lagioia, Magliani, Mozzi e Santangelo – con un piccolo romanzo dedicato ai ragni.

Adesso Tutti i ragni torna di pubblico dominio, pertanto assieme all’amica Francesca Matteoni abbiamo deciso di pubblicarlo in otto puntate, tante quante le parti che lo compongono, qui su Nazione Indiana; a margine dell’ultima puntata anche l’ebook verrà lasciato in libero download (V.S.).

di Vanni Santoni

The spider’s touch, how exquisitely fine!
Feels at each thread, and lives along the line.
Alexander Pope, An Essay on Man

 

1Pseudo-araña_nocturna_(opilion)Ho sei anni. Sono in montagna. I miei genitori hanno preso in affitto un appartamento in questo edificio molto grande, un complesso di case. Forse una volta è stato un convento, dice mio padre. Muri in pietra, ogni pietra un lichene; muschio su quelle più basse. Nel nostro cortile, sedie di lamiera traforata e un tavolo di pietra attorno al quale tre massi fanno da sgabelli.

Mia madre mi indica un bambino, nel giardino della casa sull’altro lato. Lo vedo alla distanza, ha una tuta, anzi un toni, marrone. Ha la tua età, dice mia madre. Il bambino non mi ispira fiducia. Mia madre mi porta giù. Parla con la madre del bambino. C’è forse un complotto. Il bambino mi guarda storto, ha il naso sudicio. Su uno scalino di pietra, in fondo, gorgoglia e ridacchia una lattante. Ha i capelli neri, come il bambino lì davanti a me. Sento sopra di me le chiacchiere di mia madre con la madre del bambino. Il bambino mi chiede se voglio vedere i sassi che ha raccolto. Dai, vai a vedere i sassi che ha raccolto Federico, dice mia madre.

Venti minuti più tardi siamo migliori amici. Le nostre madri ci permettono di stare non solo in giardino, ma anche di passare sotto a un buco nella rete che c’è sul lato sinistro e andare nel greppo accanto alla casa. Oltre il greppo c’è una siepe di tasso che protegge il cortile di una villa buia, dove non andiamo. Giochiamo nel greppo. Ci lanciamo giù su delle tavole di compensato, cadiamo e ci ributoliamo nella rena. In fondo al greppo c’è una strada. A sinistra la strada si ferma quasi subito e c’è una casa, ci abita un bambino di poco più grande di noi. Ha una camicia a quadretti rossi, scarponcelli ai piedi. Ci guarda male. Noi pure lo guardiamo male. A destra invece la strada continua. L’unica automobile che la percorre in uno o nell’altro senso è la R4 del nonno del bambino. A volte, seduto davanti come un grande, c’è anche lui. Passa e ci guarda male da dietro il finestrino.

Ogni giorno esploriamo un pezzo di strada in più. Molto a destra la sterrata sbocca in una strada grande, asfaltata. È la statale, dico a Federico. Lui mi guarda. Se vai in su arrivi a Vallombrosa, gli dico. E se vai in giù?, mi chiede, ma mio padre non mi ha mai parlato di cosa succede se vai in giù. Arrivi a Montevarchi, butto là.

Le automobili passano veloci, lì. Ci fermiamo, ne guardiamo sfrecciare un paio. Quando facciamo per tornare sui nostri passi, notiamo una macchia di ortiche, proprio dove la sterrata fa angolo con la statale. Una poderosa spuma d’ortiche, e le più grosse, in mezzo, sono molto più grosse di qualunque ortica tu possa incontrare da sola. Dietro la macchia, un alto muro. Ti immagini a cascare da lassù e finire in mezzo alle ortiche, dico. Federico si avvicina alla macchia e mi dice: guarda.

Quasi tutte le piante d’ortica hanno sopra un ragno. Molte ne hanno due, alcune anche tre o quattro. Stanno lì fermi sulle foglie più grandi. Sono ragni dal corpo a bottone, giallo con una striscia nera in mezzo, le zampe lunghe e fini.

Nei giorni successivi è un via vai continuo alla “ragnaia”. Dal cortile andiamo nel greppo, scendiamo coi compensati, guardiamo male il bambino in camicia, facciamo tutta la strada, arriviamo alla ragnaia, preleviamo i ragni, li mettiamo dentro a delle caraffe che prendiamo a mia madre, li riportiamo al cortile, mettiamo le caraffe sul tavolino di pietra. A volte nelle caraffe c’è un residuo di miele e i ragni ci restano impiastricciati con quelle zampe sottili. Usiamo anche una scatola da scarpe, senza neanche metterle il coperchio: questi ragni sono lenti e prima che ce la facciano a uscire siamo già tornati da un altro giro alla ragnaia e li spingiamo di nuovo giù prima di buttare dentro i nuovi. Siamo così orgogliosi della ragnaia che un giorno lo diciamo anche al bambino lì sotto: abbiamo la ragnaia! Quello ci guarda male.

Prendiamo moltissimi ragni e li portiamo su, stiamo in cortile a giocare coi ragni. Li facciamo scappare e li catturiamo. Facciamo percorsi per i ragni. Smontiamo i giocattoli più grossi, ci mettiamo i ragni dentro e li guardiamo mentre cercano di uscire. Proviamo a dare delle formiche ai ragni, ma i ragni le ignorano e quelle scappano via. Proviamo a staccare una zampa a un ragno e lo guardiamo camminare appena un poco fuori asse. Proviamo a staccare due zampe a un ragno. Tre zampe. Un ragno a cui abbiamo staccato tutte le quattro zampe di un lato arranca in diagonale. Guarda questo, fa Federico. Guardo il ragno a cui ha staccato tutte le zampe. Guardo sulla pietra quel povero bottone giallo e nero.

Ho otto anni. Al mare nel primo pomeriggio non si esce, fuori il sole schianta la città, fa sudare veleno agli oleandri e scalda le radici dei pini, che escono e fanno saltare i marciapiedi. Abitiamo da una signora che in estate affitta la casa e va a stare nei fondi. La signora ha un marito che l’anno scorso è morto. Aveva grandi piedi nei sandali e occhiali da sole fumé. Girava in giardino, fumava moltissime sigarette. La stanza dove gioco è il suo salotto, si capisce perché ci sono molti posacenere, e in un cassetto anche una scorta di Merit. Noi mangiamo in tinello, dove c’è un quadro che secondo mia madre ha un valore, perché la signora che ci affitta la casa lo ha vinto a bridge a un’altra signora che abita due strade più in là, che aveva il marito pittore e si è ritrovata povera e allora si gioca i quadri oppure se li vende per un nulla. Quello che c’è in tinello rappresenta una specie di laguna. È il lago di Massaciuccoli, dice mio padre.

Gioco con i Transformers. Ho molti Transformers, mio padre mi fa una specie di concorso in cui per ogni cosa buona che faccio prendo dei punti oppure ne perdo in caso di azioni cattive, ma è un arbitro più che benevolo e questa evenienza è quasi impensabile. Quando raggiungo tot punti posso ottenere dei premi, oppure avanzare fino a ottenere il premio finale. Punto sempre e solo al premio finale, e chiedo sempre uno dei combiner, quei grossi robot composti da cinque Transformers. Pentacar, con cui sto giocando in quel momento, è composto da Transformers che divengono rispettivamente una Porsche, una Lamborghini, una Tyrrell da Formula 1, una Ferrari 308 e un tir, che forma il corpo centrale del robot gigante – le altre auto sono gli arti.

Qui a Viareggio c’è un bambino che ha anche più Transformers di me, nonostante io non faccia altro che comportarmi bene e chiedere in cambio Transformers. Ha anche i Gi-I-Joe (che io non ho), i Masters (dei quali ho solo Skeletor, Moss-Man e Modulok) e qualunque Playmobil sia mai stato stampato. Si chiama Tommaso, ha una testa grossissima e sta con i nonni in una casa simile alla nostra, ma senza una padrona nei fondi. Non so se i suoi genitori siano morti o cosa, fatto sta che vive con questi nonni che gli comprano qualunque cosa. E infatti ha anche Predaking, il combiner più grosso di tutti, che non ho mai osato chiedere a mio padre perché: a) a differenza degli altri non viene venduto anche in una scatola unica, ma lo puoi ottenere solo comprando tutti i singoli Predacon. b) un singolo Predacon costa 35.000 lire. Per capirci, le singole auto di Pentacar ne costano 9.900. A volte al pomeriggio vado da lui, ma non giochiamo a Transformers: giochiamo a videogame perché al mare non ho il computer mentre lui ha l’Amiga con Bard’s Tale e Tass Times in Tone Town.

Se non vado da Tommaso gioco in casa perché in giardino spesso c’è la signora e non mi piace incontrarla. L’anno prima, che era il primo anno in cui affittavamo quella casa, ci andavo spesso perché il marito della signora aveva una tartaruga. Ma quest’anno che non c’è più il marito, non c’è più neanche la tartaruga.

Gli avvolgibili sono abbassati per il caldo; l’impiantito di marmo è fresco. Sul tavolo una brocca d’acqua, i resti di tre cubetti di ghiaccio che vanno a scomparire. Mia madre e mio padre non ci sono.

Se i Transformers hanno un difetto, è che se li trasformi in modalità automobile, o camion, o ruspa, e poi li lanci, fanno poca strada. Non come una Hot Wheels o una Micromachine, per capirci. Si arenano quasi subito, oppure curvano e si fermano. Giusto la Porsche di Pentacar va un po’ meglio. Vado in cucina, prendo l’oliera, la porto in salotto. Le olio le ruote, ma dall’oliera esce troppo olio e fa una chiazza per terra. Vado a prendere un panno e asciugo l’olio, ma sul verde del marmo rimane un’ombra. In quella, un tac tac tac tac dall’angolo più lontano della stanza e lo vedo arrivare, rosso, spesso, veloce. Passa sotto il tavolo e sfreccia verso di me. Passa in quella zona dove il buio della stanza è fesso dalla luce, e l’impiantito diventa  un alternarsi di rettangoli verde e oro. Alla luce il suo rosso è arancio; le zampe scattano meccaniche sui lati. Su per la schiena ho un solletico: un fruscio. Mi sposto di lato, il ragno che passa oltre e infila le scale, come se sapesse benissimo dove andare. Mi tolgo la maglietta, per controllare di non avere un ragno sulla schiena e resto lì mezzo spogliato, con qualche brivido ancora addosso.

[I – continua]

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francesca matteoni
francesca matteonihttp://orso-polare.blogspot.com
Curo laboratori di poesia e fiabe per varie fasce d’età, insegno storia delle religioni e della magia presso alcune università americane di Firenze, conduco laboratori intuitivi sui tarocchi. Ho pubblicato questi libri di poesia: Artico (Crocetti 2005), Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012); Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014); Acquabuia (Aragno 2014). Dal sito Fiabe sono nati questi due progetti da me curati: Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012) e ‘Sorgenti che sanno’. Acque, specchi, incantesimi (La Biblioteca dei Libri Perduti, 2016), libri ispirati al fiabesco con contributi di vari autori. Sono presente nell’antologia di poesia-terapia: Scacciapensieri (Millegru, 2015) e in Ninniamo ((Millegru 2017). Ho all’attivo pubblicazioni accademiche tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras 2014). Tutti gli altri (Tunué 2014) è il mio primo romanzo. Insieme ad Azzurra D’Agostino ho curato l’antologia Un ponte gettato sul mare. Un’esperienza di poesia nei centri psichiatrici, nata da un lavoro svolto nell’oristanese fra il dicembre 2015 e il settembre 2016. Abito in un borgo delle colline pistoiesi.