Overbooking: Roberto Plevano
Cogitationes
di
Roberto Pievano
Non che il mondo avesse bisogno di un altro romanzo storico di ambientazione medievale, certamente no. Imperterrito, inizio a lavorare a un progetto narrativo intorno sulla Marca veronese del XIII secolo (geograficamente corrispondente grossomodo all’attuale regione Veneto, con l’esclusione di Venezia e provincia). Il proposito è di ricostruire e rappresentare, per quanto possibile, mentalità e modi di pensare e di vivere di quel tempo, mettendo in secondo piano trama, intrecci e artifici letterari propri di un gusto di lettura più moderno.
L’uso della prima persona suggerisce una tecnica di roman à clef, tuttavia non c’è diretto riferimento al tempo presente. È storicamente problematico parlare di un’“Italia” e di “Italiani” nel XIII secolo. Allora la Marca veronese era la cerniera tra il mondo germanico e l’al di qua delle Alpi. Processi economici e sociali, strutture di potere e conflitti disegnano un quadro assai variegato e mutevole, tanto che oggi gli storici non si riferiscono principalmente ai contrasti tra Guelfi e Ghibellini o tra il particolarismo dei Comuni e le tendenze universalistiche dell’Impero, ma sono cauti nell’esporre linee generali di profili e tendenze di lungo periodo. Soltanto per fare un paio di esempi, allora tra gli abitanti di Padova e Verona e quelli di Venezia correvano distanze paragonabili oggi a quelle tra, mettiamo, Dubai e Londra. Né esisteva un’Europa di assoluta omogeneità religiosa: Musulmani nel regno di Sicilia e nella penisola iberica, Catari in Occitania, in Lombardia e Marca, Ebrei, erano minoranze significative e ben presenti in molti tessuti sociali. E c’è un’interessante e drammatica storia del potere, che è tentativo di dare forma stabile al passare degli uomini, e rilevanza a se stessi e ai propri interessi, con l’uso della persuasione e della forza.
Il XIII è stato un po’ il secolo di nascita della lingua letteraria italiana, con le scuole poetiche del regno di Sicilia e di Toscana. Tuttavia non ci si può nemmeno avvicinare alla lirica nei vernacoli cisalpini e peninsulari senza conoscere il grande fenomeno dell’emigrazione della poesia provenzale in Italia, che ha interessato soprattutto le corti e le città della Marca e di Lombardia. La lirica provenzale, a partire dalla fine del XII secolo, ha diffuso duraturi modelli di gusto ed etichetta, ha costruito una poetica e ha offerto una pratica sociale di letteratura passata in altre epoche. E invece la lingua della comunicazione culturale, del culto e delle leggi rimaneva il latino.
Un racconto, se ben riuscito, riflette l’esperienza in forma organica. Il romanzo di periodo è finzione, naturalmente, ma illustra verità storiche altrimenti ricavabili soltanto da un paziente studio di fonti e documenti, aggiunge per così dire un surplus di realtà alle nostre rappresentazioni, ricavato proprio dalla sintesi narrativa.
La clef del romanzo semmai sta proprio nell’uso della prima persona, nella dialettica di distacco e identificazione dell’autore (e sperabilmente del lettore) con il protagonista, Amalrico, intellettuale (organico a una corte signorile della Marca) addottorato in medicina e divenuto magister Artium. Chi pensa e scrive muove sullo sfondo di un inevitabile vissuto, di cose che hanno commosso e cose che è impossibile mandare giù; sa che il tempo è perduto, ma non getta la spugna.
Il romanzo Marca gioiosa ha avuto la buona sorte di vincere la II edizione del Premio Nazionale di Letteratura Neri Pozza. La pubblicazione presso questo editore è prevista nel 2016. L’espressione gioiosa Marca non è di origine italiana: si trova nel poema cavalleresco L’Entrée d’Espagne, scritto in franco-veneto nei primi decenni del Trecento: (v. 10976) En la joiose Marche del cortois Trivixan.
Qui di seguito una pagina: il protagonista, ormai invecchiato, incatena cogitationes.
da Marca gioiosa ( ed. Neri Pozza)
Ho vissuto tra gli uomini, ho vissuto come un uomo. Con alcuni uomini ho condiviso le cose che ho imparato.
Che cosa ho imparato? La cosa più difficile è stata… disimparare, disimparare il superfluo, che è il danno della mente. La cosa più difficile è dimenticare il cielo sopra di me, che non serve. Quello che gli uomini chiamano cielo è il vuoto in cui cadono le grida, in cui suppliche e pentimenti si spengono.
Come un uomo… ho creduto di essere un uomo, eh? Un corpo e un’anima razionale, così hanno detto, così ho letto, così ho creduto: ecco, è questo il mio essere… Ma io, che cosa ricordo io, prima di dire così di me? Ricordo qualcosa come un sentimento: gioia e tristezza, e sorpresa, e paura, e rabbia, e disgusto… nomi dati molto tempo dopo quel sentire, che sorge tutto intero, tutto insieme… I nomi di queste disposizioni arrivano buoni ultimi, prima c’è stata la passione stessa, di cui i nomi non sono nemmeno tracce sicure. E le cose che associamo alla passione… non sono proprio cose, no? Sono, dicono, hanno detto, anch’esse altre passioni, sentimenti dentro l’anima. Tutto è passione e sentimento, non è così? Vedo una cosa, la immagino, solida, estranea… No, no, sento l’effetto che l’urto con la cosa, che sia realtà esterna della cosa o quella interna dell’avvicendamento di cogitazioni – come distinguerle? – produce su di me, che sono fascio, condotto di passioni. Ecco, il torrente che siamo. Un torrente che scorre nel tempo che scorre. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più vera, più mia. Le gioie sono tutte diverse, la tristezza è la stessa in ogni epoca della vita. Ricordo la gioia per prima, perché è stata la passione più intensa, più breve, l’unica rimpianta, la sola che tento di risuscitare, da mattina a sera, e per tutta la notte. Il torrente impetuoso, nel tempo che scorre.
Ah, mi pare di sapere, ogni acqua, anche la minuscola goccia, scende infine al mare, nel pelago infinito della sostanza, dicono, hanno detto, ma l’acqua del mare si muove sempre, non trova mai quiete… Come ogni storia, se si continua a raccontare abbastanza, termina con la morte, signore assoluto, infinito nulla, dicono, hanno detto. Ma nemmeno le ossa, le ceneri, la polvere, trovano mai quiete.
«In poesia la morte non è mai l’ultima parola, messer Amalrico.»
Già, già… ricordo bene, credo di aver capito. Soltanto tu potevi dirlo, soltanto tu, non per consolare, non per rimediare allo strappo di quella parola, morte – se non l’ultima, la meno conosciuta. L’hai detto allora come un ordine, senza un perché. Mi hai detto: vivi! Vivi, e quindi respira, impasta la lingua di saliva, parla. Cantare e scrivere, che altro fare, se si vive? Così si dà forma al sentimento, significato all’esperienza, ancora al di qua dalla parola sconosciuta e impronunciabile. Dare un corso, una direzione al flusso, no? E la morte è il nulla, l’esaurirsi del corso, e non si può dire, ma la morte ancora non c’è, tu e non la morte sei la presenza assoluta, la mia signora. Prima che il gran fiume si arresti, fammi sapere dove tu sei stata trascinata. Dove sei ora?
E quanto al resto, ritornando a quello che ho imparato… ricordo che ho compreso qualcosa, sì, ho avuto un qualche intendimento, come si dice nei libri, che vorrebbe dire collegare cose e fatti che prima dell’intendimento se ne stanno soli soletti per sé, – e il culmine, la vetta dell’intendimento è, dovrebbe essere, comprendere che tutte le cose sono in relazione, non soltanto alcune, e il modo di questa relazione – e il poco che ho compreso, che ho creduto di comprendere, mi ha lasciato meravigliato, costernato, indifeso, incapace di metterlo a frutto, e se non avessi compreso questo poco, avrei vissuto lo stesso, certamente, forse meglio – una vita soddisfacente, di cui compiacersi – o magari non avrebbe fatto alcuna differenza. E pure, ricordo che ho ritenuto coloro che non comprendevano, i più – che pensavo diversi da me – in qualche modo bisognosi di istruzione, di correzione, come se proprio io fossi quello che poteva aggiustare, dare lezioni… Già, già, si è visto. I miei cari sono morti, il mio amore non so dove sia, non so come stia, io sono vivo, per ora, in cieca e ottusa obbedienza al dettame del mio amore, che mi ha imposto di vivere – in virtù della tremenda passione da lei in me causata –, ma che di questo mio vivere non sa nulla, non essendo mai stata accanto a me. Non sono sicuro che vivere senza il mio amore accanto sia un bene. No, no, pensare così non è giusto… teniamo per fermo, come un assioma, che l’esistenza, in se stessa e per se stessa, sia un bene.
Deve essere una faccenda di equilibrio, deve essere il fatto che ciascun vivente vive trovando da sé e negoziando i termini della sua esistenza. Inizia con il senso di sé, inizia col dire: io sono io e tu… ah, non c’è ancora nessun tu, ci sono io, ma io non basto a me stesso, c’è qualcosa che mi sostiene, c’è qualcosa che dà calore, di cui ho bisogno… ecco, quello sei tu. Ci sei tu. Al senso di sé si associa allora il senso del tu.
Ma pensare rimane un obbligo. Pensare, pensare, penare… non se ne può fare a meno, così come non si può fare a meno di essere quel che si è, qualunque cosa esso sia. Io sono il mio pensiero, sono il pensare, il dubitare, il concepire, l’affermare e il negare, il volere e il non volere, l’immaginare anche, il sentire… ah, quello mi è caro, sono anche materia, carne e ossa e sangue con cui ho sentito, dolori e l’immenso piacere della prossimità della cara persona. Ma forse altro rimarrà di me, esaurita la materia: qualcuno magari dirà un giorno, molto tempo dopo la mia morte, che il maestro volle istituire una scuola: quell’antico volere era il maestro; che il maestro dubitò di un qualche articulum fidei: quel remoto dubitare era il maestro; e così via. Non diciamo forse che Aristotele afferma che è evidente che gli uomini possono conoscere e comprendere le cose? Che il desiderio di conoscere e comprendere è la natura dell’uomo? Aristotele, da lungo tempo morto, rimane oggi quell’affermare. Su tutto il resto, di Aristotele si sa poco: quale il suo aspetto? Dove il suo luogo di nascita? La sua dimora? Dove la sua tomba? Quali i suoi dolori, e le gioie? Così, anche se nessuno potrà dire che il medico di Salerna abbia amato la sua donna sopra ogni cosa, attraverso se stesso e oltre se stesso, perché questo sentimento non ha avuto testimoni, e la sua donna rimarrà muta, ignara, tuttavia quel sentire è stato, ed è, fino a ora, il medico di Salerna, che medico non è. Nulla si può dire di lui se non che è stato qualcosa come uno spirito, un intelletto, una ragione, un sentimento, un’anima, senza attributi.
Pensare, pensare… è desiderio di conoscere, certamente. E pure so che desiderare qualcosa non ha nulla a che fare con l’esistenza, o anche la mera possibilità di esistenza, di quella cosa. Conoscere… che cosa vuole dire conoscere? Se gli uomini, tutti gli uomini, desiderano conoscere, ne deriva che odiano l’ignoranza. Se conoscere è impossibile agli uomini, e l’ignoranza è la loro condizione naturale, come ritiene Pirrone, – che è stato ed è, evidentemente, questa sua opinione – allora ne consegue di necessità che gli uomini odiano… odierebbero la loro condizione naturale, se ne avessero effettiva contezza, cioè se conoscessero con verità che non conoscono, il che, per il discorso stesso di Pirrone, non può avvenire. Deve essere stato allora per ripugnanza verso questa conclusione che Pirrone è tenuto in spregio, e che la radice dell’errore, che è occorrenza di ignoranza, viene posta nei sensi o in qualche imperfezione della mente, la quale mente, usando bene delle sue capacità, eviterebbe certamente errori e ignoranza e non si agiterebbe in un mondo di ombre e immagini vane, come ritengono gli spregiatori dell’opinione di Pirrone – che è stato, ed è, la sua stessa opinione. Dicono, infatti, che non sono autentici filosofi quelli che pongono il giudizio della verità nei sensi, e sostengono che tutto quello che è appreso debba essere misurato secondo le malsicure e fallaci regole dei sensi. E che la mente concepisca le sue nozioni sulla base dei sensi del corpo, e che tutto quello che si impara e si insegna da essi prenda forma e si trasmetta, è considerata un’opinione di cui scandalizzarsi, perché, dicono, con gli occhi carnali non si può vedere la forma della sapienza, che è bellezza, ma soltanto con la luce della mente. Uno è l’oggetto della mente, dicono, un altro quello dei sensi.
Ah, il medico ha esaminato con i suoi occhi gli occhi degli uomini, ha cavato dalle orbite dei deceduti e dei condannati i bulbi oculari, li ha sezionati con il coltello e ha visto che l’occhio è una sorta di umore spesso e cristallino, come una lente minutamente levigata, che riceve la luce e, a misura della curvatura della sua superficie, la concentra su un tessuto dell’occhio simile a una retina, che viene così impresso dalla luce e muove il nervo che dall’occhio, sicut ramusculus, si propaga nella parte anteriore del cerebro. Il medico ha del pari esaminato gli altri organi del corpo, la pelle, il canale uditivo, le cavità nasali, la lingua mozzata degli spergiuri, e in tutti ha trovato aliquos ramusculos di nervi o vene che si estendono in tutto il corpo, come la rete di canaletti coextenditur in ogni parte della foglia dell’albero. Attraverso questi nervi vel ramusculi scorre la capacità o virtù sensitiva, dal cerebro in tutto il corpo – sebbene Aristotele dica erroneamente che scorra dal cuore, e i medici lo correggono su questo. Errori, errori, errori, Aristotele è il suo opinare, è il suo errare…
Gli occhi della mente… io mica li ho visti. Ho sezionato in lungo e in largo una quantità di cerebri, appartenuti un tempo a gente il cui capo fu separato violentemente dal corpo – e a cui evidentemente il cerebro non era più di alcuna utilità – e posso dire che il cerebro è composto di tessuti circonvoluti non dissimili da quelli degli altri organi del corpo, e nemmeno il cerebro, al pari della mano o del fegato o del cuore, può avere alcuna virtù se non è congiunto con il corpo. A me pare che il cerebro unito al corpo riceva dai ramusculi dei nervi le alterazioni degli organi dei sensi, che sono movimenti secondo la qualità, come una specie di specchio che riflette la luce, o di pagina che riceve le lettere da un copista, e abbia così la virtù di formare come un testo da queste alterazioni: compone cioè delle immagini dei corpi, che sono impresse in un tessuto interno del cerebro, che noi altrimenti chiamiamo mente. Similmente, le lettere tracciate su una pagina vanno a formare un testo.
Resta però da determinare – la gente dice che sono un maestro e si aspetto che io determini – se queste immagini siano davvero la conoscenza che gli uomini tutti desiderano. Tutti gli uomini, pensano, dubitano, concepiscono, affermano, negano, immaginano, desiderano, detestano, si intristiscono, si disperano anche… Aristotele dice che la mente è la parte dell’anima con la quale l’anima conosce e pensa, e quando finalmente conosce pienamente, la conoscenza e l’oggetto sono la stessa cosa… ma Aristotele erra, come ha errato sull’occhio e sul cuore. L’anima pensa, l’anima pena, l’anima si rallegra e piange, è presa da noia e tristezza, ma conoscere… tutt’al più, quando va bene, si accorge di aver preso cose false per vere, e quando se ne accorge, è sempre tardi per trovare un rimedio. Si ritiene quindi che le immagini nella mente non siano conoscenza.
L’anima si accorge di aver preso cose false per vere… che non significa necessariamente prendere poi altre cose per vere dopo essersi avveduti dell’errore, finalmente con piena e definitiva cognizione. Anch’esse si riveleranno false alla successiva – e spesso penosa – contezza. E dal momento che pare cosa naturale, ed essenziale per l’uomo, non soltanto il desiderio di conoscere, ma anche il deliberare e disporre un corso di azioni, Aristotele ritiene che la mente dell’uomo possa conoscere ciò che è vero e disporre ciò che è bene. Ancora l’opinione di Aristotele, ancora l’errore, perché se cose false sono prese per vere, ne consegue che azioni prese per buone sono in realtà erronee e pessime. E qui, maestro Aristotele, bisogna osservare che la storia degli uomini è un cumulo di rovine su rovine, lasciate ai nostri piedi da un’inarrestabile orgia di morte e distruzione, che ha come unica causa le nostre azioni, e quelle dei genitori, e dei genitori dei genitori, e così via. Ogni uomo nasconde a se stesso la disposizione, il presentimento della catastrofe incombente, e se potesse guardare alla propria vita dal suo punto estremo, la fine, non potrebbe evitare di vedere la sua parte di rovine, a cui nessun pentimento potrà rimediare.
Pentirsi non serve a niente, lo sapeva bene l’ipocrita frater Giovanni, che invitava tutti gli altri a pentirsi, per elevarsi sopra di tutti, per avere una qualche gioia degli occhi a veder bruciare tanta povera gente, che di quella rovina non aveva colpa. E il pentimento avviene persuadendosi che le cose umane siano disposte secondo un disegno intelligente e misericordioso, lamentando l’inconguenza di azioni passate, e proponendo di ordinare le azioni future in accordo con questo disegno. Disegno intelligente? Governare il conflitto è impossibile, il conflitto è volontà di annientamento, gli uomini in fondo desiderano avere potere sufficiente per sterminarsi a vicenda. Ricordo bene le cose che ho visto, non è faccenda di comprenderle, non c’è un perché. Il mondo è ciò che accade, mica quello che qualcuno crede di intendere. Se è un disegno intelligente, la condizione dell’agente di questa intelligenza non può essere felice, e così quella di tutti coloro che desiderano intendere. Meglio, molto meglio essere un bruto legato alla greppia, che non conosce il mattatoio, sa a malapena di essere vivo e non sa quando è morto. Essere una pietra inerte, nel fondo della terra, per sempre in quiete, per sempre in questo eterno accadere.
vai roberto!