Tutti i ragni 3 – Le cantine e i ragni
di Vanni Santoni
L’esistenza della casa dove sono cresciuto mi è sempre stata spiegata con un “l’ha costruita il nonno” che mi è sempre sembrato poco plausibile. La costruzione di un simile edificio richiede competenze che vanno dal muratore all’elettricista al falegname, e mio nonno ha solo un banco da falegname, col quale peraltro la cosa più complessa che gli ho visto costruire sono i portafavi per le sue api.
È pur vero che l’edificio non pare improntato al funzionalismo ma costruito, lì su una delle traverse alte di via Po, in base a un certo qual principio di buon senso e gusto del periodo: in base a scelte approssimative che si preparavano a patire il passare degli anni fino a dimostrarsi per lo più sbagliate.
La più grave fra queste coglionate è il fatto che i due appartamenti della casa non si sviluppano, com’è logico, in altezza, ma sono collocati uno sul primo e uno sul secondo piano. Il risultato è che mia nonna, che nel frattempo ha perso l’uso di una gamba, è rimasta intrappolata lì sopra, e dal momento che non può tollerare l’idea di vivere in un posto diverso da casa propria, ci rimarrà di certo fino a che non morirà. Un’altra di queste scelte irrazionali è l’aver dotato l’edificio di un sistema di fondi che sarebbe più appropriato definire catacombe, tant’è che ben presto i miei amici, con i quali in una di quelle stanze mi riunisco per giocare a D&D, li ribattezzano “il dungeon”. E con un dungeon i miei fondi hanno in comune, oltre alla pianta labirintica, oltre a curiosità architettoniche come buchi quadrati sui muri del corridoio e alte finestrelle che danno sull’esterno in punti del tutto casuali, oltre ai vicoli ciechi e alle stanze piene di armadi, bauli, botti, ziri, il fatto di essere piene di mostri. Non è raro infatti, per chi intraprende il percorso dalla stanza in cui giochiamo al bagno, incontrare scolopendre, scorpioni e soprattutto ragni. Il bagno in particolare è infestato, e i più pisciano a occhi chiusi, sebbene sia vero che un po’ ci crogioliamo in questa idea, e gli avvistamenti di questo o quell’avventuriero sono non di rado esagerati nelle dimensioni o nella quantità degli esseri incontrati. Quando però un giorno lo Staderini, chierico di 14° livello, torna e riferisce di aver visto un ratto, è chiaro che sta dicendo la verità: nessuno avrebbe osato inventarsi animali addirittura di diverso phylum.
Il giorno dopo, mio padre imposta un piano d’azione di ingegneristico razionalismo. Torna dalla mesticheria con tre tubi rossi, metallici, simili a quelli del dentifricio ma considerevolmente più grossi, industriali e cattivi. Sul barattolo un’onomatopea tipo “ZOCK!” scritta all’interno di una freccia che si abbatte su un ratto stilizzato, nero. Misura le soglie delle tre porte che costituiscono i principali snodi del dungeon e prepara tre cartoncini di quella stessa lunghezza, dotati di linguette attraverso le quali manipolarli, li spalma della colla contenuta nei tubetti e li colloca sulle soglie. Mi spiega che il ratto non potrà che passare sopra a quei cartoni e rimanerci appiccicato.
Tutto questo avviene prima di una vacanza di qualche giorno ed è grande, al ritorno, l’eccitazione di tornare e andare a vedere se la colla ha funzionato.
Io che scendo le scale, in avanscoperta, ancor prima che mio padre posi il cappotto nell’ingresso, e come arrivo mi blocco di fronte alla prima trappola. Sopra al cartone nessun ratto ma, a coprirne per intero la superficie, un mostruoso olocausto di ragni. Cinquanta, cento, uno sull’altro, ammassati, impiastricciati, ribaltati, i più ancora vivi, impegnati in una lotta di vani scatti con quella poltiglia fatta di colla e corpi dei loro simili. Sotto e in mezzo a quell’orgia di zampe e colla, a guardar meglio – perché, nonostante un conato che prende sostanza, mi avvicino, e guardo – un tappeto di altre creature: scolopendre, pesciolini d’argento, forbicicchie, cimici. E ragni: ragni grandi e piccoli, ragni filiformi, le zampe rese curve e molli dalla colla, ragni glabri e ragni pelosi, ragni gialli, neri, rossicci e uno rosa, osceno, come non ne avevo mai visti. Mio padre prende quell’orrore dalla linguetta e senza dire niente lo butta nella spazzatura.
✴
Viene poi l’alluvione. Al mio paese i fenomeni atmosferici fuori norma sono rari e vengono sempre ricordati. Qualcuno dice che così come si ricorda il gelo dell’85, così verrà ricordata questa alluvione. Qualcun altro si chiede, con una nota quasi di disappunto, come mai non sia stata sommersa anche Firenze.
Piove così tanto che non solo l’Arno, ma anche i borri, come quello che passa poco sotto casa mia, straboccano e la loro acqua gialla si porta via pezzi di steccato, alberi, cassonetti, le Ape Piaggio dei vecchini e pure qualche utilitaria. Casa mia è stata collocata dal buon senso di mio nonno su un’altura e quindi possiamo permetterci di stare lì in fondo, dove la nostra strada si unisce con via Po e guardare gli averi altrui passare per la via come se fosse effettivamente il Po. L’acqua tuttavia non smette di scendere e anche casa nostra si trova col giardino allagato. Da lì poi penetra nei fondi. Sento mia madre che mi chiama perché dia una mano con i secchi. Allora, dopo essermi goduto il passaggio di una 500 che oltre a procedere su quel fiume di limaccia verso il centro di Montevarchi effettua anche rotazioni sul proprio asse, mi smuovo e raggiungo il giardino.
C’è sempre un mistero più profondo, una verità che solo la natura può decidere di svelare. Nell’angolo tra il secondo e il terzo scalino del mio pianerottolo, al riparo dall’acqua e a poca distanza da un finestrino basso che dà sui fondi, un ragno formidabile. Ne ho visti di più formidabili, certo, ma in foto. L’anno prima mi è stato infatti regalato un libro che documenta ragni di ogni genere, con un occhio di riguardo per quelli velenosi come la placida e mortale vedova nera o il ragno eremita, scattante flagello texano in grado di necrotizzare i tessuti umani, oppure giganti come la tarantola e la migale. Lo sfoglio ogni volta con un brivido, guardando e non guardando quelle foto terribili; lo centellino, lo succhiello, immagino come possa essere venire morsi dal ragno eremita oppure scoprire sul muro di casa una migale. La risposta è davanti a me, poiché questo ragno, che è qui e adesso, ha in comune con le migali del libro le dimensioni. Ma è un ragno di qui: è marrone, ha le zampe affusolate. Non ha screziature, o le forme bombate, muscolose quasi, delle tarantole. È una tegenaria, un ragno di Montevarchi, ed è grosso come la mia mano. È qui e si protegge dall’acqua, questo sovrano dei fondi sfuggito facilmente alle trappole di mio padre e agli avvistamenti degli avventurieri della domenica sera, e non gli piace essere qui, quasi mostra una sua saggezza, una consapevolezza della possibilità di essere schiacciato dagli uomini – di essere schiacciato da me – e si difende con quello che ha: con l’orrore. In realtà sta lì ad asciugarsi, valuto: aspetta una botta di sole o almeno di caldo che lo rimetta in sesto, ma il pensiero non attecchisce. Colto da brividi, non oso superarlo; entro dal portone di mia nonna e raggiungo mia madre da sotto, attraverso il dungeon.
[III – continua]