Gambe in spalla
di Gianni Biondillo
Il 24 ottobre scorso – proprio mentre battevo chilometri a piedi con centinaia di persone attorno alle periferie di Milano per un evento che avevamo scherzosamente chiamato “Maratown” – il Ministro della Cultura Dario Franceschini dichiarava il 2016 anno nazionale dei cammini. Pochi mesi prima Papa Francesco aveva proclamato l’anno giubilare della misericordia da inaugurarsi a dicembre 2015. Così, con due semplici annunci, è sembrato quasi che l’Italia si fosse d’improvviso rimessa in cammino. Slogan perfetto, ora che ci penso, degno del nostro attuale presidente del consiglio.
Ma, al di là delle battute sul renzismo imperante, credo che quella di Franceschini non fosse una intuizione scaturita autonomamente dal suo seno, come lungimirante presagio per la nazione. La politica, in Italia, da troppi anni, non orienta il paese, ma si fa orientare dal paese. Ed è questa, in fondo, la vera notizia. È da così tanti anni che una gran parte della nazione s’è messa, materialmente, in cammino, che le istituzioni non potevano più far finta di non vederla.
L’elenco di associazioni che su tutto il territorio da decenni ripercorrono sentieri e vie storiche è lungo e presente sull’intero stivale. È gente che cammina da decenni, fin dai tempi di un turismo che sprecava i territori che batteva, nel nome di un divertimentificio dissennato. Oggi l’eredità di quel turismo di massa è la perdità di attrattiva del nostro patrimonio a livello globale, e un lascito di residui materiali devastanti (ruderi moderni, paesaggi dell’abbandono, etc.). Lo spreco del territorio in nome della mobilità privata, foriera di seconde, terze case, spesso abusive, è una ferita che va risanata. E i camminanti lo sanno, da sempre. Attraversare gli Appennini o le valli alpine a piedi, pedalare sulle sponde dei fiumi o camminare negli entroterra insulari è stato il modo che molti italiani hanno attuato per riconquistare fisicamente il paesaggio dimenticato.
Camminare è fare cultura. Non a caso, sono ormai vent’anni che i migliori scrittori italiani si sono rimessi in marcia. Hanno raccontato le città, le vie storiche, il paesaggio in trasformazione. Sono stati i testimoni di questo mutamento di sensibilità. Non c’è alcuna contrapposizione fra l’attività fisica da una parte e quella intellettuale dall’altra. Anzi, c’è contiguità. Siamo un paese, voglio ricordare, dove, secondo l’Istat, quasi il 20% degli abitanti non ha fatto assolutamente niente per tutto l’anno scorso: non ha letto un libro, non è andato in un museo, non ha visitato un sito archeologico, non è andata al cinema o a teatro, non ha fatto alcuna attività sportiva. Ma che ha quasi il 90% della popolazione che guarda la televisione tutti i giorni, per molti l’unica fonte d’informazione. Cosa c’entra col camminare? C’entra. Questa cosa ha un nome, si chiama “povertà educativa”. E, secondo uno studio di Save the Children, se fai attività fisica hai anche maggiori competenze matematiche e di lettura. Insomma, come diceva Giovenale: “mens sana in corpore sano”.
Camminare è quindi turismo, cultura, equilibrio psicofisico. Ed ecologia. Stimolare la mobilità “dolce” significa anche lanciare un segnale politico forte. Ormai sono decine gli studi specialistici che associano i livelli d’inquinamento dovuto alla mobilità privata col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari. Quello che sta passando Milano in questi mesi – stretta nella morsa delle polveri sottili – ne è la prova.
Non a caso, di fronte all’emergenza smog, il Ministero dell’Ambiente ha da poco messo in atto alcune misure che prevedono limiti al riscaldamento degli edifici pubblici e privati, abbassamento dei limiti di velocità delle strade urbane e inizative riguardanti il trasporto pubblico e la mobilità condivisa. Nelle misure approvate con la legge di stabilità sono anche previsti 91 milioni di euro in tre anni per ciclabili, ciclovie e cammini.
Nonché 3 milioni per la progettazione e la realizzazione di itinerari turistici a piedi. Non sono tanti, ad essere sinceri, se pensiamo all’intero territorio nazionale. Ma è un segnale d’inversione di tendenza molto interessante. Quello che bisogna saper fare, ora, è evitare di spendere questi soldi nel modo più scontato, per cammini di assoluta bellezza e rinomanza (penso, fra tutti alla via Francigena), dimenticandoci però dei tanti altri itinerari, meno famosi, o rotte da progettare ex-novo, che avrebbero un bisogno vitale di quei contributi statali.
È ora di aprire un tavolo dove invitare associazioni (storiche o meno), editori di settore, start up, università, dove riconoscersi per fare rete, tutti assieme. Tutta l’Italia è degna di una profonda topografia sentimentale. Occorre una visione d’insieme se non vogliamo disperdere questa opportunità solo per mantenere una piccola rendita di posizione.
Da anni lavoro a progetti di escursionismo urbano (vedi qui e anche qui) perché so, da architetto e da narratore, che la rielaborazione dell’identità avviene attraverso un processo di conoscenza e riappropriazione dei luoghi che è resa possibile proprio dalla mobilità “dolce”, la quale non esclude l’automobile, ma la mette ai margini. Questa idea di mobilità può dimostrarsi strategica nella politica gestionale della città ed è sicuramente al passo con le nuove tendenze strategiche della grandi metropoli internazionali. Ogni sentiero “aperto” è, a tutti gli effetti, una ‘sezione’ sulla metropoli che guarda con lo stesso interesse sia il centro che la periferia, restituendo dignità a ogni parte attraversata ed esperendo senza pregiudizi l’intero territorio. Non solo il centro storico, non solo i monumenti insigni.
Con lo stesso spirito va affrontato tutto il territorio nazionale. Non dobbiamo pensare solo al ritorno economico dovuto allo stimolo del turismo di qualità italiano e straniero, ma anche capire che attraverso il cammino attuiamo una terapia del corpo fisico della nazione – comprese le parti più sconosciute, spesso le più malandate – che è la premessa necessaria per curare anche la mente di un popolo fin troppo distratto dai proclami televisivi. Mens sana in corpore sano, insomma.
(pubblicato su L’Ordine del 28 febbraio 2016)