Il conto che non torna

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di Gianni Biondillo

Abbiamo imparato grazie alla televisione cos’è un “cold case”. Detto in inglese lo fa apparire come una cosa tecnica, persino indolore. Tradotto si mostra in tutto il suo cinismo: “caso freddo”. Fa venire i brividi. C’è una presa di distanza che sembra quasi indifferenza. Chiamarli “casi irrisolti” ci mette di fronte alla nostra inadeguatezza. Significa ammettere di non aver saputo svolgere le indagini, confermare quanto il mondo sia più complesso di un giallo, dove l’assassino trova sempre la sua punizione e il bene trionfa sempre sul male. Un caso irrisolto ci mette di fronte al fatto che il mondo è uno gnommero, come diceva Gadda. Un gomitolo indistricabile, spesso crudele, spesso insensato.

Non è raro che mi venga chiesto di scrivere o di parlare di casi di cronaca nera. Che sia una rapina, un assassinio d’impulso, una rapimento, un crimine efferato, uno stupro. C’è un curioso pensiero da parte di chi mi interpella. Tu che scrivi gialli di certo saprai entrare nella mente del criminale. Tu che fai svolgere le indagini al tuo personaggio seriale, saprai di certo capire chi è il vero responsabile, quello che la polizia non riesce a trovare. Tu sai. Tu puoi dirci come è andata a finire. Come fosse un romanzo.

Io resto sempre attonito di fronte a queste richieste. Io non so. Io non so nulla. E non mi permetto di ipotizzare alcunché. Ci sono persone che seguono i casi, da mesi, anni; professionisti, inquirenti, che ci stanno sbattendo la testa, con quale arroganza, io, che la giornata la passo davanti a un computer, posso permettermi di dire la mia?

Non fidatevi degli scrittori che pontificano in radio, degli esperti che traggono soluzioni d’accatto in televisione. Non fidatevi dei decantatori di plastici. Ne sanno meno, molto meno, di chi su quei crimini ci lavorano, colmi di frustrazioni per l’insondabilità, il mistero del crimine.

Ho sempre rifiutato gli inviti delle sirene della stampa. Forse sbagliando, perché, inutile nasconderlo, apparire di continuo in televisione, presentarsi come esperto di menti criminali e affini, di certo gioverebbe alle vendite dei miei romanzi. Ma io non riesco ad essere insincero con i miei lettori. Io nella mente di un criminale, uno vero, non ci so e non ci voglio entrare. Mi bastano i miei incubi personali, quelli privati. Mi bastano i miei romanzi.

Nei casi di cronaca, non dimentichiamolo, i morti sono veri. Bisogna averne rispetto. Ho sempre trovato morbosa questa attenzione mediatica, l’ho sempre trovata oscena. Qualcosa che, etimologicamente, deve stare fuori dalla scena, non deve essere rappresentata, perché manca di umanità nei confronti non solo delle vittime ma anche dei superstiti. Gli amici, i parenti. Decidere di mettere in piazza le proprie idee, dall’alto di non so quale autorità, cercare come una sciarada soluzioni alternative a quelle degli inquirenti, ipotizzare legami fra sospettati, accusare esplicitamente qualcuno di un crimine, fuori da un regolare processo, mi sembra oltre che immorale, pornografico.

Poi quando si tratta di “cold case” siamo addirittura alla sublimazione del cialtronismo mediatico. Figuriamoci se ci ricordiamo qualcosa di questi casi, alcuni vecchi di decenni, presi come siamo dai nostri problemi quotidiani. Eppure continuiamo a parlarne, a scriverne, a discuterne. Mi chiedo, allora: è solo morbosità la nostra? Siamo completamente assuefatti da questa idea di guardare dal buco della serratura, al sicuro delle nostre casa? Siamo solo questo? Cinici imbrutiti alla ricerca di traumi virtuali, di emozioni forti che la realtà quotidiana non sa più darci?

Vederla solo in questo modo non fa di me, alla fine, un intellettuale snob, che disprezza le basse passioni (o, come altri hanno detto meglio di me, le “passioni tristi”) del popolino?

Perché se è vero che noi non sappiamo nulla di queste tragiche morti, e se è vero che bisogna averne rispetto, non si può negare che l’insistenza da parte dei parenti di molte di queste vittime a voler riaprire i casi ha dell’eroico e del tragico. Me lo ha fatto capire mia madre. Donna del popolo, con una semplice quinta elementare nel cassetto, sempre davanti al televisore di casa. La persona che meno immagino a sbirciare da alcun buco della serratura, la meno morbosa che conosca. Non è scoprire chi è l’assassino, come in una partita di scacchi, quello che a lei interessa. È la pietà nei confronti dei vivi. Scoprire come sono andati i tragici eventi, ovvio, non ci restituisce la vittima. Ma quanto meno ci permette di seppellirla simbolicamente. Ci aiuta a organizzare un piccolo spazio d’ordine nel caos dell’esistenza. Un po’ come ci diceva Foscolo: i sepolcri servono ai vivi, prima ancora che ai morti. Queste vittime innocenti sono, mediaticamente, a noi vicine. Sono nostri figli, nostre sorelle. Non vogliamo sapere soltanto come sono morte – in fondo lo sappiamo già – ma perché, nel nome di quale follia, le stiamo piangendo. Alla ricerca del risarcimento di un conto che, purtroppo, non torna mai.

(pubblicato su Grazia, numero 15 del 6 aprile 2016)

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Nel 2011 il romanzo noir I materiali del killer ha vinto il Premio Scerbanenco. Nel 2018 il romanzo storico Come sugli alberi le foglie ha vinto il Premio Bergamo. Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.