Viaggio in Bosnia (2/2)
di Giovanni Accardo
Zijo Ribic e il massacro di Skočić
Skočić era un villaggio della Bosnia orientale, abitato prevalentemente dal clan familiare di Zijo Ribic, rom musulmani, una fiorente comunità stanziale di agricoltori, operai specializzati e artigiani che vivevano in ottimo rapporto con Serbi e Bosgnacchi (i musulmani di Bosnia). Il 10 luglio 1992 una formazione paramilitare entrò nel villaggio. “Quella notte”, ci racconta Zijo in una sala conferenze dell’Hotel Tuzla dove lavora come cuoco e dove dormiremo questa notte, “avevamo deciso di rimanere tutti insieme nella grande casa di un nostro parente; da qualche giorno avevamo paura. Quando abbiamo sentito arrivare i camion non potevamo immaginare cosa sarebbe successo. I paramilitari serbi hanno cominciato a picchiare gli uomini, volevano oro e denaro. Hanno stuprato mia sorella maggiore, Zlatija, davanti a tutti. Aveva tredici anni. Quindi l’hanno picchiata perché portava al collo una croce ortodossa d’oro. Dopo ci hanno raggruppati tutti davanti alla casa. Hanno detto che non ci avrebbero fatto niente e che ci avrebbero portati da un’altra parte. Ci hanno caricati sui camion e portati in un villaggio vicino dove avevano già scavato una fossa comune. Ci hanno fatti scendere uno alla volta. Prima mia madre con mio fratellino, poi sono venuti a prendere me. Avevano appena finito di stuprare nuovamente mia sorella maggiore. Io piangevo, chiedendo di vedere mia madre. Mi risposero che l’avrei rivista subito. Hanno ucciso tutti, uno alla volta: i miei genitori, i miei fratelli e le mie sorelle, gli zii, i cugini. Poi è arrivato il mio turno. Ho sentito un colpo di lama nel collo e degli spari. Sono caduto e mi hanno gettato nella fossa insieme agli altri che avevano appena ammazzato. Io avevo 7 anni, ero soltanto ferito ma mi finsi morto; dopo qualche ora uscii dalla fossa comune tutto sporco di sangue e scappai nei boschi. Arrivato sanguinante in un villaggio vicino, fui soccorso da una donna e da due soldati Serbo-bosniaci dell’Esercito Popolare Jugoslavo che mi lavarono e medicarono. Sono cresciuto dapprima in un orfanatrofio in Montenegro, poi a Tuzla, dove ho frequentato la scuola alberghiera e mi sono diplomato cuoco.”
Al raggiungimento della maggiore età Zijo fu ospitato a Casa Pappagallo, una struttura gestita da Tuzlanska Amica, per ragazzi e ragazze che usciti dall’orfanotrofio non hanno altro luogo dove andare. In quegli anni conosce Nataša Kandić, sociologa di Belgrado, Premio Internazionale Alexander Langer 2000, impegnata fin dall’inizio del conflitto nella ex-Jugoslavia nella denuncia dei crimini di guerra e delle violazioni dei diritti umani, e si convince a raccontarle la sua storia. Dopo le indagini preliminari condotte su mandato del Tribunale per i Crimini di Guerra di Belgrado presso cui è stata fatta la denuncia, nel 2010 è iniziato il processo contro gli autori del massacro di Skočić.
La testimonianza di Zijo è la più commovente tra tutte quelle ascoltate durante il nostro viaggio in Bosnia. Ma a stupire gli studenti non è soltanto il suo racconto, quanto piuttosto la scelta di perdonare i suoi carnefici. Gli studenti gli chiedono come sia stato possibile, sperano che almeno alcuni di loro gli abbiano chiesto scusa. “No”, risponde, “nessuno mi ha chiesto scusa, ma io non volevo vivere nell’odio. Dimenticare quello che è accaduto non posso, ma perdonare sì, è l’unico modo per andare avanti e costruirmi una vita normale, senza precipitare in una specie di buco nero, come credo si debba vivere con l’odio dentro.”
Nel febbraio 2013 sette appartenenti alla formazione paramilitare responsabile del massacro, grazie anche alla testimonianza di Zijo, sono stati condannati per crimini di guerra dal Tribunale di Belgrado, ma purtroppo in appello solo sono stati assolti. “La prima volta che ho rivisto il comandante del gruppo”, racconta Zijo Ribic, “ mi è passato di tutto per la testa, poi ho pensato che se mi facevo vincere dall’odio, sarei diventato uguale a loro. Io non sono uguale a loro. I miei genitori non mi hanno insegnato a odiare. Non posso e non voglio dimenticare quello che è successo alla mia famiglia e al mio villaggio. Ma posso decidere di non odiare. È difficile, ma da qualche parte dentro di te puoi trovare la forza per riuscirci.”
A gennaio del 2016, ha sepolto quattro delle sue sorelle uccise nel 1992. Le altre due sorelle e il fratellino sono stati ritrovati nella stessa fossa comune, ma i loro resti erano troppo parziali e Zijo ha deciso di aspettare a seppellirli.
Fantasmi a Srebrenica
È la visita a Potocari il momento più doloroso del viaggio.
Ai primi di luglio del 1995 l’enclave musulmano di Srebrenica, che era sotto la protezione internazionale dell’ONU, venne circondata dai serbi guidati dal generale Mladic. L’11 luglio, quando capirono che il loro arrivo era imminente, tutti i cittadini dell’enclave (quasi 40 mila persone: uomini, donne, bambini, anziani) abbandonarono le loro case per andare a chiedere aiuto e protezione ai 450 caschi blu olandesi che avevano la loro base in una ex fabbrica di Potocari, a pochi chilometri della città di Srebrenica. In 5.000 riuscirono a sfondare il cordone di protezione ed entrare, tutti gli altri rimasero fuori. Quando Mladic arrivò in città e la trovò deserta, corse dagli olandesi furibondo, minacciandoli. Una foto nella mostra permanente che c’è nella ex base militare, ritrae il comandante olandese Karremans mentre brinda con Mladic, al quale vennero consegnati pure i 5000 che erano riusciti a rifugiarsi all’interno. Il generale serbo ingannò i musulmani, dicendo che li avrebbe protetti lui, ma a tutti apparve chiaro quale sarebbe stato il loro destino. Gli uomini vennero separati dalle donne, i figli dai 14 anni in su dalle madri, proprio come facevano i nazisti con gli ebrei e in spregio alle leggi internazionali sui prigionieri di guerra. Le donne e i bambini furono trasferiti a Tuzla che era in mano ai musulmani. Circa 15.000 uomini cercarono di mettersi in salvo scappando attraverso i boschi, nella speranza di raggiungere Tuzla a piedi; oltre 8.000 mila di loro vennero catturati, anche con l’inganno, e barbaramente uccisi uno ad uno. I loro corpi sepolti nelle fosse comuni.
A tutt’oggi sono stati identificati i resti di circa 6.600 di loro, sepolti nella collina di fronte alla base ONU di Potocari, proprio laddove sono stati abbandonati da tutti. Molti villaggi musulmani oggi sono abitati soltanto da donne. Gli studenti possono avere un’idea di quello che è accaduto attraverso un video proiettato all’interno della ex base olandese, in quello che è diventato un centro di documentazione. Il video mostra la città mentre si svuota, gli abitanti che scappano prendendo pochissime cose dalle loro case, alcuni vecchi, troppo anziani per poter camminare, vengono trasportati dalle mogli dentro delle carriole. Nelle loro facce di persone comuni si legge la paura, il dolore, la disperazione. Tutti siamo colti da una enorme pena per la loro sorte e dalla rabbia per non averlo impedito. Aveva ragione Alexander Langer, quando pochi mesi prima aveva scritto che l’Europa muore o rinasce a Sarajevo. E qui, l’Europa e la comunità internazionale hanno dimostrato il loro fallimento, preoccupandosi innanzitutto degli interessi nazionali. Mentre scorrono quelle immagini angosciose, nella sala il silenzio è densissimo, guardo le facce impietrite degli studenti e mi dispiace che vedano quell’orrore. Ma come fare a renderli più umani se non facendogli vedere a quali livelli di bestialità può giungere talvolta l’uomo? Quando arriva la testimonianza di una mamma che ricorda le urla del figlio di 14 anni, costretto ad abbandonarla per andare nel gruppo degli uomini, mentre si consumava una barbara separazione che credevamo di non dover più rivedere, dopo le terribili pagine della shoah, trattenere le lacrime diventa impossibile. Poi arrivano le immagini delle esecuzioni: i paramilitari serbi che hanno eseguito il massacro, hanno avuto la sfrontatezza di filmarsi. Siamo sgomenti e senza parole. La storia si ripete, ancora una volta non insegna nulla, ancora una volta non serve ad evitare che le tragedie del passato si consumino nel presente.
A Srebrenica incontriamo gli animatori dell’Associazione «Adopt Srebrenica», fondata da un gruppo di giovani serbi e bosniaci con l’obiettivo, tra gli altri, di raccogliere storie e immagini che documentino la vita quotidiana di Srebrenica prima della guerra e la costituzione di un fondo di libri, foto, video, documenti sulla storia della città e della Bosnia Erzegovina, da mettere a disposizione della cittadinanza. Proprio per acquisire le necessarie competenze, due di loro hanno recentemente svolto un periodo si formazione all’Istituto per la storia della Resistenza di Torino. Ceniamo tutti assieme. Fuori continua a piovere e per la notte si prevede la neve. Le strade sono deserte, la città sembra abitata soltanto dai fantasmi. Gli studenti, dopo le fortissime emozioni della giornata, hanno voglia di andare a bere qualcosa in un locale, hanno voglia di distrazione e forse di calore. Stanotte dormiremo presso alcune famiglie e in molte delle case c’è solo una stufa a legna in cucina e qualche stufetta elettrica che scalda poco. Andrea Rizza ci accompagna in un bar, ma non potremo restare oltre le 23.00, quando scatta una sorta di coprifuoco che costringe tutti i locali a chiudere. Il bar è serbo, come i pochi avventori, quasi tutti giovani; di anziani purtroppo in città ne sono rimasti pochi. Quasi tutti salutano Andrea con molto affetto, ormai lo conoscono da diversi anni. Si vede che anche loro hanno voglia di divertirsi perché, vedendo quel gruppo di venti studenti, alzano il volume della musica, spengono le luci e accendono dei faretti colorati. Uno studente chiede se può scegliere qualche canzone e si mette al computer. In breve i tavoli vengono messi di lato e quel piccolo bar diventa un’improvvisata discoteca. Gli studenti ridono e ballano, per un momento si dimenticano degli orrori della guerra. È giusto così, mi dico.
Ritornando a casa
Durante il viaggio di ritorno mi siedo accanto agli studenti, curioso di sapere come hanno vissuto gli incontri e le testimonianze di questi giorni. Non siete dispiaciuti di non aver fatto la consueta gita di quinta in una capitale europea all’insegna del divertimento, gli domando? No, rispondono in coro, anche se quando gli insegnanti ce l’hanno proposto eravamo diffidenti, ma già durante le lezioni di preparazione abbiamo cambiato idea. “Questo viaggio”, dice Enrico, “sebbene a tratti molto doloroso, ci ha fatto scoprire una pagina ignota del recente passato, una pagina che tutti dovrebbero conoscere, proprio in un periodo in cui non si fa altro che parlare di profughi di guerra.” Mentre li ascolto, avendoli osservati con attenzione in questi giorni, mi sembrano davvero cresciuti. “Questa è la storia che vorremo studiare a scuola”, dice Daniele, “è questo il modo, appassionato e coinvolgente, con cui dovete insegnarla, dedicando più ore e dando più spazio al ‘900. In questo viaggio l’abbiamo veramente toccata con mano.” “Ritorno a scuola con molta più voglia di vivere”, mi dice Giulia, “proprio come racconta Ungaretti nella poesia Veglia, quando, completamente immerso nell’orrore della Prima guerra mondiale, scrive: «Non sono mai stato tanto attaccato alla vita».
Mentre stiamo per lasciare la Croazia ed entrare in Slovenia, ci arriva la notizia della condanna a 40 anni di carcere per Radovan Karadzic, presidente dell’autoproclamata repubblica serba di Bosnia, ritenuto colpevole di genocidio, persecuzione, sterminio, omicidio, deportazione, terrore in alcuni villaggi dell’enclave musulmano di Srebrenica. Basterà questa condanna o quella del generale Mladic a fare giustizia? Gli studenti pensano di no, l’unica vera giustizia, dicono, si avrà quando i carnefici riconosceranno le loro colpe e quando tra serbi e bosgnacchi (i musulmani di Bosnia) ci sarà una convivenza autentica, a partire dalle scuole condivise.
Lo scorso mese di marzo, Giovanni Accardo, insegnante di italiano e storia al Liceo “Pascoli” di Bolzano, in compagnia delle colleghe Valentina Mignolli e Maristella Partipilo, ha accompagnato in Bosnia Erzegovina gli studenti della classe quinta D/E. A far loro da guida Andrea Rizza della Fondazione Alexander Langer Stiftung che ha curato anche la preparazione dei ragazzi. Questo suo reportage è apparso, in forma ridotta, sul quotidiano “Alto Adige” del 02.04.2016. La prima puntata si trova qui.
La prima immagine: Zijo Ribic, a sinistra, con Andrea Rizza; la terza: Srebrenica.
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L’uomo è un animale politico nel senso deteriore del termine: ovvero gregario e opportunista. La storia più o meno recente continua a dimostrarlo. Gli pseudo-ideali religiosi, politici o razziali coprono la volontà di dominio e prevaricazione di un gruppo su altri, percepiti come “corpi estranei” da estirpare. L’omicidio, la guerra e lo sterminio sono solo gli esiti più mostruosi e laceranti di un atteggiamento capillarmente diffuso, per cui la gente, per ottenere il proprio vantaggio personale, è pronta a sputare sul prossimo suo calpestandone i diritti, di cui la vita è di certo il fondamentale, ma non l’unico. In questa attitudine a sviluppare un senso di appartenenza per escludere qualcuno dai circuiti sociali e dai ranghi umani si celano enormi pericoli. Tanti sniper pronti a ucciderti, anche solo moralmente, vivono anche nel nostro Bel Paese e fanno del potere e del denaro, dei legami politici o di altri ambigui appoggi, un’arma per avventarsi in vari modi su vittime inermi. Scusate per la forzatura dialettica, ma ho visto troppa gente fintamente per bene, la quale manifesta dosi di malignità, inciviltà e complicità con l’ingiustizia imperante che differiscono solo per grado di intensità e specifica manifestazione da certi orrori, ma ne condividono la stessa radice psichica, quella subdola ferocia tipica, da millenni, dell’animale umano. Complimenti, invece, a insegnanti e allievi per una gita finalmente intelligente!