L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu
di Marisa Salabelle
Tra i compagni Efisia trovò per la prima volta l’amore o qualcosa che almeno vagamente gli somigliava. La faccia di Carmine Signorello s’intravedeva a stento, tra capelli, barba e baffi, tutti neri e ricci. Portava un paio di occhialetti alla Trotszki, l’eskimo di ordinanza, jeans con le borse alle ginocchia, maglioni a trecce che gli faceva sua nonna. Durante le riunioni parlava e gesticolava molto. Era uno studente fuori corso della facoltà di scienze politiche, andava a lezione sì e no una volta la settimana, non dava mai esami ma girava sempre con grossi libri sotto il braccio. Una sera lui ed Efisia erano andati ad affiggere volantini nelle vie più buie e meno frequentate del centro: lei li portava nella tasca del montgomery, lui li attaccava ai muri con abbondanti spennellate di colla liquida. Improvvisamente posò il secchio della colla, le si avvicinò, le sbottonò gli alamari e le afferrò le poppe con entrambe le mani. Efisia fu presa talmente di sorpresa che non riuscì a proferire parola. Carmine le tirò su la maglia, le sbottonò la camicia, trovò il reggiseno, ne estrasse una mammella e cominciò a succhiarla avidamente, mentre con la mano libera le palpava il culo attraverso la stoffa della gonna.
«Ehi che cavolo» cominciò lei ma venne sopraffatta dall’eccitazione: si addossò al giovane e si lasciò tastare, leccare e sbaciucchiare. In mezzo alle gambe sentiva un ardore, una frenesia: aveva bisogno di qualcosa di grosso e duro che le entrasse dentro, ora, subito, e ciò che non capiva era da dove venisse questa necessità, visto che mai prima di allora lei aveva avuto la pur minima esperienza sessuale. A volte, la sera a letto si toccava, prima di addormentarsi, gliel’aveva insegnato Letizia, le aveva fatto vedere come fare per provare piacere, bisognava immaginarsi delle storie eccitanti, abbassarsi il pigiama sotto le lenzuola, mettere le mani lì e premere, sfregare, stropicciare… dopo un po’ di lavoro il godimento arrivava, irresistibile, e dopo che era finito sopraggiungeva una sonnolenza, ci si addormentava molto meglio. Efisia aveva delle fantasie, provava a immaginare come sarebbe stato farlo con qualcuno dei ragazzi che conosceva, ma si trattava soprattutto di un gioco che faceva con se stessa, niente fino a quel momento le aveva fatto presagire che un giorno, all’improvviso, il desiderio, quello vero, di un maschio in carne ed ossa si sarebbe presentato così implacabile, perentorio, come un ordine cui bisogna obbedire senza indugio. L’avrebbe fatto lì, addossata al portone di una casa, incurante delle rare auto che passando illuminavano quell’angolo nel quale loro due consumavano nefandezze. Trovò un po’ di fiato per dire aspetta un momento, non possiamo, qui siamo in mezzo a una strada; Carmine la prese per un braccio e la trascinò in un cortile dove lo fecero in piedi, come due selvaggi. Poi la portò a casa sua, viveva da solo, in due stanzette miserabili: la buttò sul letto e scoparono fino allo sfinimento. Quella notte Efisia non tornò a casa e quando suo padre, il giorno dopo, provò ad attaccare una delle sue filippiche, lei gli rispose con durezza che se non gli stava bene era pronta a fare le valigie e andarsene immediatamente.
«Non ho capito se era talmente arrapato che si sarebbe fatto anche una capra», disse a Letizia il giorno dopo, «o se in un modo o nell’altro gli piaccio. Francamente, non riesco a crederlo.»
«Perché devi pensare questo, non sarai una bellezza, ma chi lo è, e poi hai begli occhi, vorrei avere io i tuoi capelli al posto di questi tre peli sbiaditi.»
Il problema con Letizia era che non si capiva mai se era sincera o solo molto gentile.
«Non vedo perché tu ti debba continuamente buttare giù, sono sicura che puoi piacere molto, ho notato che per la strada si voltano a guardarti.»
«Sì, qualche vecchiaccio bavoso, camionisti in crisi di astinenza, non farmi ridere.»
“Vorrei averle io le tue puppe, lo vedi come sono piatta, sembro un asse da stiro.»
Le puppe, in effetti, erano quelle che avevano folgorato Carmine. Tutte le volte che si incontravano le sbottonava il cappotto, le palpava il seno e sussurrava Fammi sentire se le tieni ancora. Lei, che le sue tette enormi le aveva sempre odiate, gli era grata per la sua devozione verso quelle ingombranti sporgenze. Si vedevano in ogni momento libero, scappavano dalle riunioni, si barricavano nell’appartamento di lui e sperimentavano pratiche sessuali che Efisia nel suo candore non aveva neppure sospettato potessero esistere. Bighellonavano per la città a notte tarda, con o senza volantini da affiggere; si sedevano sugli scalini del Battistero, mangiavano cartocci di olive e pane con salamino piccante o spesse fette di spalla, si facevano una birra o una canna. Tutto sembrava essenziale, necessario. I bambini della scuola di montagna, la lotta di classe, Marx e Don Milani, il sesso, le olive: ogni elemento si incastrava perfettamente nell’altro, non poteva essere altrimenti, la vita aveva finalmente senso.
da: Marisa Salabelle, L’estate che ammazzarono Efisia Caddozzu (Piemme, 2015)
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