La scelta
di Giovanni Dozzini
(Pubblichiamo un estratto dal nuovo romanzo di Giovanni Dozzini – La scelta, Nutrimenti – per gentile concessione dell’editore. Nel giugno del 1944 l’Italia è divisa in due. I tedeschi continuano a dettare la loro legge spietata di occupatori, ma gli alleati li costringono a ritirarsi progressivamente verso nord. Nel cuore del paese, poco sopra la linea del fronte, uno sparuto numero di ebrei scampati alla deportazione ha trovato rifugio su un’isola. Nel vicino villaggio gli abitanti sanno della loro presenza e hanno sempre fatto finta di niente. Ma quando incombe il pericolo imminente di una rappresaglia tedesca dovranno decidere cosa fare di sé e degli ebrei.)
Il giorno in cui la guerra dilaniò Isola cominciò con un sole tremolante e notizie di buona pesca che si spargevano velocemente lungo l’unica via del paese. La notte, sopra Castiglione, era stata tutto un circo di bengala e di bombe, aerei scuri nell’oscurità che sputavano fiamme di luce e d’esplosivo, facevano tremare i cristiani e spingevano i pesci nelle reti. Le barche erano partite poco prima che il cielo cominciasse a prender fuoco, e avevano assistito allo spettacolo ferme d’impotenza in mezzo al lago. Un’ora prima dell’alba era finito tutto, e i pescatori tiravano a bordo i carichi di persicaccio, e quando fecero ritorno già dimenticavano il bombardamento cantando le loro canzoni. Le donne lavavano i pavimenti e preparavano le zuppe del pranzo, quelle con meno bocche da sfamare avevano già sbrigato gli affari di casa e s’erano messe ai ferri, qualcuna sulla strada, qualcuna alla finestra. Nella piazza ancora non riecheggiava il fischio di Ercolino, il calzolaio, che da quando aveva smesso di pescare, mezza vita prima, aveva preso a svegliarsi, diceva lui, a un’ora da signore. Era silenzio, quindi, perché i pescatori risparmiarono presto il fiato per sistemare il pesce e portarlo alla cooperativa. Chi rimaneva si dedicava alle reti, le ripuliva e le stendeva al sole e cercava le falle e i nodi più allentati, mentre i gatti s’avvicinavano invocando gli avanzi mozzati della pescata. Quanto era accaduto il giorno precedente, e quanto era accaduto due notti prima, sembravano dimenticati, o ignorati senza sforzo. Quella era la normalità, o almeno la normalità della guerra, perché il pesce si vendeva meno e peggio, e la fatica di vivere si faceva sempre più sentire.
I discorsi fatti da Don a Torresi e agli altri avevano tranquillizzato tutti, ma il prete in realtà non era tranquillo affatto. Il fronte correva, la faccenda dei polli dimostrava quanto i tedeschi fossero nervosi, e poi c’era la gente del Castello lasciata al proprio destino, e quindi pericolosissima. Lo stesso Cenci, il capo delle guardie, il giorno prima gli era sembrato indeciso, quasi disorientato: era rimasto da solo, e non sapeva cosa fare di sé e della sua famiglia. Da quando i ragazzi della guarnigione lo avevano mollato aveva lasciato la casa in paese e s’era portato tutti al Castello, la moglie, il padre anziano e i due figli, più per non dover rispondere alle domande degli isolani, pensava il prete, che per qualche forma di prudenza o di progetto. La strada dal Castello al paese non l’aveva percorsa nessuno nelle ultime trentasei ore, da prima della fuga nella pioggia, nessuno tranne lui, e a questo punto quella gente aveva bisogno di scendere per procurarsi un po’ di cibo. L’allarme per gli spari dei tedeschi per loro s’era già esaurito, la fame reclamava la sua parte, e una giornata intera, per come stavano messe le cose, era molto più di una giornata. Adesso Don si rammaricava per non aver portato con sé perlomeno una sporta di pane e un po’ di pesce, quando era andato a parlare con Cenci subito dopo l’incidente. Sarebbero scesi, quindi, come erano scesi sempre, di tanto in tanto, e ancor di più nei pochi giorni da quando erano partite le guardie. A meno che non li avesse anticipati lui, andandogli perlomeno incontro. Fece colazione col formaggio, si alzò di scatto e chiese ad Amalia di radunare del cibo. Lasciaci il necessario per un paio di giorni, le disse, il resto lo porto su. Quando le due borse di pelle furono pronte le imbracciò e s’avviò. Prese per San Salvatore e per San Michele, in modo da non dover attraversare tutto il paese. Era bene che nella testa degli isolani frullassero meno idee possibili.
Nel frattempo Enrico era già passato a bussare alla finestra di Clara, nella sua casa al centro del borgo. Lei aveva risposto bussando a sua volta, dall’interno, e poi era corsa fuori, sul retro, per dargli la mano. Di giorno, per suo volere, non osavano ancora di più.
“C’è da stare tranquilli”, aveva detto lui. “Torresi c’ha spiegato tutto”.
E via con la storia del prete e delle sue rassicurazioni: sulla fuga della gente del Castello non aveva saputo dir niente, ma sui tedeschi aveva garantito di possedere informazioni confortanti. Più s’avvicina il fronte, meno tempo e voglia avranno di venire a darci noia.
“E tu che di me non ti fidi mai”, aveva ammiccato Enrico rubandole un mezzo bacio sulla guancia. Poi era corso via, ad aiutare suo zio e gli altri alla cooperativa. Sandro Bozzi, a quel punto, aveva già pronte le sue cassette nuove per il mercato da portare a terra prima di pranzo. Non era giorno di spartizione, quello, ma di spedizione.
Si fecero così le dieci del mattino, il lattaio dei Nebbiai venne e tornò a terra, da dietro i colli di Magione e ancora più a sud si sentirono colpi e scoppi, un paio di aerei passarono sulla linea dell’orizzonte ma non s’avvicinarono, né si capì dove fossero diretti di preciso. Si battagliava a poche decine di chilometri da Isola, ma per le cose di Isola non cambiava niente.
La barca dei tedeschi tornò a metà mattina, più o meno alla stessa ora del giorno prima. Stavolta non si fece annunciare dalle grida e dai canti marziali, e attraccò un po’ più a nord del pontile, come peraltro succedeva quasi sempre. La dinamica fu la solita: tre soldati sbarcarono, uno rimase a bordo di guardia. Insieme al sergente e a quello che aveva sparato ai polli stavolta c’era un ragazzo più scuro di capelli e di pelle, e sicuramente più giovane. La sentinella, invece, per quanto riuscivano a vedere i pescatori e i bambini che assisterono all’arrivo dell’imbarcazione, poteva essere la stessa, o un’altra, o chiunque. I tre attraversarono a passo svelto lo spiazzo d’erba che separava la riva dalle prime abitazioni, costeggiarono sul retro la Casa del Capitano del Popolo e la chiesa del Gesù e si trovarono all’imbocco della piazza tra le reti stese al sole. Si fecero largo nella solita formazione, il sergente appena davanti e gli altri due ai lati. Dell’ostentata e fasulla bonomia con cui s’erano presentati il giorno precedente adesso non c’era alcuna traccia. La faccia del sergente era tirata, nervosa, le braccia piegate sui fianchi come il duce, le gambe dritte e dure. Uno degli scagnozzi, quello nuovo, impugnava una piccola mitraglia, il tizio dei polli la portava a tracolla stringendo in mano la pistola. Prima di allora non una sola mitraglia aveva mai fatto comparsa a Isola.
Il sergente scrutò la piazza e prima di parlare radunò i pescatori con dei gesti eloquenti, poi trascorse qualche secondo come domandandosi a chi rivolgere per primo le poche parole di italiano che gli sarebbero servite a chiedere ciò che aveva da chiedere. Cercò il pescatore con cui aveva già avuto modo di fare affari, ma il suo sguardo non lo colse. Mario Tacconi, a quell’ora, era ancora alla cooperativa, come quasi tutti. Quindi ne scelse uno a caso dei pochi presenti. Erano meno di una decina, e i marmocchi se l’erano già data a gambe.
“Radio!”, urlò. “Dofe?”.
Parlando aveva cercato di imitare il gesto della mano con cui gli italiani solevano domandare, le dita unite a becco d’uccello e portate ripetutamente verso la faccia. Gli uomini rimasero a tacere. La maggior parte non spostò gli occhi, sbarrati e vuoti, da quelli del tedesco, ma un paio si scambiarono delle occhiate interrogative che il soldato novizio colse come un cenno di intesa o di timore d’essere scoperti. Fece un passo avanti borbottando qualcosa all’indirizzo del superiore, quindi, e sollevando leggermente la canna della mitragliatrice si rivolse, alternativamente, ai due che s’erano guardati.
“Eh?”, gridò. “Eh?”.
Quelli allargarono le braccia e scossero la testa, e il sergente gli si fece davanti fin quasi a toccargli i piedi coi propri.
“Radio?”, ripeté. “Tu. Radio. Dofe?”, disse a uno dei due, un quarantenne magro e coi lunghi capelli corvini che cominciavano a diradarsi all’altezza delle tempie.
“Radio?”, gli fece eco il pescatore.
“Radio, zì!”, urlò il tedesco, non senza una venatura di sollievo.
Nonostante le grida e il tono perentorio, non pareva essere completamente sprovvisto di condiscendenza. Voleva ottenere ciò di cui aveva bisogno, ma dava l’impressione di sapere come comportarsi coi civili. Terrorizzare, ma gradualmente. Anzi, a singhiozzo. Dovevano fidarsi e poi avere terrore, spaventarsi e poi fidarsi di nuovo. Non dovevano mai sapere cosa aspettarsi, da lui. Ecco, ora c’era da essere accomodanti.
“Dofe?”, disse, stavolta senza urlare.
Il pescatore si grattò la testa, mentre tutti i suoi compari lo guardavano in silenzio. Poi si voltò verso quello che aveva già guardato prima.
“C’è quella di Sepioni, no?”, gli disse.
L’altro annuì.
“Sepioni una radio ce l’ha”.