La forma fragile del silenzio

di Nicoletta Prestifilippo

la forma fragile del silenzioEsiste un modo incantevole di fare le parole. Proprio farle: giostrarle, accarezzarle, impastarle con le mani, sporcarsi con quelle fin sulla punta del naso per un gesto distratto; e odorarle così, come fossero un pasto allettante preparato con cura e poi offerto agli affetti più cari. Sono il prodotto di lettere ammonticchiate e vivaci che si incuneano tra i ricordi e l’esperienza, disegnando un luogo comune che funga da ritrovo per molti: sono una piccola cosa che per avere un senso vero e forte, deve conoscere la stretta buona dell’alleanza.

Ci si serve di quelle con l’umiltà di chi impara, e non ha pretese di insegnamenti da lasciare arrampicare sopra un pulpito: vi è uno spirito di condivisione molto forte, alla base, che si apprende per istinto e nel tempo accresce; vi si attinge sempre per esigenza, pur di dirsi e dire ciò che conta.

L’espressione è l’accento che si posa sulla libertà, il racconto che lascia in caldo i pensieri buoni uniti alle affinità più inaspettate, e li ritrova con semplicità per mezzo di un’alchimia che non si ostenta. Si resta al fianco di chi si vuole per davvero, con la vivacità di un’intenzione che non conosce geografia; e a prescindere dal tempo che si impiegherà, per tornarsi incontro a più riprese: l’affinità è una distanza davvero piccola, che si accorcia presto col sorriso tipico dell’impazienza.

Si hanno sensazioni simili: lievi ed energiche, addolcite, morbide d’intesa, ammirate, leggendo La forma fragile del silenzio: scritto da Fabio Ivan Pigola con l’impeto delle cose lasciate scorrere d’un fiato e così dense, fitte, affatto macchinose: si legge di un solo evento che si allunga senza risultare mai gravoso. Quel che ha da dire è di ampia importanza, eppure accade senza fretta. Consente al lettore di appoggiarsi a ogni stato d’animo, e lo accompagna nei pressi dell’irrimediabile: un significato ultimo, stretto, che non lascia speranze, eppure ne trova mille acquattate dietro gesti piccoli. Si può trovare un senso nuovo anche in ciò che non si può prevedere, nelle difficoltà. Ma serve un’armonia che in pochi sanno apprendere, tutta interiore, fievole e testarda. Indispensabile.

 

Il soggetto del racconto ha un’età piccola e un’umanità grande, e vi fa ritorno ogni volta che cambiano le prospettive e accresce il timore di non sapersi dare un verso, una ragione. È un hombre di nome ma non di fatto: ed è un’identità giocosa, la sua, che si appella al vizio buono della confidenza. Si muove in una storia che ha per ambientazione le strade, le voci, i dolci pendii, la spuma di un mare che bagna terre liguri generose e accucciate in una posa che garantisce a chi la vive, una libertà felice e necessaria: culla di un’infanzia vissuta al riparo dal frastuono delle grandi città, e di una crescita lenta, languida, che si fa spazio in un tempo robusto che solletica, sospinge, pungola gli attimi belli e poi volta pagina, con esuberanza, sforzo, crudeltà di distacco. Poiché la vita chiede sempre qualcosa in cambio, elargendo grosse fette di bellezza a chi la vive; ed è strettamente legata a un destino che non sa far altro che scompigliare ogni previsione, per puro capriccio: così il protagonista del racconto si trova a dover fronteggiare un male più grande della sua stessa età, che spegne con lentezza inesorabile ogni suono, ogni stridio, qualsiasi nota reperibile in natura, o pizzicata sulle corde della sua chitarra: le mani sono solo un passaggio. L’emozione conduce al sentimento che se mette a tacere le parole, trova piena espressione in una sintonia differente, in frequenze osate e accompagnate ad altri accordi. Si imparerà a conoscere quell’hombre che ha per sé un’ingenuità, un candore, un’innocenza che nemmeno sospetta. E ha «una faccia ebete, il sorriso tonto di chi non chiede altro che esistere, esistere per l’istante e per tutti quelli che non si ripeteranno».

Si finisce per volere un po’ di bene a delle frasi così, alla fatica, alla spontaneità, al candore che portano impresso. Si familiarizza come per contatto con la propria volontà di esserci, senza farsi alcuno sconto: credo non vi sia territorio più ostile dell’indifferenza, quando la si infligge per prima a sé stessi. Ma vi sono libri come questo che insegnano a indugiare, a sfogliare spogliandosi un po’, deponendo armi e difese: un passo dopo l’altro in profondità, col coraggio che serve per ascoltarsi senza doversi subito rinnegare; libri in grado di condurre con agilità al sorriso, alla partecipazione, al gravitare di immagini nella mente, che hanno il profilo esatto degli affetti di sempre: Jesus, Sua Perversione il Conte di Pietralata, Barbie, il Calamaro, Minestrina, e forse su tutti Sugar; una donna in piccolo, lei, carica di tutta la forza che serve, e generosa negli sguardi offerti a chi sa calamitare il bene e le attenzioni, pronta a una fiducia che in lei pare coriacea, e rivela una maniera di intendere il mondo che non è poi così in disfacimento: c’è del buono e sa vederlo tutto.

È questa la risorsa prima e forse unica, di chiunque sappia ancora dichiararsi innamorato di ogni cosa fin dal primo respiro: invecchia con lentezza e non invecchia mai davvero; avrà piccoli segni sul volto, negli anni, che sono come i segni di chi passa e resta, trascorre il tempo e non lo scansa, ama e soffre, raccoglie le illusioni e ne fa un vanto.

Un passo dopo l’altro si arriverà a una conclusione senza punto: l’inchiostro è ancora tutto da versare, così come le incognite e lo stupore di una vita mai approcciata per difetto.

 

Fabio Ivan Pigola ha il dono della delicatezza, lo si capisce fin da subito: nonostante i picchi di introspezione, i tocchi divertiti e divertenti che sono come pennellate di colore a ravvivare una tela anonima. Ciascuna parola gocciola sulle pagine, lascia una traccia di sé offerta con garbo e raccolta con uguali intenzioni. Lascia dei residui appiccicati all’animo del lettore, e sono di una dolcezza che non conosce eccessi; hanno l’alone opaco del sogno deposto accanto al risveglio, che coglie di sorpresa e si nutre della stessa: unisce coloro i quali non sono mai sazi di sospirare tutta la bellezza che si può, con tanto di occhi aperti. E non temono che la notte arrivi ancora a scoperchiare i desideri più grandi, in una sorta di rincorsa, di circolo vizioso: che siano adulti o bambini, poco importa. Ciò che conta è restare pronti alla sana follia che allarga quei sorrisi ebeti e dà senso a tutto quanto, a dispetto di ogni contrarietà.

2 COMMENTS

  1. “Libri come questo insegnano a indugiare, a sfogliare spogliandosi un po’, deponendo armi e difese” è un concetto eccezionale, che ben si addice al libro. Mi sono fidata dell’articolo, l’ho preso, letto… e messo in cima alla mia classifica personale. Finalmente, la letteratura!!

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mariasole ariot
mariasole ariothttp://www.nazioneindiana.com
Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) ha pubblicato Anatomie della luce (Aragno Editore, collana I Domani - 2017), Simmetrie degli Spazi Vuoti (Arcipelago, collana ChapBook – 2013), La bella e la bestia (Di là dal Bosco, Le voci della Luna 2013), Dove accade il mondo (Mountain Stories 2014-2015), Eppure restava un corpo (Yellow cab, Artecom Trieste, 2015), Nel bosco degli Apus Apus ( I muscoli del capitano. Nove modi di gridare terra,Scuola del libro, 2016), Il fantasma dell'altro – Dall'Olandese volante a The Rime of the Ancient Mariner di Coleridge (Sorgenti che sanno, La Biblioteca dei libri perduti 2016). Nell'ambito delle arti visuali, ha girato il cortometraggio "I'm a Swan" (2017) e "Dove urla il deserto" (2019) e partecipato ad esposizioni collettive. Ha collaborato alla rivista scientifica lo Squaderno, e da settembre 2014 è redattrice di Nazione Indiana. Aree di interesse: esistenza.