Per una tomba senza nome
[pubblichiamo la prefazione di Antonio Pascale a Per una tomba senza nome, romanzo di Juan Carlos Onetti, edito da SUR nel 2016, e apparsa sul quotidiano l’Unità il 27 febbraio 2016.]
di Antonio Pascale
Alcuni motivi per leggere questo libro
Supponiamo che amate le saghe e tuttavia, proprio perché le conoscete a menadito, riuscite a indovinare dopo pochi capitoli come va a finire l’intera stagione e insomma desiderate qualcosa di più complesso (anche perché qualcosa vi dice che la complessità a volte è affascinante).
Supponiamo ancora che vi piace tanto leggere – e non necessariamente le saghe – ma provate una certa stanchezza per le tradizionali, abusate strutture narrative che da millenni regolano l’andamento di una storia.
Supponiamo poi che desiderate – dopo, appunto, aver letto tanti racconti classici – capire come funziona (al suo interno) una storia: sì, proprio com’è fatta la macchina: non come va a finire il racconto, ma la gestione delle informazioni, la memoria, i punti di vista, la psicologia dei personaggi, la coerenza narrativa, e quindi siete curiosi di sperimentare l’effetto che su di voi provoca non più una semplice (per quanto avvincente) storia ma il caleidoscopico (eccitante) fantasioso movimento delle singoli parti della macchina (narrativa).
Supponiamo che siete nello stato d’animo di cui sopra. Bene, allora questo libro può davvero interessarvi.
Vediamo meglio
Cinque romanzi di Juan Carlos Onetti danno vita a una saga. Lo spazio, il luogo letterario che contiene azione e personaggi è la città di Santa María.
Questo luogo immaginario è composto – per specifica ammissione di Onetti – da due città, Buenos Aires e Montevideo. La prima è la città dove Onetti ha vissuto per parecchi anni – tra l’altro la vita di Onetti è interessantissima, meriterebbe trattazione a parte –, la seconda è dove è nato.
Il rapporto con i luoghi natali, si sa, è spesso problematico; questo vale per tutti e in particolare per gli artisti: nella narrativa di Onetti il ricordo di Montevideo è continuamente trasfigurato dalla nostalgia. E comunque le due città reali, fuse insieme, formano la città letteraria di Santa María.
Non appena il lettore entra, nota subito la particolare grana stilistica: si è immersi in un tempo reale e onirico insieme, gli elementi sono realistici, riconoscibili, in movimento e nello stesso tempo appaiono sospesi. Sembra proprio di vivere un sogno lucido.
Le saghe, almeno in origine – se prendiamo in considerazione per esempio le letterature di due paesi creatori di saghe, l’Islanda e la Norvegia –, erano narrazioni di fatti e personaggi tramandate oralmente, quindi non definite né chiuse, anzi spesso «aperte» (anche contraddittorie) per il continuo apporto orale. Fatti, accadimenti e leggende a cui molte persone poi credevano davvero.
Allo stesso modo Onetti nella sua saga di Santa María (con il suo tempo reale e sospeso) sembra lavo- rare proprio sulla caratteristica orale, dunque, nei va- ri capitoli crea personaggi aperti che subiscono mo- di che e integrazioni e particolari sfumature e ap- profondimenti psicologici, per niente scontati. Cate- ne e sequenze di eventi che partono dalla fondazione della città.
Anche il tempo è aperto e comunque non cronologico, tanto che è necessario (almeno per me) un ordine di lettura (non certo quello di pubblicazione) per individuare bene la successione degli eventi e il raccordo dei fatti. Ci si è chiesti qualcosa di simile per la saga di Star Wars: in quale ordine vedere i capitoli? Tra le proposte avanzate è da segnalare la teoria del machete order.
E comunque il ciclo è aperto dalla Vita breve (1950) ed è chiuso da Lasciamo che parli il vento (1979), il libro nel quale Onetti distrugge la sua creazione – appare un personaggio piromane che brucia tutto. Nel mezzo ci sono tre romanzi, Per una tomba senza nome (1959), Il cantiere (1961) e Raccattacadaveri (1964).
Ma giusto per segnalare i salti temporali, Raccattacadaveri è stato pubblicato dopo ma racconta fatti e personaggi che hanno dato il via alla saga, insomma Onetti abolisce la cronologia, e non sopporta il calendario – c’entra molto la vita dell’autore che negli ultimi anni si autorecluse in camera da letto e si difese dal tempo e dallo spazio scrivendo.
Comunque questi salti narrativi, gli spin-off , i sequel (e i prequel) e così via, anche se hanno dato vita a parecchi schemi critici di lettura, possono non interessare il lettore: ogni romanzo può essere letto come capitolo a sé stante.
La macchina Onetti: provarla per capire le differenze
Abbiamo letto molti narratori latinoamericani: la luce, l’epica, la fantasia, gli intrecci, le esagerazioni, le iperboli, l’impegno politico. Ci sono piaciuti? Diciamo di sì. Sembra dunque che abbiamo letto quello che c’era da leggere e provato la nostra dose di fascinazione.
E tuttavia, per esempio, può essere che siamo interessati alla filologia: come sono nate queste forme sia pur nella loro versione più semplificata e più di moda? Se nutriamo questo interesse scopriamo subito che Onetti è stato uno (sfortunato) precursore e ideatore di innovative forme letterarie – da cui poi altri più facilmente hanno tratto beneficio.
Ha elaborato le suddette quando era troppo presto (molte sue opere inviate a concorsi letterari sono state ignorate e poi dimenticate) ed è stato conosciuto quando era troppo tardi, cioè quando si era di uso su larga scala quel certo modo di intendere la narrativa latinoamericana – e così ancora una volta Onetti è apparso come un soggetto fuori dal tempo.
Poi c’è la questione personaggi: quelli di Onetti non somigliano a quelli inventati da altri narratori. Nemmeno volano sulla lussureggiante (e spesso di diffcile sopportazione) fantasia. Sì, certo, Onetti ha a cuore la rappresentazione della grande avventura umana, ma quest’avventura non è avventurosa nel senso classico, al contrario. Le avventure – ferme, ossessive, cristallizzate nel tempo – dei suoi personaggi sono più di cili da raccontare: altro motivo per spiegare la scarsa diffusione delle sue opere.
Non stilano programmi politici, non desiderano – non lo desidera soprattutto il narratore – sensibilizzare e spingere il lettore all’azione. Appaiono dunque più cupi, più sfiduciati, più egoisti, più chiusi, insomma più umani.
Sono tuttavia preoccupati di capire che rapporto hanno con la realtà, ossia come percepiamo, elaboriamo, costruiamo l’identità, l’immaginario e se, attraverso quali strumenti (sia pure narrativi), possiamo sfuggire alla brutalità della vita. Ecco, questo è il cuore, la questione di principale interesse per Onetti.
Insomma se desideriamo entrare nel mondo di Onetti almeno una premessa è d’obbligo: non siamo di fronte, appunto, a un «prodotto tipico» latinoamericano – nonostante ci siano una città immaginaria e una saga da affrontare, qui a Santa María ci prepariamo a entrare nella siologia della macchina narrativa.
Dunque, questa macchina?
È come una tomba senza nome
Ci chiediamo: ma come funziona la mente di chi inventa storie? Oppure: quanti strumenti uno scrittore ha a disposizione per moltiplicare le potenzialità conoscitive?
Se ci facciamo queste domande – vuoi perché abbiamo letto tanto e ci siamo stancati dei classici intrecci in tre atti, vuoi perché siamo pronti ad affrontare qualcosa di più complesso – e se siamo dotati di spirito investigativo, allora questo libro non solo ci può interessare, ma ci può affascinare.
Cosa si racconta? Di un funerale. Una giovane donna, Rita, è morta. Non c’è nessun assassino tradizionale nei paraggi, quello che interessa a Onetti è capire la problematica (perché troppo vaga) sostanza che struttura questa storia.
Di solito il narratore tradizionale ha in mano gli strumenti per procedere nella costruzione, il punto di vista per esempio: parlo in prima persona, ho visto e ora racconto. Oppure uso il narratore onnisciente, parlo in terza persona, ho totale controllo degli elementi narrativi e ve li propongo.
In Onetti questi classici strumenti sono messi in discussione. Il romanzo inizia con una sorta di plurale collettivo: «Tutti noi, i notabili, noi che ci fregiamo del diritto di giocare a poker al Club Progresso e di tracciare le nostre sigle con pigra vanità in calce ai conti di bevande e pranzi al Plaza. Tutti noi sappiamo com’è un funerale a Santa María».
Tutti noi sappiamo… e invece non è vero. Onetti crea subito delle fratture, delle dissonanze nel patto narrativo – del resto, l’uso del plurale collettivo è un classico nel lavoro di Onetti. Da una parte ci dice: noi sappiamo, dall’altra in quel «noi» non c’è a atto uno sguardo collettivo che sicuro converge su un oggetto e lo mette a fuoco, anzi quel plurale comprende molteplici sguardi, è insomma un’anticipazione della successiva frammentazione dei punti di vista. L’autorità del «noi sappiamo» è dunque messa in discussione.
Resta allora il testimone in prima persona, che ci permetta per così dire di acquisire sicurezza col procedere della narrazione? Nemmeno. La prima persona non è un testimone attendibile; sì, d’accordo, per molti versi è un testimone, ma secondario, perché racconta quello che altri hanno raccontato, e quello che gli altri hanno raccontato, si scopre via via, è ancora frammentato, parziale, troppo contaminato da umori, bassezze, egoismi per essere ricomposto oggettivamente e diventare così fonte primaria di conoscenza.
Il testimone ha uno sguardo indiretto, spesso obliquo, ascoltando si percepisce indifferenza, non certo equità e obiettività di rappresentazione – tra l’altro è interessante questo meccanismo di raffreddamento della materia narrativa: Onetti vuole (coerentemente) un lettore suo pari, all’erta e vigile, non troppo incantato.
La macchina Onetti è appunto una tomba senza nome perché non è sicuro che il nostro sguardo (quello del lettore, ma anche quello del narratore, e degli altri personaggi) possa trovare i nomi giusti da dare alle cose. Ma se abbiamo un po’ di pazienza e ci interessa l’indagine ci proveremo anche noi a rimettere insieme i frammenti, e nel gioco di ricombinazione non saremmo poi diversi dai personaggi di Onetti: presuntuosi, egoisti, spesso ci autoinganniamo, e in ultima analisi siamo bloccati in questo racconto che è la vita.
È la tragedia moderna. Abbiamo creduto che le grandi storie e le cosmogonie fossero opere di dei che indicavano, epicamente, cosa seguire e come comportarci e poi via via gli dei hanno ceduto il passo a un integro soggetto narrante: ci siamo fidati di lui, gli abbiamo riconosciuto la capacità di analisi e di misura, fino a scoprire, siamo in età moderna, che gran parte di questa integrità è soggetta a fallacie e disgregazioni continue, e soprattutto: che i veri protagonisti delle nostre storie sono il tempo e il caos, elementi contro i quali poco possiamo.
È una tragedia la macchina di Onetti? Forse sì. E il rimedio? Trasformare i limiti della narrazione in strumenti di conoscenza e, perché no, di divertimento: se siamo bloccati dalla storia, allora esplorare tutti gli strumenti del racconto può trasformare la nostra quotidiana sconfitta in successo, e perlomeno, di tanto in tanto, la tragedia in commedia.