Il sentimento d’impostura
di Ornella Tajani
Càpita, anche ormai lontani dalla maggior età, di sognare di dover ripetere l’esame di maturità, o di ritrovarsi davanti a un imprecisato tribunale che ci accusa di non aver sostenuto tutti gli esami universitari: nel sogno siamo ingiustamente costretti a tornare fra i banchi per la versione di greco o il compito di matematica, oppure ci accorgiamo di avere per anni montato una truffa, perché nel nostro percorso scolastico o accademico c’è una falla.
Nella realtà che diventa letteratura, la trama di una menzogna di questo tipo è magistralmente sviluppata da Emmanuel Carrère in L’Adversaire. Ma nella realtà che ci riguarda, in quella cioè in cui siamo – da svegli – effettivamente diplomati o laureati, un sogno del genere è per Belinda Cannone, scrittrice e saggista francese, un chiaro sintomo del sentimento di impostura (Le sentiment d’imposture, éditions Calmann-Lévy, 2005; oggi Folio Gallimard; tradotto da Giovanni Lombardo per Edizioni di Passaggio, 2011).
Gli esempi che Cannone fornisce sono vari e accattivanti: si passa dalla letteratura alla psicanalisi, dalla politica al cinema, alla diretta testimonianza di suoi amici e conoscenti. Il sentimento di impostura è quello che affligge tutti gli esseri che sentono, per una loro intima, terrificante e spesso irrazionale convinzione, di occupare da impostori un posto che non gli spetta, una posizione – professionale, sociale, intellettuale, o di rivestire un ruolo all’interno di una relazione sentimentale – che non meritano. Ciò che Cannone vuole descrivere è «una di quelle forme chimeriche della mente che ossessionano un individuo, condizionando a volte la sua intera esistenza o una parte della sua esistenza, e che puntualmente la rovinano» (trad. mia per le citazioni).
Prendiamo un altro esempio: Rebecca, la prima moglie. Nel capolavoro di Hitchcock, Rebecca è soltanto un fantasma: la vera protagonista femminile non solo non compare nel titolo, ma resta senza nome per l’intera durata del film. Questo perché tutta la sua identità è condensata nel ruolo di seconda moglie: nessuna altra complessità sembra esserle concessa. La donna, di umili origini, occupa questa casella sociale afflitta da un fortissimo sentimento di impostura: dopo essersi sposata con l’uomo che ama, il ricco Maxim de Winter, nonostante sia ormai diventata padrona del castello di Manderley, quando qualcuno telefona a casa e chiede della sig.ra de Winter, lei, piuttosto che riconoscersi in quel titolo, risponde «La sig.ra de Winter è morta». Non si sente legittimata a occupare il suo posto accanto a Maxim, nonostante il suo ruolo sia ufficialmente riconosciuto.
«Per provare un sentimento d’impostura, bisogna aver raggiunto un traguardo», spiega Cannone: bisogna cioè aver conquistato la posizione desiderata. Succede, ad esempio, al personaggio letterario del «negro bianco»: in La macchia umana di Philip Roth, Cole Silk giunge all’obiettivo accademico prefissato, celando però a tutti un dato fondamentale sulle sue origini. L’autrice tiene a sottolineare la differenza tra impostura e vergogna, ritenendo che quest’ultima sia determinata da una colpa reale o da una «macchia», appunto, socialmente condannabile. Laddove la vergogna inibisce l’azione e porta all’isolamento, l’impostura si accompagna invece a una volontà più attiva, a un desiderio di vittoria. Schematicamente, per Cannone, «alla triade inibizione-depressione-vergogna, l’impostore contrappone quella desiderio-angoscia-sentimento d’impostura». In verità la distinzione è forse meno netta di quanto affermi l’autrice, poiché impostura e vergogna possono confondersi e sfumare, ad esempio, nel solco di una mémoire humiliée, tema splendidamente trattato da alcuni autori francesi contemporanei (Annie Ernaux, Didier Eribon) e sul quale mi riservo di tornare in futuro.
Uno dei nodi più interessanti del saggio è invece il legame dell’impostura con il precariato: se un tempo l’affermazione professionale era molto più semplice e rapida, diremo quasi automatica, oggi la sua mancanza provoca un inevitabile senso di crisi. Diventa difficile, così, conquistare il famoso posto all’interno della società, o magari questo posto è occupato parzialmente, temporaneamente: al suo interno ci sediamo di traverso, restando scomodi. È una scomodità che diventa esistenziale, alla quale rispondiamo mediante una iper-affermazione della nostra singolarità. In altre parole: se le dichiarazioni «sono un avvocato», «sono una scrittrice», «sono un’insegnante di matematica» suscitano in chi le pronuncia un sotterraneo senso di impostura, perché a parlare è un praticante/una scrittrice senza editore/una supplente, cos’altro si può fare per combattere il senso di crisi se non ribadire costantemente – magari sui social – che si è avvocato, scrittrice o docente di matematica? L’ipotesi di Cannone è che l’autopromozione generalizzata sia una reazione di difesa psichica dell’individuo costretto all’interno di una società labile e precaria, in cui la «casella» da occupare nel mondo non è già pronta, ma è tutta da montare, come un mobile Ikea, e non è detto che si disponga di tutti i pezzi. Oppure ci sono i pezzi ma non le istruzioni: è il caso divertente, per quanto un po’ forzato, di Antoine, un altro degli intervistati, professore di ruolo di letterature comparate, la cui testimonianza sottolinea come il campo della comparatistica richieda ai suoi appartenenti di possedere una imprecisata, ma fondamentale, «identità» comparatista che lui stesso non riuscirebbe a definire. La questione identitaria, insieme all’indissolubile rovello rappresentato dal merito in una società che si vanta della propria meritocrazia, è l’asse principale dell’esplorazione, da parte dell’autrice, del disagio intimo dell’impostura.
Nella parte finale del libro Cannone si dedica a casi di impostura determinati dalla provenienza sociale, trattando esempi di persone appartenenti a classi disagiate che sono riusciti ad affermarsi nel campo del lavoro o della politica. L’autrice, con una provocazione, si spinge a dire che in fondo, nonostante le trombe dell’ideologia meritocratica quasi d’obbligo in una società democratica, la maggior parte degli individui cova nell’animo una concezione aristocratica del valore, legata a una distinzione di nascita. «Non si tratta di credere davvero che il ceto aristocratico sia per natura superiore – chiarisce Cannone -, ma piuttosto del fatto che il loro titolo indica un’antichissima familiarità con il potere». Qui l’autrice cita Freud e la patologia del romanzo familiare, per la quale, dato l’assioma mater certissima/pater incertus, il bambino di origine modesta inizia a fantasticare sulla possibilità di essere in realtà figlio di un uomo ricco e potente. Questo è il tema, fra l’altro, di un bel racconto di Didier Daeninckx, La particule (in Off Limits, trad. Fabio Gambaro, Donzelli), nonché il punto di partenza del saggio di Marthe Robert del 1977, Roman des origines et origines du roman, in cui l’autrice, partendo dallo studio di Freud, teorizzava due differenti tipologie di romanzo: quella dell’enfant trouvé, del trovatello, e cioè della letteratura che inventa, mettendo magari in scena un personaggio che fantastica su un’esistenza straordinaria e altra da quella che gli è concessa (così come fa il trovatello sulle proprie origini; Don Chisciotte sarebbe l’archetipo di questo modello); e quella del bastardo, dunque della letteratura realista, che conosce i fatti, il cui protagonista è consapevole della propria condizione e affronta il mondo per quello che è, cercando di conquistarlo (il Balzac della Comédie, ecc.).
Ciò significa – prosegue Cannone – che la questione dell’essere “nati bene” non riveste solo una dimensione sociale. Nell’infanzia quest’idea si mescola a vari sogni e fantasmi […]. Da adulti, ognuno viene restituito alla propria modesta condizione reale. Così, quale che sia la nostra origine sociale, il vecchio piccolo principe che alberga in ognuno di noi reclama all’io diventato adulto un’identità grandiosa – insostenibile. È da qui che forse proviene il tanto diffuso sentimento d’impostura.
Questa penultima proposizione di Cannone è solo una possibile ipotesi dell’imbrigliabile oggetto d’analisi che l’autrice prova a ritrarre in questo breve saggio, a-scientifico, irriverente e spesso arbitrario, ma ricco di suggestioni. L’epilogo, invece, apre a una interrogazione ampia sul senso dello stare al mondo, sullo stupore primitivo della nascita e lo sconcerto provocato dall’esistere che portano l’individuo a mettersi continuamente in discussione, e a sentirsi spesso fuori posto. È anche da qui che, forse, scaturisce il sentimento d’impostura, faticoso ma appassionante, perché obbliga a uscire da se stessi, a ricercare un confronto costante con l’altro – un altro cher imposteur, mon semblable, mon frère.
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Grazie, Ornella, per aver scritto e per i riferimenti. E’ un tema, una questione, a cui penso molto spesso. Mi chiedo anche, se nella posizione (dalla posizione) psicoanalitica della melanconia, non via sia un possibile sentimento di impostura “a prescindere”. Un senso di impostura che non ha a che fare con il contingente, con l’aver raggiunto una posizione, ma, semplicemente, con l’esserci.
è proprio a ciò che dici che si riferisce l’autrice nelle ultimissime pagine, quando collega il senso d’impostura alla sensazione sconcertante dell’esistere; non nomina direttamente la malinconia, sebbene il discorso vada in quella direzione, e in effetti la tua è un’ottima associazione.
Questo però resta un accenno finale, una chiusa, probabilmente perché altrimenti il sentimento d’impostura si diluirebbe eccessivamente, e per ovviarvi bisognerebbe trasformare tutto il testo in un saggio di psicanalisi. Invece il testo funziona proprio grazie alla sua trasversalità fra le varie discipline, che permette a ogni lettore di riconoscersi in almeno una delle sfaccettature del sentimento di impostura.
libro molto interessante, i pezzi della Tajani sono sempre molto belli
DFW si sentiva un impostore, e infatti si tolse la vita come giuda, l’impostore per eccellenza. https://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/09/22/il-magnifico-impostore/
grazie per la lettura, Sergio. Bello il tuo pezzo. L’impostura come narrazione, la narrazione come impostura (sorvoliamo sul chiasmo). La figura del narratore-impostore meriterebbe un studio a sé, e a quel punto forse bisognerebbe operare una classificazione delle differenti tipologie di impostura e sentimento di impostura. L’esergo perfetto a uno studio del genere sarebbe la frase di DFW che citi, “La paura di cadere rimane una costante”, in ogni tipo di impostore o di presunto tale.
a proposito di chi sta per bruciare vivo e sceglie di uccidersi, c’è un pezzo poco conosciuto di Céline, credo in una sua lettera dei tempi in cui lavorava in Africa, che spiega come anche in natura esistano casi simili. Il francese racconta infatti che in un villaggio africano assistette a una scena terribile: degli indigeni avevano posto uno scorpione in mezzo a un cerchio di fuoco. Dopo alcuni inutili tentativi di uscire dal cerchio, lo scorpione si ammazzò pungendosi col suo stesso veleno.
Grazie a Ornella Tajani e a Sergio Garufi.