L’ultimo arrivato
di Gianni Biondillo
Marco Balzano, L’ultimo arrivato, 2015, Sellerio editore, 205 pagine
Un uomo, sdraiato sul letto della sua cella, in attesa di scontare gli ultimi giorni della sua lunga pena, ricorda. Si rivede bambino, in una Sicilia antica e immobile, ricorda la curiosità che scaturiva ascoltando le storie del suo maestro elementare, ricorda la fame disperata, il lavoro nei campi, la madre malata, il padre anafettivo, l’abbandono forzato della scuola. Ninetto, si chiama. Pelleossa, per chi lo conosce. A nove anni, senza famiglia, emigrerà verso la speranza di una vita migliore, al Nord. Sembra una storia d’altri tempi, eppure ci sono ancora uomini e donne che potrebbero raccontarci, oggi, la loro vita di bambini lavoratori senza famiglia. Marco Balzano, col suo L’ultimo arrivato, ne ha fatto un romanzo di quelle storie.
Il protagonista si muove fra un oggi grigio e disilluso e una Milano del boom dura con gli immigrati dal Sud ma latrice di un illusoria emancipazione collettiva. Le fabbriche, oggi tutte dismesse, erano il sogno di una vita normale per chi ha conosciuto solo fame e disperazione. Finito quel mondo che dava allo stesso tempo tranquillità e alienazione, cosa abbiamo avuto in cambio?
L’ultimo arrivato è sostanzialmente un lungo monologo che parla una lingua che non è più innervata sul dialetto dell’infanzia di Ninetto e non è ancora un italiano coerente e condiviso. Una specie di lingua di mezzo, irrisolta. Come è irrisolta l’esistenza del protagonista, il suo carattere chiuso, scontroso, ma anche curioso e limpido. Ninetto uscirà dal carcere, ma continuerà a rinchiudersi nei ricordi, personale prigione consolatoria. Per tutto il romanzo ci chiediamo quale sia la ragione materiale della sua condanna, anche se sappiamo, forse già dalle prime pagine, che la vera pena è stata la sua stessa esistenza. Una vita senza infanzia. Una condanna che nessuno merita.
(pubblicato su Cooperazione n° 43 del 20 ottobre 2015)
Un libro denso, che ho amato molto.