Guardiola e Mourinho, i duellanti di Paolo Condò
di Giovanni Dozzini
Ero arrivato a Barcellona da due mesi esatti, il 23 settembre del 2002, e un paio di volte m’ero spinto fino agli isolati intorno al Camp Nou per ammirare da fuori l’enorme catino in cui una settimana sì e una settimana no sembrava riversarsi mezza città per assistere alle partite della compagine allenata da Louis Van Gaal, l’olandese rubizzo col naso da boxeur e i capelli impomatati. Il calcio, a Barcellona, era una confessione laica che al tempo ribolliva ben più dei recenti istinti indipendentisti del popolo catalano, ma lo squadrone di Leo Messi e Pep Guardiola era ancora molto di là a venire. Degli eroi del futuro dream-team quella sera scesero in campo solo Charles Puyol, l’enfatico capitano dalla chioma frondosa, e Xavi, il raffinato architetto, allora ancora ventiduenne. Due icone del barcellonismo che più tardi sarebbero entrate nella storia del club e dell’intero calcio spagnolo.
Nell’autunno del 2002, quindi, io ero a Barcellona per studiare da Erasmus. Sui giornali e in metropolitana captavo il nervosismo dei tifosi, che pochi mesi addietro avevano dovuto ingoiare il rospo dell’ennesima Coppa dei Campioni finita nella bacheca del Real Madrid, per di più dopo che i merengues erano venuti a espugnare il Camp Nou con un sonante due a zero in semifinale. E nel Real Madrid, la sera di quel 22 novembre 2002, giocava anche Luis Figo, portoghese dal ciuffo inscalfibile, ala destra elegante e un po’ compassata, che dopo essere stato per anni idolo dei sostenitori culé nell’estate del 2000 li aveva traditi per cedere alle lusinghe dell’odiato nemico madrileno. Nelle due stagioni precedenti, tra Liga e Champions, per qualche ragione Figo non aveva mai calcato il proprio vecchio terreno di gioco con addosso la maglia del Real, e gli idolatri di un tempo, adesso, decisero di riservargli un’accoglienza da brividi. Successe piuttosto presto, dopo che l’ingresso dei blancos era stato salutato da una bordata di fischi e da un calpestio di piedi che aveva fatto tremare tutto lo stadio. Ero riuscito a trovare un biglietto grazie ai buoni uffici di mio fratello, che ora mi sedeva accanto, e vidi distintamente una testa di maiale in porchetta planare in campo dalla curva alla mia sinistra. Era diretta a Figo, avvicinatosi alla bandierina per battere un calcio d’angolo, come poteva anche chiarire il coro cantato pressoché da tutti i quasi centomila tifosi presenti, una volta di più fattisi portavoce degli umori dell’intera Catalogna: “Ese portugues, hijo puta es”. La partita divenne memorabile proprio per quell’episodio, perché in sé fu invece un incontro brutto, noioso, uno zero a zero che scontentò i tifosi di casa e venne incassato senza entusiasmo da quelli del Real. Al di là del maiale e al di là del boato anti-madridista, per me fu impressionante assistere allo spettacolo del Camp Nou ricoperto di blaugrana mentre gli altoparlanti lanciavano l’inno ufficiale. Una coreografia semplice e mostruosa: tutti gli spettatori, noi inclusi, avevano trovato sul seggiolino un foglio di carta da sollevare al momento opportuno. Blu o granata o giallo sul retro, le parole dell’inno sul fronte. Una marcetta da banda paesana, ma urlata come fosse un’esortazione epica e insieme un grido d’aiuto rivolto ai giocatori e ai tifosi dai tifosi stessi: uniti siamo forti, ne abbiamo passate di cotte e di crude, abbiamo dimostrato che nessuno ci potrà piegare. Quanto all’effetto dei fogli levati sulle nostre teste, mozzava il fiato. Tutto lo stadio era un gigantesco stendardo blaugrana, con la scritta “Força Barça” dipinta in giallo proprio dirimpetto a noi. Un capolavoro di minimalismo.
Fu insomma il mio battesimo del fuoco al Camp Nou, dove negli anni sarei tornato altre due volte per vedere delle poco significative partite di Champions, e col clasico. Fu allo stesso tempo una delusione, perché al momento di assicurarmi il biglietto speravo di poter vedere giocare insieme a Figo un altro Giuda per antonomasia, e cioè Ronaldo, il Fenomeno, che poche settimane prima aveva tradito anche me e tutta la gente interista come me, il presidente Massimo Moratti in testa, mollandoci per il Real proprio quando si era rimesso finalmente in sesto dall’ennesimo infortunio, e proprio quando più ne avevamo bisogno: la ferita del 5 maggio all’Olimpico di Roma, con lo scudetto perso all’ultimo respiro a beneficio degli odiati arcinemici della Juventus, era ancora pulsante, e dolorosissima. Ma quella sera Ronaldo aveva qualche acciacco fisico, e persi così l’occasione di ammirarlo giocare dal vivo. Non mi era mai capitata prima, né mi sarebbe più ricapitata. È ancora oggi un mio grande rimpianto.
Al Camp Nou purtroppo non c’ero otto anni più tardi, quando l’Inter di José Mourinho andò a difendere con le unghie e con i denti il tre a uno conquistato eroicamente a San Siro nella semifinale di andata della Coppa dei Campioni, edizione 2009/2010. Era l’anno del Triplete, e anche se so che non tutti possono ricordare a memoria ogni singolo istante di quelle due partite come invece succede a me, immagino che dilungarsi troppo risulti pleonastico: in casa, coi tre gol in rimonta dopo lo svantaggio a opera di Pedro, fu un’impresa da libro di storia, ma al ritorno, dopo l’espulsione di Thiago Motta seguita alla sceneggiata di Busquets, fu un esercizio di grande letteratura. Per giorni a Barcellona avevano alimentato il mito della “remuntada”, perché passare il turno avrebbe significato giocarsi la finale al Bernabeu di Madrid, il tempio nemico da profanare oscenamente e irreparabilmente, e invece non ci riuscirono. Non ci riuscirono grazie alla stoica resistenza dei dieci interisti rimasti in campo per più di un’ora di gioco e alla benevolenza del dio del pallone, che illuminò l’arbitro belga De Bleeckere al momento di annullare il gol di Bojan a una manciata di secondi dal fischio finale per un fallo di mano di Yaya Touré sacrosanto ma difficilissimo da vedere. Se dopo l’espulsione avventata di Motta e la convalida del gol irregolare di Piqué che aveva riaperto i giochi a meno di dieci minuti dalla fine (il fuorigioco del difensore centrale catalano era netto, ma lì per lì se ne accorsero in pochissimi, e di sicuro né io né De Bleeckere) fosse arrivato anche quest’altro torto probabilmente Mourinho, alla fine dell’incontro, avrebbe sferrato il più poderoso attacco mediatico della storia ai colori e alla tradizione del Barça. Invece, per fortuna, l’arbitro fece il suo dovere, e l’isterismo del portiere Víctor Valdés e degli irrigatori sparati contro il giubilo di Mou e della sua truppa a fine partita conferì un tono ancor più epico all’affermazione dell’Inter. Anni più tardi alcuni tifosi del Barcellona mi dissero che quel giorno per loro era stato importante, perché gli aveva insegnato ad affrontare la sconfitta. Ma sono piuttosto convinto che di quell’insegnamento, in realtà, avrebbero fatto volentieri a meno.
Ad ogni modo l’appuntamento tra Mourinho e il Barcellona, o meglio tra Mourinho e Guardiola, sarebbe presto diventato un’abitudine. Un secondo dopo la finale di Madrid vinta dall’Inter contro il Bayern Monaco, il 22 maggio 2010, l’ormai già ex allenatore nerazzurro salì su una macchina del Real che l’avrebbe portato dal presidente Florentino Pérez per firmare un nuovo contratto con la squadra del potere per definizione, la casa ideale per un conservatore portoghese di famiglia salazariana che nel suo mestiere aveva sempre fatto dell’arroganza, dell’egocentrismo e della presunzione la propria cifra essenziale. Ecco, se il mio debito di riconoscenza nei confronti di José Mourinho per la gioia purissima regalatami con la vittoria della prima sospirata Champions League della mia vita è incommensurabile, il mio giudizio su di lui non dico come uomo ma almeno come personaggio fuori dal campo è invece molto severo. E in me questi due sentimenti convivono in maniera ambivalente, lo devo confessare, perché quando Mou parla alla pancia dei suoi tifosi, quando li convince delle esasperate situazioni di accerchiamento in cui ritiene di versare insieme a loro e alla squadra e alla società, soli contro tutti, sempre e comunque, quando evoca il rumore dei nemici e gli zero tituli dei cattivi di sempre e di quelli di turno, ebbene, in quei casi Mou riesce a parlare un po’ anche alla mia pancia. Siamo uomini, siamo tifosi, e da tifosi forse ci possiamo ogni tanto concedere il privilegio dell’irrazionalità. Ma con ciò onestamente fatico a scendere a patti, visto che so benissimo che uno come Mourinho, così plasticamente in grado di incarnare un sistema di valori reazionario e molto lontano da quello a cui ritengo di ispirarmi, non mi dovrebbe piacere per niente, e non dovrebbe piacermi mai. Eppure, a essere altrettanto onesti, nemmeno il perbenismo garbato ed elegante di Guardiola, che per rimanere in politica sarebbe pure una figura tendenzialmente assimilabile al mondo progressista, mi piace. Proprio per niente. Di più: il suo Barça stellare spesso m’ha annoiato, come sempre m’hanno annoiato le squadre troppo esatte, troppo leggiadre, troppo aggraziate. Se mi date Pep o Mou, come allenatore, io mi tengo Mou, come mi tenevo il Trap quando tutto il mondo pendeva dalle labbra di Arrigo Sacchi. Ma quel che penso o sento io in fondo c’entra poco, perché lo scontro tra Mourinho e Guardiola negli anni successivi al Triplete interista è stato totale, e a tratti è tracimato in qualcosa che col calcio non aveva niente a che fare. Nell’aprile del 2011, un anno esatto dopo la semifinale di Coppa Campioni tra Inter e Barcellona, il caso decise di apparecchiare quattro clasicos nel giro di tre settimane: il ritorno di Liga, la finale di Coppa del Re e le due semifinali di Champions. Mou contro Pep, Real contro Barça, Madrid contro la madre di tutte le autonomie. Un altro portoghese, dopo Figo e dopo Cristiano Ronaldo, era pronto a diventare il figlio di puttana per eccellenza del Camp Nou.
La storia di quei venti giorni di fuoco viene oggi raccontata magistralmente da Paolo Condò, una delle prime firme della «Gazzetta dello Sport», in un libro meticoloso come un saggio e avvincente come un romanzo. Si intitola Duellanti (Baldini & Castoldi), e riesce a restituire appieno tutta la fosca magia dell’immaginario del clasico. Condò batte da subito sui tasti giusti, e peraltro sa benissimo che quella tra Mourinho e Guardiola è stata considerata, e lo è tutt’ora, una sorta di guerra di religione che ha luogo dentro e fuori dal terreno di gioco. L’assunto di fondo del giornalista della rosea è intrigante: quando a metà anni Novanta Mou era il secondo di Bobby Robson al Barça Guardiola prese le sue difese al termine di un infuocato scontro con il Real, e forse proprio quel debito di riconoscenza verso l’allora giovane uomo che gli aveva risparmiato almeno un paio di ceffoni ben assestati è un tarlo che nel tempo ha scavato nell’amor proprio di colui che per sé ha avuto l’ardire di coniare il soprannome di “Special One”. Guardiola difese Mourinho, quella volta, e Mourinho non se lo può ancora perdonare. Per questo negli anni in cui entrambi hanno finito per sedersi sulle panchine di alcuni dei più grandi club del mondo José da Setubal ha fatto di tutto per cancellare l’onta e anzi chiarire agli occhi di quello stesso mondo chi dei due aveva il talento, la forza e le palle per prevalere sull’altro. I maschi, alla resa dei conti, restano galli che vogliono il pollaio tutto per sé. Mou è un maschio alfa, e di sicuro anche Pep è un maschio alfa. L’incontro tra i due non poteva che generare scintille.
Condò racconta quelle quattro partite, e soprattutto tutto ciò che gli è stato intorno, con la forza della suggestione e delle informazioni. Il mestiere lo aiuta moltissimo, e in queste pagine traspare soprattutto l’enorme amore che Condò per il suo mestiere nutre: perché fare giornalismo sportivo a certi livelli, oggi, è uno degli ultimi modi per fare il reporter a libro paga, e Condò svela con gusto tutto il sistema dei contatti, dei legami, delle amicizie e delle inimicizie, delle conferenze stampa e dei dietro le quinte, dei viaggi e delle cene, soprattutto le cene, perché mangiar bene e bere bene aiuta a pensare, a capirsi e spesso pure a scrivere. È un mondo sempre più distante, a ben vedere, distante dall’ora e dal qui, i soldi son sempre meno e i giornali sono in crisi dappertutto, e quell’idea di giornalismo romantico e da osteria incarnata dal cronista auto-immortalatosi in Duellanti tende a sfibrarsi ogni giorno di più. Anche per questo il libro è prezioso. La qualità della scrittura di Condò è alta come chi legge i suoi pezzi ogni giorno sa già benissimo, e qui ha il merito di tradurre in una lingua lampante e mai retorica la guerra di logoramento combattuta in quei venti giorni di primavera tra due comandanti che si somigliano come il giorno e la notte.
Il duello tra José e Josep, tra il Giuseppe lusitano e il Giuseppe catalano, li ha costretti a lasciare sul campo di battaglia innumerevoli energie, e in un modo o nell’altro nessuno dei due, dopo di allora, è più stato lo stesso. La cesura netta tra prepotenza madridista e buonismo barcellonista che tante volte mi sono sentito raccontare nei miei mesi e nei miei viaggi in Catalogna, d’altronde, non esiste, come non può esistere un crinale capace di dividere in maniera definita e definitiva i torti di Mourinho dalle ragioni di Guardiola, i vizi dell’uno e le virtù dell’altro, nonostante la pressoché totalità della stampa italiana abbia nel tempo deciso di parteggiare per il principesco condottiero separatista. Guardiola è simpatico, gentile, carino, innovativo, rispettoso, Guardiola è sveglio, Guardiola è smart, così smart da farsi invitare a Palazzo Vecchio da Renzi e diventarne, diciamolo a spanne, amico. Mourinho è l’opposto, è uno che accusa i giornalisti di prostituzione intellettuale e dà del vecchio a Ranieri anni prima della sua parabola da Libro Cuore al Leicester, Mourinho avalla le teorie del complotto e attacca frontalmente tutto e tutti, se gli fa comodo, così come fece con Guardiola e il Barcellona alla vigilia del terzo round di quell’aprile 2011, l’andata di Coppa Campioni, la partita più importante delle quattro della serie. Condò in effetti in questo libro è molto onesto: non prende posizione, anche se è chiaro che nel gioco delle parti Guardiola, al di là di qualche eccesso melenso, è il buono e Mourinho il cattivo. Però il lato oscuro intriga tutti, ed è altrettanto chiaro che qui intriga anche lui. Duellanti si inscrive in una tradizione letteraria calcistica che negli ultimi anni in Italia ha prodotto libri notevoli, come i due di Sandro Modeo su Mourinho (L’alieno Mourinho, del 2010) e sul Barcellona (Il Barça, 2011), entrambi editi dalla compianta nonché insolvente Isbn, anche se sposta l’accento su un piano decisamente più epico, sfruttando al meglio il grande potenziale del confronto tra due personalità così marcate, carismatiche e antitetiche. Oggi José Mourinho e Josep Guardiola siedono sulle panchine delle due squadre di Manchester, lo United per il portoghese e il City per lo spagnolo. Il primo scontro è stato già archiviato a favore di Pep, e al momento, sarà colpa dell’aplomb che si respira a quelle latitudini, l’uno e l’altro (ma soprattutto l’uno) riescono a non andare mai sopra le righe. Ma siamo ancora all’inizio. Paolo Condò già sa che presto o tardi sarà senz’altro costretto ad aggiungere un nuovo capitolo al suo libro.