Intervista a Michele Toniolo

Marino Magliani intervista Michele Toniolo, a proposito del suo “La solitudine dell’immaginazione” (Galaad)

lasolitudinedellimmaginazione-325x447Si può vivere nel Nord Europa, sulla costa, più o meno da soli, si può farlo trascorrendo le giornate a trafficare con le parole e a passeggiare tra dune e riva, ma senza mica capire bene bene cosa si sta facendo. Questa attività del trafficare con le parole, ad esempio, cosa significa? Torturarle, gettarne una parte, riciclarle, da buon ligure, allinearle come un plotone di zappatori del genio militare durante la Prima Guerra e mandarle in trincea? Dar loro l’ordine preciso: al mio fischio… E al fischio vedere che puntano i piedi e saltano su, scavalcano la trincea, armate di 91 e di tronchesini tra i denti, corrono e tagliano il reticolato nemico, migliaia di parole armate che vanno all’assalto… Sono le tue parole pubblicate, mi dico, ma il più delle volte non se ne accorge nessuno, una morte che non sorpassa neanche il primo reticolato, muore addosso allo sbarramento del filo spinato o ci crolla ferita e nessuno si azzarda a soccorrerla perché tra una trincea e l’altra è la terra di nessuno e le parole che restano in quel luogo sono la carne di cannone della letteratura, restano appese alla trappola, ironicamente, quella specie di filo spinato che è la scrittura. E poi uno di quei pomeriggi in cui là fuori si vedono le ottantotto cromature del grigio fiammingo e l’albero sbattuto davanti alla vetrata che secondo me, oltre che fradicio, è anch’esso grigio dentro, grigia la clorofilla, uno di quei pomeriggi uguali in tutto, fortunatamente, al resto di pomeriggi degli otto mesi invernali del Nord, il corriere bussa e ti porta La solitudine dell’immaginazione (Galaad, 2016). Allora per un po’, anche se l’hai letto in pochissimo tempo (è un Lilliput), smetti di torturare le tue parole e di cercarne altre che saranno tue passeggiando, di andare nelle dune qui dietro, di mettere le mani nella sabbia, che è pur sempre terra, e trovare le radici che scendono a pescare risorse nell’umido… E leggi che << Se entra nella terra, la parola scritta entra in chi legge. Riesce a farlo solo nel silenzio, nello spazio che le è stato preparato: anche per leggere bisogna spogliarsi.>>
Michele Toniolo è l’autore di La solitudine dell’immaginazione, ed è anche editore, non di questo Lilliput, la sua casa si chiama Amos e ha sede ha Mestre.
Conobbi Michele una dozzina fa, a Porto Maurizio, durante una fiera del libro che si organizzava su per una bellissima via all’ombra delle palme. Ricordo un titolo del suo catalogo, Discorso di una guida turistica di fronte al tramonto, di Tiziano Scarpa. Parlammo a lungo, del Discorso e di altre cose del catalogo, poi lui alla fiera di Porto Maurizio – che esiste ancora, sia la città che la fiera, ma le palme sono morte  -, con la sua casa editrice non venne più. Non so perché. Tuttavia, ci si è continuati a vedere in giro, ad esempio, quasi ogni anno, a Torino, e un giorno, proprio al Salone, gli parlai di una mia idea che avevo da tempo, di scrivere un libro sugli orti liguri e le vetrate olandesi. Michele ci pensò poco e mi propose di  scriverlo per lui, e da lì Amos cominciò a pubblicare quello e altri miei libri.
E ora, come dire, ora basta, finalmente si parli de La solitudine dell’immaginazione… ma è pur vero che queste cose dovevo dirle, perché se è un editore a scrivere: <<L’immaginazione ha in sé la tentazione di evitare l’ascolto, di fondarsi sulle proprie forze, di raccogliere e trasformare senza conoscerlo ciò che incontra sulla propria strada. Ma l’immaginazione di cui parlo, la capacità del nostro corpo di metabolizzare ciò che ha accolto e trasformarlo in parole nuove…>>, quando ascoltiamo la parola accogliere, e la rileggiamo in quarta di copertina: << Fare il vuoto dentro di sé, prepararsi ad accogliere gli altri: il gesto che ci incammina alla parola scritta nasce nel fare spazio, nell’accoglienza>> non ci può non passare per la mente che una frase del genere  possa contenere anche una specie di poetica dell’editore …

D. E quella sulla possibile poetica dell’editore, è la prima idea stramba che mi ha portato a scriverti, Michele, e a chiederti se vuoi rispondere.

R. Accogliere dovrebbe essere il verbo che permette la conoscenza dell’altro, ma spesso lo castighiamo; preferiamo osservare, analizzare, senza aver fatto spazio in noi per l’altra persona. Per accogliere qualunque cosa bisogna spogliarsi. Dobbiamo sottrarre a noi stessi il giudizio, che verrà dopo, quando si sarà accolto. Prima, è la preparazione di un luogo dentro di noi dove incontrare l’altro. La casa editrice, in parte, è per me questo luogo.

D. La seconda cosa che vorrei chiederti è di raccontarci come nasce la tua scrittura.

R. La scrittura ci conduce davanti a ciò che è decisivo, essenziale. Scrivere è un esercizio dell’essere uomo, un esercizio di fede: non si può tornare indietro dalle parole scritte. La scrittura, come il giuramento, vuole essere irreversibile, vuole escludere la falsità. La scrittura di cui parlo è necessaria perché qualcosa ti ha afferrato. E’ di ciò che ti ha rinchiuso che si scrive. A volte, si scrive dal chiuso: la parola è una prigione. La parola scritta ti guarda e ti giudica. Ecco che cosa sei, ti dice. E ti vergogni di essere ciò che hai scritto, fino al giorno in cui ti vergognerai un po’ meno di essere e di vivere ciò che la parola che hai scritto dice che tu sei come persona. La scrittura deve cambiare chi scrive, deve trasformarlo: se non si cerca questa metamorfosi, perché scrivere? Ma perché questa trasformazione possa accadere devi mettere tutto te stesso in ogni singola parola. Come dice Kobe Bryant: devi giocare ogni partita come fosse l’ultima.

D. La terza, se vuoi, e se non hai già detto troppo rispondendo alla prima domanda, è: come decidi di scegliere i libri da pubblicare. Amos è una casa particolare, un catalogo di qualità, una sola persona che fa tutto, o quasi, tu, e una volta mi hai detto una cosa: sai io i miei autori e traduttori preferisco conoscerli… Mi aveva impressionato questa cosa. Era una battuta che si fa al Salone?

R. No, non era una battuta. Non sempre è possibile conoscere gli autori che si pubblicano, a volte sono morti, altre volti sono troppo lontani per incontrarli. Non si pubblicano libri, si pubblicano persone che hanno scritto un libro. Il mestiere di editore ha a che fare con le persone, non solo con le parole scritte. E da quegli incontri, a volte nasce un’amicizia, nasce un legame che dura nel tempo. E’ questo il momento più bello, credo, per un piccolo editore. E i libri che si pubblicano dovrebbero essere, ma non sempre è possibile, libri che si ha il piacere di avere con sé negli anni.

D. E ora torniamo al La solitudine dell’immaginazione e non perdiamola di vista. Tu dici: << La scrittura non ha senso se non si fonda sulla croce>>. E poi da qualche parte c’è Rozanov: << Signore Gesù, perché sei venuto a turbare la terra, a turbarla e a disperarla?>>. E Roberto Carifi dalla sua Pistoia, che incontravo ogni giorno in una libreria in un vicolo: <<Che l’insperabile della salvezza possa farsi evento… Senza Cristo non avremmo mai sperato>>. E la tua fede, Michele, è la fede di chi cerca la fede – mi sembra di farlo anch’io, sai – come si cerca la parola? Cosa significa chiedersi cosa significa essere scrittori cristiani o cattolici?

R. La croce cristiana abbraccia l’uomo per intero. Nulla viene scartato o lasciato nella dimenticanza. Non chiede doveri esteriori, ma una donazione completa dell’uomo, della pienezza della persona, perché nell’uomo Dio si è incarnato. L’incarnazione è il vero mistero del cristianesimo. Ed è in questo mistero che si concentra la fede del cristiano: Dio che si spoglia per essere uomo. E la spoliazione è ciò che Dio chiede all’uomo per incontrarlo. Non chiede altro. Chiede esattamente ciò che ha dato, non di più. Scrivere non è diverso. Per incontrare la parola, quella che è nostra e che ancora non conosciamo, dobbiamo lasciare tutto, incamminarci e cercare.

D. L’indice sembra proporre un dittico. La solitudine dell’immaginazione (avevo scritto L’immaginazione della solitudine) e altri debiti. Poi si scopre che quest’ultima parte è in realtà un catalogo di letture che ti hanno seguito durante la stesura, e che in qualche modo ti seguono da tempo… Come dici nelle tue parole: << Quando leggiamo cosa abbiamo scritto, non siamo chi ha iniziato a scriverlo…>>, sembra che anche dopo aver scritto, ciò che avevamo letto non sia più la stessa cosa. Ci vuoi dire qualcosa su questo catalogo?

R. Le parole che scrivo (ma credo che accada a tutti) nascono da parole altrui. Parole che ci hanno detto, che abbiamo letto, che non vorremmo aver ascoltato o che abbiamo amato. In fin dei conti, l’uomo è fatto delle parole degli altri: ci servono per dare forma nuova a ciò che siamo. Il catalogo, come scrivi, è una scrittura che appartiene al testo: senza, non potrebbe esistere, per me, nessun discorso sull’immaginazione. Anche se ho inserito solo titoli di libri, e non le persone (amici, conoscenti, sconosciuti) che con le loro parole mi hanno rivelato un mondo per me nuovo.

D. Un solo rimprovero, verso la fine, menzioni Robert Walser, e mi sarebbe piaciuto rileggere il suo nome anche nel catalogo. Forse perché credo che questo Lilliput racchiuda tutta la sua grandezza nelle parole che Walser, vedendo un frate alla finestra di un monastero, durante una passeggiata sulla neve, disse a Carl Seelig: <<Lui ha nostalgia per ciò che è fuori, noi per ciò che è dentro>>.

R. Non sentivo Walser come un autore da citare, ma come un personaggio: è uno degli scrittori che ha trovato le parole. Nella stessa frase l’ho legato a Giona, altro viandante, che ha con la parola un legame che sconcerta: possiede la Parola, ma non vuole capirla, se ne vuole liberare. Mi viene in mente un verso di Rebora: La Parola zittì parole mie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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