Tutto il nostro sangue
di Licia Ambu
Tutto il nostro sangue è un atlante della sopravvivenza.
Narra il punto più profondo della gestazione.
Ti spoglia.
E alla fine ti abita.
Spiegare potrebbe non rendere l’idea, mi rendo conto. Si dovrebbero dare le coordinate complesse per orientarsi: dire che è un noir, un po’ fiaba, ma anche gotico, però fantastico, un romanzo pieno, con punte di mistero e colpi di scena, esoterismo anche. Per poi aggiungere che i piani temporali sono diversi e si alternano lungo tutto l’arco del libro: parliamo di una narrazione che mette radici nell’ottocento e produce rami fino ai quaranta passati del duemila. Si potrebbe uscirne confusi, sulla carta. Gli alberi genealogici, poi, sono una scommessa pericolosissima, per il fatto che coinvolgono epoche diverse, intrecci, sono stipati di nomi e date che sono molte cose tutte insieme a cui stare dietro. Apocalittico e distopico, dal canto loro, sono il genere di parola che fa un certo effetto, descrivibile lungo una scala che va da acquisto immediato a diniego assoluto. Tutto questo è qui e rende il libro fuori categoria.
Protagonisti indiscussi sono l’albero genealogico e la macchia geografica a largo delle coste della Virginia nota come isole Shore. Abitanti e abitate. Le abitate sono fisse in spazio e tempo e devono sopperire e reagire, al modo in cui la specie di turno decide di occuparle; gli abitanti hanno un rapporto di amore e odio con la “loro” terra e tutto ciò che ospita, loro compresi. Luoghi e persone convivono, luoghi e persone cercano di sopravviversi. La sopravvivenza è un fatto. Si può sopravvivere vivendo una vita tranquilla, con un nonno che ti insegna il giro del vento, oppure ci si può trovare in situazioni al limite, ad esempio se tuo padre è un uomo pericoloso, se la pistola è l’unica cosa che hai per difenderti nell’ora in cui sarebbe tuo diritto pieno invece giocare alle principesse, o se lo sballato di turno decide che sei l’oggetto sessuale di una serata tra amici. In casi del genere si cerca di salvarsi la pelle.
C’è sempre qualcuno di cui preoccuparsi. Qualcuno che sa che siamo qui da sole, tanto per cominciare.
A pagina sei è disegnato l’albero genealogico (scommessa vinta). Una sorta di mappa della narrazione dove i racconti sono le singole tappe, i luoghi temporali della storia. Narrazioni naturalmente dislocate nel tempo, riconducibili una all’altra per il tramite di dettagli, particolari, una specie di mi ricordo quella casa, siamo già passati di qua. Ma anche racconti come singoli sintagmi basati su un efficacissimo “qui ed ora” che se ne fregano delle coordinate spazio temporali, risultando molto evocativi e perfettamente connotati. Ad esempio, scrivere che di notte le facevano male le braccia tanto aveva voglia di stringere i suoi bambini, rende più di un’idea. Un’altra cosa degli alberi genealogici è che si leggono per ruoli, o parentele. Se non sai già cose di tuo sono praticamente muti, parlano solo di connessioni inizialmente insignificanti. Poi leggi, e più leggi più cerchi i legami come indirizzi sulla mappa. Si incontra gente ammaliante, sottolineo. Personaggi che compiono azioni, con o senza motivi, fanno cose (sì, vedono gente, è il caso di dirlo) e al tempo stesso sono isole. Esattamente come le Shore, isole che con richiamo potente trattengono tutti gli abitanti, creando con loro un legame anche contro la loro volontà. La gestazione estrema. Quella che non taglia il cordone e si appiccica addosso i figli. Così l’isola possiede tutte le creature che ha generato, così gli uni gli altri si possiedono attraverso parentele, magie, colpe, segreti anche quando non si vogliono. La terra e i suoi abitanti sono speculari e il fatto che si tratti di un’isola rende tutto ancora più viscerale perché l’isola ha quel potere di attrazione magico e fatale. Se sei figlio di un’isola non sarai mai orfano. L’isola qui è madre: genera, ospita, trattiene miserie e miracoli. Una maternità infettiva che si tramanda dal sangue delle sue donne in termini di protezione, generazione, desiderio o colpa. Il sangue scorre nelle vene e rimane lì. È un patrimonio condiviso che può essere una possibilità o una condanna, ma in ogni caso è innegabile: timbro indelebile, marchio della discendenza.
Non sono poi così sorpresa che tu sia tornata, ormai tutti sono fissati con gli alberi genealogici. Per quanto mi riguarda, è solo un’inutile perdita di tempo. Scoprire di discendere da un principe serve solo a darsi delle arie. Ti va un caffè?
Sara Taylor poi elimina tutte le cose che non sono importanti o degne di considerazione, e sposta la luce sui dettagli di senso. I dettagli sono un’essenza, indispensabili per un comportamento o una connessione. I suoi personaggi sono vuoti di stereotipi, nessun manichino da vetrina ma più chiaroscuri da retrobottega, facce nascoste dalle tende del soggiorno, e un soggiorno può essere un antro oscuro molto capace. Vengono scovati nei loro istinti più primordiali, nella loro aggressività, nelle loro paure; e nessuna spiegazione, solo collane di fatti. Sono nudi. In questo libro c’è quella parte umana che è feroce o trema quando ha paura, che scappa da un prima o un dove (o entrambe le cose); un richiamo all’atavico, qualcosa che parla al profondo del nostro sistema e ci spoglia. Ci becca il legame anche a noi, e ci spoglia.
Infine, si vede. Così bene che prima o poi chiederò all’esponente del mio albero genealogico, sul divano accanto a me: ti ricordi quella scena pazzesca con le due ragazzine, nel momento in cui la grande dice quella frase? Dai, quel film col sentiero stipato di gusci d’ostrica che fa sobbalzare la bicicletta e alzare la polvere da terra.
Sara Taylor, Tutto il nostro sangue (Minimum fax, 2016)