Il coraggio dell’ossessione

Valerio Adami - Musa
Valerio Adami – Musa

 

[E’ uscita per Il Saggiatore una nuova edizione del Diario del ladro di Jean Genet, nella traduzione di Giorgio Caproni. Pubblico la prefazione al testo di Walter Siti, col gentile accordo dell’editore. ot]

di Walter Siti

Domando scusa se comincio questa prefazione con un extravagante e imprevisto Epicedio per Erik Rhodes:

Monumentale e rosa mentre finge di lottare
(Cristo alla colonna) con due manigoldi
tanto bruni quanto lui era biondo; un sorriso di rose e un gioco con la bottiglia, a darsi e a prendersi
il naso breve e il ciuffo –
“fammi come a lui!” sotto gli specchi liquidi
della doccia. Marcellino
che mi chiedeva il massimo per la seconda volta (video o non video) in quell’Hotel Sole
che dopo il terremoto giace tra sterpi.
Erik Rhodes si chiamava l’angelo dei pixel
ritrovato ora su internet: “Memorial
of gay pornstars dead” – morto per overdose
(altri per hiv, suicidio, pochissime le altre cause), eroe capovolto, soldato di quel disordine
che per una notte illuminò anche me
prima del crollo, e l’uomo che mi dormiva accanto – due vigliacchi ancora vivi.

Chi ha conosciuto l’ossessione erotica non può rileggere Genet senza sentirsi personalmente coinvolto ma anche, purtroppo, senza sentirsi un disertore: al di là delle differenze caratteriali e di talento, ambientali e biografiche, Genet lo interpella direttamente, gli chiede conto degli escamotages con cui ha cercato di morire per rinascere, venendo a patti con la normalità della maggioranza e col passare degli anni. Genet scrive a partire da una condizione psicologica del tutto particolare e minoritaria, incontra personaggi estremi ma la sua scrittura tende al generale, all’assoluto: ha l’intemporalità di un classico. Il romanzo della sua autobiografia non si intitola “diario di un ladro” ma Diario del ladro: non importano l’esattezza o la completezza delle informazioni, né la consequenzialità temporale e logica delle vicende, né tantomeno la giustificazione del medico o del sociologo, importa la fissazione di un mito. «La sua autobiografia» scrive Sartre «è una cosmogonia sacra: non racconta fatti, ma riti.» La scrittura di Genet non si abbassa alla cronologia, disprezza il servilismo della chiarezza, la banalità dei tessuti connettivi: va dritto a ciò che gli tronca il fiato. L’ossessione erotica è un esercizio prolungato di apnea, è l’attesa spasmodica e senza fine di quel che può solo deludere; l’ossessione nega la realtà ma ha bisogno di rinfacciare continuamente alla realtà la colpa di non essere sufficiente; è l’intensità vitale proiettata su ciò che è morto da tempo, o non è esistito che come mitica mancanza.

Genet ha trentaquattro anni quando conosce Sartre ed è stato scarcerato da pochissimo (gli resta qualche mese di condanna che non sconterà mai, e i suoi nuovi amici intellettuali gli otterranno, per l’ennesimo furto, la grazia presidenziale); ha già conosciuto Cocteau, folgorato dal poema Condannato a morte, e la sua fama di “scrittore criminale” si diffonde rapidamente a Parigi – le signore lo invitano nei loro salotti, deliziosamente titillate dal brivido di poter essere “rapinate” di qualche soprammobile. Genet gioca la sua parte col misto di astuzia e imbranata ingenuità che gli è proprio; per essere un cronico, naturale dropout il suo successo editoriale sarà sorprendente: grazie a un abilissimo agente letterario le sue opere sbarcheranno negli Usa verso la metà degli anni cinquanta e influenzeranno la beat generation. Ma Genet è fisicamente, quasi geneticamente refrattario all’integrazione; lui stesso ne chiama a testimone la propria faccia, quel «naso schiacciato non dal pugno d’un uomo ma per aver urtato contro i cristalli che ci tagliano fuori dal vostro mondo». (Il “noi” si riferisce contemporaneamente ai delinquenti e agli omosessuali, in un nesso causale, elettrico e amoroso che Genet non metterà mai in discussione.)
Ma con Sartre le cose si fanno più complicate: non è solo un mentore, un protettore, un maestro; per Sartre, Genet è anche una cavia su cui applicare quel metodo di “psicanalisi esistenziale” a cui affida un ruolo notevole nella sua visione filosofica complessiva. Ci ha già provato con Baudelaire, si porta dietro da anni il progetto di un lavoro monumentale su Flaubert; l’esplosione improvvisa del “caso Genet” lo porta a scrivere (uscirà nel 1952) un libro di settecento pagine, Saint Genet comédien et martyr, che sarà per Genet stesso un segno di gloria raggiunta e una formidabile trappola. Genet, che da tipico trovatello ha molto elucubrato sul proprio cognome (il cognome della madre che l’ha abbandonato), sa già che “genêt” con l’accento circonflesso significa “ginestra”, e il dialogo coi fiori è diventato un punto fermo del suo universo culturale; forse non sa che “genet” senza accento è il “ginnetto”, cavallino spagnolo agile e veloce; ma da Sartre impara che “Genêt”, col circonflesso e la maiuscola, è invece Genesio, l’attore che sotto Diocleziano si convertì al cristianesimo mentre recitava e per questo venne martirizzato, secondo il dramma di Jean de Rotrou (Le véritable Saint Genêt, comédien et martyr) a cui Sartre si è ispirato per il titolo.
Il rapporto di dare e avere tra Sartre e Genet, nelle conversazioni tra il 1944 e il 1952, è molto complesso: a Sartre appartiene l’invenzione del “mito originario”, fissato nell’episodio di quando, all’età di dieci anni, il piccolo trovatello viene sorpreso a rubare dalla famiglia adottiva. Quello, per Sartre, è l’istante che tornerà sempre nella vita di Genet, inchiodandolo all’icona del “ladro”, costringendolo a diventare ciò che gli altri vogliono che sia, a recitare continuamente la parte di se stesso; da lì deriverebbero anche i modi della sua sessualità, “bloccata” sull’apparenza e attratta da esseri deboli che a loro volta recitano la parte dei bruti, in un claustrofobico gioco di specchi. Lo sdoppiamento sarebbe la figura tipica della sua letteratura, la negazione di sé in quanto soggetto libero. L’acume critico è indubbio, coglie con precisione violenta il nodo centrale: e Genet lo riconosce, lo fa proprio, esagera in sartrismi. Nel Diario parla del «bisogno di diventare quel che m’avevano accusato di essere», dice cose come «non basta aver commesso un delitto, bisogna meritarlo»; l’aneddoto di Stilitano smarrito al luna-park nel labirinto di specchi, che Sartre cita proprio dal Diario rendendolo emblematico, verrà ripreso da Genet nel balletto ’Adam Miroir; un’eco sicura di Roquentin e della Nausea, col valore metafisico dei dettagli straniati, è nel passo del Diario in cui il protagonista si incanta su «una molletta per stendere i panni abbandonata su un fil di ferro». E ancora: l’evocazione sartriana della santità lo convince di avere «nelle budelle l’idea di Dio», sia pure stravolta nell’impeto blasfemo; e il suo universo unicamente maschile (fatta la sacra eccezione della madre, di cui parlerò più avanti) perde l’innocenza cameratesca sotto la pressione del femminismo ideologico della coppia Sartre-De Beauvoir (oltre che a Sartre, il Diario è dedicato “al Castoro”, che era il soprannome di Simone). Eppure, con la sorda ostinazione dell’autodidatta di fronte a uno dei maggiori intellettuali europei, Genet resiste a Sartre, gli oppone le proprie verità; su una cosa soprattutto non cederà mai, sull’asserita (da Sartre) priorità del furto rispetto all’attrazione omosessuale; se di una cosa Genet è certo, è che lui si è sentito attratto dagli uomini prima di cominciare a rubare, e che il furto è una conseguenza del proprio essere omosessuale, non viceversa; glielo confermano il suo polso, il suo cazzo, il suo cuore. Delle tre “virtù teologali”, tradimento furto omosessualità (affascinanti attributi della Gestapo francese), la prima è la più clamorosa e pubblica, la seconda è poco più di un risarcimento, ma la terza è la più intima e sorgivamente poetica.

Ho idea che Genet abbia ragione: più del mito sartriano conta forse un mito soggiacente, più antico e di molto precedente i dieci anni, voglio dire il racconto rimosso e luttuoso di una madre che abbandona il figlio (una madre immaginata come ladra-mendicante o regina-prostituta, comunque sopra o sotto la società) e di un figlio che mediante il procurato disprezzo vuole diventare la madre. Quel che colpisce nell’ossessione di Genet è l’inestricabile complementarità tra autolesionismo spettacolare (simile a quello di certi mistici, Jacopone o i “santi folli” bizantini) e attrazione per l’autoritarismo assoluto e tirannico (i guardiani del bagno penale, i poliziotti, le ss); sadomasochismo, certo, ma intinto in una tenerezza che lascia esterrefatti. I muscoli spietati sono fatti di gelatina e Genet li accoglie come solo una madre saprebbe fare; lui che aiuta il magnaccia monco Stilitano a infilarsi l’unico guanto, o lui che nel Miracolo della rosa (ce lo racconta nel Diario) assume su di sé, dicendo “io”, l’umiliazione di un altro ergastolano, come una madre che soffrendo preserva il figlio da un dolore. Sartre, incaponito sullo stereotipo del pedé passivo in adorazione della “rigidezza”, non capisce di quanta dolcezza sia anche composta la sessualità di Genet, vedi per esempio l’istantanea di Lucien che «strofina il naso sulla mia barba, dandomi così delle delicate testate, come un vitellino che poppi la madre». La “santità” genetiana non è solo l’altro polo della criminalità ma nasce da una gratitudine più profonda, da una gioia (anzi, da una “letizia”) che solo l’ossessione può dare quando ti regala l’assoluto incarnato in un corpo; il culo di Stilitano è davvero (senza un’ombra di ritorsione blasfema) un “reposoir”, cioè la pisside che contiene l’eucarestia, e nel gesto di un piccolo giostraio si può nascondere davvero, come nell’Aleph di Borges, «la città di Anversa che lo conteneva, la Terra che girava con precauzione, l’Universo che custodiva un fardello così prezioso, e io stesso lì, sgomento di possedere il mondo e di sapere che lo possedevo». Sartre ha inteso benissimo la tragedia di Genet, ma non la sua allegria.

Secondo Sartre, tutto preso dal proprio sistema filosofico e che di omosessualità non sa niente, la biografia di Genet non può essere che immobile, chiusa per sempre in un’eterna coazione a ripetere. Così non si accorge (o non gli dà peso) che il Diario ha la struttura di un romanzo di educazione, per non dire addirittura di un Bildungsroman. Per riassumere rozzamente questo percorso possiamo dire che il protagonista sperimenta la passività (sessuale e psicologica) con Stilitano nella prima parte del libro, per poi passare a un ruolo protettivo e virile col fragile Lucien; ma scopre, quando ritorna Armand (il “bruto perfetto”), che questi della sua nuova virilità e maturità non sa che farsene, tutt’al più può ormai trattarlo da amico e non da amante; allora Genet desidera con tutte le forze tornare passivo, rifrequentare i luoghi sordidi, abiurare la propria crescita; progetta di lasciare Lucien e sogna di farsi possedere da un negro gigantesco che «più immenso della notte, mi coprirà mi schiaccerà la sua notte, dove a poco a poco mi diluirò». È una resa alla coazione nevrotica, certamente, ma è anche il lieto fine di chi sceglie la fedeltà a una Legge che lo supera; è il coraggio eroico di obbedire al proprio destino di ossessione (consapevole che per lui, fuori dal mito, non c’è desiderio), senza cercare scappatoie o fughe nella guarigione, credente in quell’assoluto di seconda mano che è il sesso, ma non per questo credente con meno fervore. Se un mutamento ci sarà, non sarà né perbenista né astrattamente ideologico ma etico in un senso più serio e creaturale: «Se la forza e la bellezza non possono unirsi in me, che almeno la mia bontà, da sola, fuori di me, riesca un nodo di perfezione». “Fuori di me” vorrà dire, per il Genet degli anni sessanta e settanta, la vicinanza con le Pantere Nere americane e coi fedayn palestinesi, l’interesse per il terrorismo del gruppo Baader-Meinhof; ma niente a che vedere con gli engagements degli intellettuali, per lui sarà sempre una questione di carnalità e di sesso, fino a quell’agghiacciante e sublime tu-per-tu con i cadaveri nel 1982 a Chatila, primo europeo a camminare per le viuzze della strage.
«Il mio libro» scrive alla fine del Diario «divenuto la mia Genesi, contiene i comandamenti che non potrò trasgredire»; il Diario non è una biografia romanzata, è il romanzo della scoperta di sé, anzi dell’invenzione di sé. I fatti empirici sono trattati con disinvolta sprezzatura: il periodo spagnolo è molto dilatato rispetto al vero, sui sei anni di servizio militare sostanzialmente si sorvola, si narra una diserzione dalla Legione Straniera in realtà mai avvenuta. Conta il succo, non la cronaca, il momento della memoria e quello della scrittura presente si confondono; hegelianamente (ma anche proustianamente) il reale conta solo in quanto è razionale.Tutto questo varrebbe ben poco se non fosse sostenuto dalla scrittura abbagliante di Genet: uno stile fastoso, barocco, di una ricchezza metaforica che sfida l’eccesso a ogni pagina; un francese eccessivo e magnifico che deriva da un originario complesso di inferiorità («quel che avevo da dire al nemico, bisognava dirlo nella sua lingua») – ma oltrepassando il segno la lingua si esibisce, si pavoneggia, diventa fiore e gioiello. Una lingua transessuale che avviluppa i corpi e li incorona, riscattando l’infamia con lo splendore, «carica di prestigio più che di senso».
«Le palme! Un sole mattutino le dorava. Fremeva la luce, non le palme. Erano le prime che vedevo. Orlavano il mar Mediterraneo. La brina sui vetri, d’inverno, aveva maggior varietà, ma al pari di essa le palme mi precipitavano, meglio di essa, forse, nell’intimo di un’immagine natalizia nata paradossalmente dal versetto sulla festa precedente la morte di Dio, sull’ingresso a Gerusalemme, sui rami di palma gettati sotto i piedi di Gesù. La mia infanzia aveva sognato palmizi.» L’estetismo non si vergogna di mostrarsi ma è bruciato da una radicale, prelinguistica vocazione alla poesia. C’è un’analogia sostanziale tra la condizione psicologica di Genet che si sente “vissuto dall’esterno» e il poeta che “è parlato” dalla lingua; il parlante è immaginario e le parole sole sono autentiche, quindi non resta che lasciare l’iniziativa alle parole. Genet è intrinsecamente poeta prima ancora di scrivere un verso, ed è così sicuro di essere abitato dalla poesia che la contamina senza scrupoli con la grazia sbilenca del non-finito: il Diario è pieno di puntelli, di lacune, di note di lavorazione, senza perdere nulla della sua perfezione di classico. Le metafore barocche portano in sé la metamorfosi; tutto è in trasformazione nelle pagine del Diario: la Spagna diventa Belgio, gli uomini diventano donne, le galere dimore regali, l’inverno diventa primavera, i corpi altari, santi gli assassini – «la santità consiste nel costringere il diavolo a essere Dio». Ottenere il riconoscimento del Male per via di bellezza, questa è la missione di Genet: «Del male imporrò la visione candida, dovess’io, in tale ricerca, lasciar la pelle, l’onore e la gloria». In un’epoca poststilistica come la nostra, in cui la «forma delle parole» sembra impallidire o si trasforma al massimo in un hashtag, leggere Genet significa ritrovare uno dei compiti fondamentali della scrittura, che è quello di farci complici dell’inaccettabile. Un’opera nata dalla paura e dalla frustrazione onanistica attraversa la storia come un’iniezione di coraggio.

Pochi cenni infine sulla traduzione di Caproni: datata, un po’ inamidata forse, qualche volta è impacciata da preoccupazioni censorie “d’epoca”. A p. 140, per esempio, «vous n’avez qu’à aller vous faire balader» (traducibile senz’altro, dato il contesto, con «non dovete far altro che andarvene affanculo») è tradotta con un gentile «non vi resta che andarvene… a spasso»; a p. 20 un riferimento sessuale esplicito («J’ai bandé pour le crime») diventa più nobilmente «ho spasimato per il delitto», e altri esempi si potrebbero addurre. Ma non è questo che conta, né importa lo sforzo con cui il gergo malavitoso ha dovuto cercare appigli in tutti i dialetti italiani, non nel toscano solamente; quello che importa è che Caproni, da poeta vero, ha saputo mantenere la materia preziosa e antiquotidiana della lingua di Genet, senza banalizzarla in un fiacco italiano standard né (peggio) drammatizzarla artificialmente in un hard boiled di volgarità un tanto al chilo. È giusto che la lettura di un classico sia ad ogni riga una fatica e una sorpresa.

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Ornella Tajani insegna Lingua e traduzione francese all'Università per Stranieri di Siena. Si occupa di studi di traduzione e di letteratura francese del XX e XXI secolo. È autrice del saggio "Tradurre il pastiche" (Mucchi, 2018). Per Marchese editore ha tradotto e curato L'aquila a due teste di Jean Cocteau (premio di traduzione Monselice "Leone Traverso" 2012) e Tiresia di Marcel Jouhandeau (2013). Ha scritto una tesi di dottorato in Letterature comparate sul Kitsch e il romanzo contemporaneo ed è uno dei membri fondatori del collettivo italo-francese di traduttrici meridiem. Suoi articoli e recensioni sono apparsi anche su Alfabeta, L'indice dei libri del mese, Le parole e le cose. Seguendo questo link, la lista completa dei suoi post: https://www.nazioneindiana.com/tag/ornella-tajani/ - Cliccando su "View all posts", una lista parziale