Il giro del miele
di Edoardo Zambelli
Sandro Campani, Il giro del miele, Einaudi, 2017, 242 pagine
Fin qui, non oltre.
Nel corso della lunga notte raccontata da Sandro Campani nel suo ultimo romanzo, questa frase ritornerà di continuo. La tacca sulla bottiglia di grappa e poi la frase: fin qui, non oltre. È il modo che i due protagonisti, Davide e Giampiero, hanno di misurare il tempo di questo loro (forse ultimo) incontro.
I due, in un passato non troppo lontano, sono stati molto legati. In fin dei conti, lo sono ancora. Nonostante la differenza d’età, in qualche modo sono stati addirittura figli dello stesso uomo, Uliano, che per Davide – il figlio biologico – è stato un padre distante, incapace di grandi slanci, mentre per Giampiero – suo apprendista – è stato un maestro generoso, gli ha insegnato un lavoro e, si potrebbe quasi dire, lo ha reso ciò che è.
La narrazione si apre, quindi, con Davide che una notte si presenta a casa di Giampiero e chiede di essere ascoltato, portando con sé l’urgenza di un conflitto da risolvere. Inizia da qui un lungo dialogo e presto il tempo della narrazione si sdoppia, il lettore si ritrova a seguire tanto il confronto tra i due quanto la ricostruzione delle loro vite.
L’abilità dell’autore, soprattutto nella prima parte, è nel suo continuo mostrare e nascondere, accennare a un problema, a un qualcosa di irrisolto, per poi portare l’attenzione da un’altra parte, lasciando al lettore una tensione continua che lo spinge ad andare avanti, a guardare nelle vite dei protagonisti, cercando le origini di questo o quell’evento, aspettando lo svelamento di un segreto.
Sarebbe sbagliato, però, pensare il libro come un vero e proprio incontro/scontro tra due personaggi. In realtà, almeno secondo me, si tratta piuttosto del racconto di una caduta, di uno smarrirsi. Certo, ci sono ferite e conflitti tra Davide e Giampiero che verrano precisandosi solo nel proseguo del racconto, ma non è quello il punto centrale della narrazione.
Non stavo insieme a lui in una stanza da chissà quanto tempo, da quando ancora lavorava con le api, quando ancora era sposato con la Silvia e le cose gli andavano bene. Avevo detto all’Ida “Adesso arrivo”, ma dallo sguardo che Davide aveva, venendo a questo modo, dopo anni e a quest’ora di notte, ho capito che non avremmo finito finché lui non si fosse liberato del peso sotto cui strabuzzava gli occhi; a questo gli servivo io.
Davide è stato un ragazzo (un ragazzone, anzi) benvoluto da tutti, per il suo aspetto rassicurante, per un certo candore nei modi e nel suo rapportarsi al mondo, poi pian piano è cambiato, è diventato un altro, e ha finito col perdere quanto di più caro abbia mai avuto: Silvia, sua moglie.
Ecco, è nella faticosa conquista dell’amore e nella sua dolorosa perdita che il romanzo trova il suo centro, perché in questo è contenuto tutto il resto. Silvia, che Davide conosce da sempre, ha vissuto quasi da sola gli anni dell’adolescenza, priva di qualcuno con cui poter condividere i propri turbamenti. Poi si è spostata a studiare a Bologna e lì ha trovato un’amica importante, Adele, che la seguirà per il resto dei suoi giorni. Allo stesso tempo, però, ha trovato anche un ambiente, quello universitario (fatto di feste e concerti, piccoli e grandi eccessi) che se all’inizio ha avvertito come accogliente dopo un po’ le ha provocato solo repulsione. Proprio in quello snodo della sua vita, incontra nuovamente Davide e pare quasi guardarlo per la prima volta. In lui riscopre tutta una serie di cose che le appartenevano e che aveva dimenticato. Silvia, allora, lascerà Bologna e tornerà a casa, pronta a iniziare una nuova fase della vita assieme all’uomo che ama.
Di questa storia vengono raccontati i dolci momenti iniziali, gli attimi di felicità e i progetti per un futuro assieme. E poi dopo, accompagnati dal tracollo di Davide, le incomprensioni, i tentativi disperati di tornare al passato, i silenzi che si fanno pian piano più ostili fino a diventare aperta avversione.
E Davide, intanto, continua a cadere. Forse proprio a causa del candore cui ho accennato prima, forse per un mai superato complesso di inferiorità nei confronti di sua moglie, non riesce ad arrestare in tempo la sua discesa.
E poi si è alzata, e ha cominciato a scendere, sbagliando strada, ma io dietro stavo zitto e la seguivo, anche quando s’è andata a incasinare in mezzo a dei reticolati, a dei recinti abbandonati di pastori, un’orbara di faggi ingombra di pattume, buio come se fosse notte. Poi finalmente siamo sbucati fuori, e fino a casa non abbiamo più detto niente. Solo che arrivati giù alla baita io son dovuto entrare, per ripicca, a bere due grappe alla goccia, e nel tornare a casa non ero più in me. Avevamo tutti e due la testa sbalinata, piena di cose sinistre, per via di quel bosco che avevamo attraversato.
Ho volutamente tenuto fuori tante cose, tante sfumature, tanti personaggi. Quello che non posso tenere fuori è la capacità di Campani di costruire una voce narrante tanto credibile da riuscire ad evocare tutto un intero mondo, quello delle piccole comunità, di un modo di parlare carico di espressioni gergali, di uno sguardo periferico nei confronti del resto del mondo. La prosa di Campani è potente, musicale, precisa e ricca. Alla fine se ne esce con l’impressione di avere ancora nelle orecchie il ronzio di un’ape e nel naso l’odore di segatura o quello di un giubbotto di pelle.
Come ho già detto, in questo romanzo c’è tanto altro. Ci sono personaggi secondari, c’è il mondo della falegnameria, quello delle api e della produzione del miele, ci sono rivelazioni, piccole e grandi violenze, incendi, odiose bassezze e inattesi momenti di tenerezza.
E infine c’è una lince che si aggira fuori, nel buio. Ma un personaggio, in questo libro, giura non si tratti solo di una lince…